1.11 IL CASO BERNARDINI
Il manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli fu aperto nel 1955 e balzò prepotentemente all’attenzione dell’opinione pubblica nel 1975, anno in cui venne chiuso per essere trasformato in carcere femminile.
Il 5 gennaio del 1975 i quotidiani riportano la notizia della morte di una detenuta, Antonia Bernardini, avvenuta all’Ospedale Cardarelli di Napoli il 31 dicembre 1974, dopo quattro giorni di agonia, a seguito delle ferite riportate nell’incendio del materasso sintetico del letto a cui era stata legata per almeno quattro giorni.
La vittima, una donna di quarant’anni, proveniva da una borgata romana, era sposata e madre di una figlia e da tempo soffriva di disturbi mentali; gli psichiatri dell’ospedale Santa Maria della Pietà di Roma, dove la donna era stata ricoverata diverse volte, l’avevano classificata una “distimica recidivante”. Durante una crisi depressiva la Bernardini decise di recarsi a Reggio Emilia, dove aveva già ricevuto altre cure. Alla stazione Termini, mentre era in fila alla biglietteria, ebbe un banale battibecco con un’anziana signora; intervenne un giovane che la spintonò e la donna reagì con uno schiaffo. Il giovane dichiarò di essere un carabiniere e la donna venne arrestata e inviata nel carcere femminile di Rebibbia. In carcere, constatate le sue condizioni mentali, l’arrestata fu trasferita presso l’ospedale psichiatrico Santa Maria della Pietà, da cui approdò poi al manicomio giudiziario femminile di Pozzuoli per essere sottoposta a osservazione. Ci resterà un anno e due mesi, ma, in attesa di processo, il trattamento cui viene sottoposta consiste essenzialmente in forme di contenzione: legata al letto, dove troverà la morte (Manacorda, 1982).
All’indomani del decesso e della pubblicazione dell’articolo si alzarono le proteste della società civile, e lo stesso sottosegretario alla Sanità, Franco Foschi, chiese la chiusura del manicomio giudiziario di Pozzuoli.
Per la morte della Bernardini furono rinviati a giudizio il direttore e il vice direttore dell’istituto, una suora e tre vigilatrici. Il processo si svolse due anni dopo i fatti, dal 17 febbraio al 17 giugno 1977, e portò alle condanne del direttore a quattro anni e mezzo di reclusione, del vicedirettore a quattro anni, della suora e delle tre vigilatrici a pene minori. La sentenza cercava di affrontare, tra l’altro, il problema della liceità e dell’utilità dell’uso del letto di contenzione quale mezzo terapeutico, affermando in proposito: “Questo collegio non ignora, infatti, che, secondo alcune delle moderne correnti psichiatriche -che si contrappongono a quelle, per così dire tradizionali- i mezzi contenitivi in genere, oltre che una inumana e barbara forma di sopraffazione violenta della personalità dell’individuo, hanno un valore terapeutico negativo determinando, in definitiva, un aggravamento delle condizioni mentali del paziente coartato.”
La sentenza d’appello per i fatti di Pozzuoli, però, smentì quella di primo grado e ignorò il contenuto della norma riportata sopra, affermando invece la legittimità della coercizione dei pazienti psichiatrici ed assolvendo così tutti gli imputati dalle accuse contestate. L’unica differenza fu nelle motivazioni delle assoluzioni: il direttore, il vicedirettore e la suora furono assolti con formula piena, le tre vigilatrici per insufficienza di prove (Borzachiello, www.ristretti.it).
Soffro di disturbi bipolari e a causa di questi disturbi sono stato denunciato per atti persecutori e lesioni personali. Io non ricordo la vicenda ma cosa può accadere in fase processuale?
I love reading through an article that can make men and women think.
Also, many thanks for allowing me to comment!