I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA), e soprattutto l’Anoressia Mentale, sono un topos[1] che ci chiama a una riflessione sulla pratica clinica, sulle emergenze che caratterizzano il divenire della psicopatologia e quindi non di rado della società. I DCA ci chiamano anche a riflettere sugli aspetti antropologici che determinano un nesso di causalità e proliferazione di sintomi all’interno della relazione tra cibo e corpo. Siamo così obbligati a tenere conto della complessità del disturbo e di come lo stesso possa evidenziare una patologia dipendente non solo dalle relazioni più prossime, intra- ed inter-familiari, ma anche dai mutamenti culturali.
I DCA come malattie mentali transitorie
Propongo quindi di guardare ai DCA come a delle “Malattie Mentali Transitorie”, come un tempo ad esempio l’Isteria e i “Viaggiatori Folli” (Hacking, 1998), la Sindrome da Affaticamento Cronico, forse anche non pochi disturbi Borderline.
Propongo allora la metafora di “nicchie ecologiche”: l’ipotesi è che alcune malattie mentali sorgano in relazioni a particolari atmosfere socio-culturali, le nicchie ecologiche appunto, o meglio che stati di sofferenza psichica, che comunque emergerebbero, trovino forme espressive in relazione a peculiari influenze che sono:
- Ambientali
- Sociali
- Culturali
- Storiche
Nel caso dei DCA il modello culturale è, da un lato, il culto esasperato del corpo, della magrezza e, dall’altro, è il consumismo e l’omologazione di massa che mortificano l’individualità nostra e dell’altro da noi.
Libri che parlano di anoressia nervosa
Zygmun Bauman (2009) in L’arte della vita parla della nostra società postmoderna, una società che egli definisce liquida, metafora e veicolo di questi patologici e drammatici scambi con il mondo. Il corpo diviene minaccioso, la “bestia” minacciosa da controllare, addirittura da rifiutare… fino alla morte mentale ma, ahimè anche fisica.
Jeammet (2016) in Cibo e corpo negati (Ferro & Giusto, 2016), avvicina questi disturbi alle perversioni narcisistiche e alle molteplici forme attuali di dipendenza. Egli, sempre in Cibo e corpo negati, scrive che il paradosso centrale dello sviluppo dell’essere umano, che la pubertà e l’adolescenza esacerbano, è il muoversi tra due necessità: quella del legame agli oggetti di attaccamento, di cui bisogna nutrirsi per crescere, e quella del differenziarsi da loro per divenire sé stessi.
L’Anoressica non tollera il bisogno dal quale si sente invasa in modo intollerabile. “Sicuramente – ancora scrive Jeammet – è altra cosa dal cibo quello di cui ha fame e si sente terrorizzata”. Allora l’immagine corporea non è mai abbastanza sottile, mai perfetta, perché il corpo si può annullare del tutto solo… nella morte e nel delirio psicotico.
Altri scritti fondamentali per la mia formazione
Fondamentali per la mia formazione alla comprensione, se pur sempre parziale, e alla cura delle forme gravi di Anoressia Mentale sono stati gli autori che qui ricordo.
- Hilde Bruck (1978) che nel suo testo La gabbia d’oro collegava il rifiuto del corpo, mediato dal rifiuto del cibo, con il rifiuto della figura materna, con il terrore di abbandonarsi al legame con un altro da Sé e al piacere di essere donna.
- Mara Selvini Palazzoli della quale negli anni 1970 frequentai la scuola di Terapia Familiare diretta insieme a Boscolo e Cecchin; allora cominciai a incontrare le pazienti anoressiche e a curarle a Reggio Emilia dove allora lavoravo (sedute con lo specchio unidirezionale).
- Mara Selvini Palazzoli (1981) in L’anoressia mentale definirà tale sofferenza – parlo sempre delle forme gravi – una “psicosi monosintomatica”, una forma di Paranoia Intrapersonale dove l’immagine del corpo e il terrore di un corpo di donna sono il persecutore.
- Con altre parole, Evelyn Kestemberg (1972) in La fame e il corpo scriverà di perversione fredda. Sempre la Kestemberg evidenziava in La fame e il corpo come l’anoressica viva il corpo come un unico tubo, separato dalle zone erogene e finalizzato a sole funzioni di svuotamento dove tutto ciò che non è rifiutato ed entra comunque in loro, va espulso: non solo il cibo, ma più in generale viene espulsa la possibilità di una vita viva e passionale.
- Rosenfeld e Frances Tustin (1972) che evidenziarono come il corpo dell’Anoressica deve essere “fluido” senza la percezione di aspetti solidi.
- Simone De Cobert, Corcos e Racamier che parlavano di funzionamento mentale caratterizzato da meccanismi proiettivi massicci e distruttivi, almeno attraverso tre generazioni. Alla giovane può restare paradossalmente, come ultima e letale difesa contro proiezioni inaccettabili, l’utilizzo di quel meccanismo di “Vietato l’Accesso”, ben analizzato da Gianna Polacco Williams (1999). Così lei mi ricordava, durante gli anni della Scuola sui DCA dell’Istituto Tavistock, “In molti di loro ho riscontrato una specifica richiesta di non varcare il confine che mi ha portata a formulare l’ipotesi un sistema difensivo basato su una sorta di Divieto di Accesso”. Per l’autrice la giovane vive probabilmente un terrore senza nome che – ricordava Bion – è una esperienza estrema insopportabile per ogni umano. Essi ci ricordano come per evitare il ritorno del terrore senza nome – quello che io chiamai l’essere invasi dalla Bestia Vampira – la giovane che sta diventano una grave anoressica utilizzerà meccanismi di difesa arcaici come il Diniego, la Negazione, la Scissione e, appunto, il Vietato l’Accesso.
- Ancora la Bruck (1982) ricorda come questi meccanismi difendano – in un qualche modo – il Sé di queste pazienti da una frammentazione francamente psicotica; questi meccanismi di difesa divengono tuttavia anche i nuclei psicopatologici primari delle forme più gravi di Anoressia Mentale. Il Sé fragile – scrive la Bruck – delle potenziali anoressiche sposterà il conflitto dal mondo interno a quello esterno che sarà soprattutto il corpo, alienato e negato miseramente.
- Corcos, nelle nostre discussioni al Mont Souris di Parigi con Jeammet, mi evidenziava come nelle forme gravi di Anoressia si sia passati da un modello vicino all’isteria a uno di una patologia più grave che ha le sue origini in una prima infanzia, una patologia che mette in scacco i processi di individuazione e la capacità di assumere un ruolo genitale sessuato. Questi pazienti non assumono le trasformazioni somato-psichiche della pubertà e dell’adolescenza, angosciate/i dalla fisiologica dipendenza, incapaci di elaborare il lutto della separazione che permette l’ingresso nel mondo adulto; essi diverranno paradossalmente dipendenti da queste condotte patologiche mentre sempre più i familiari, le relazioni interpersonali e soprattutto il loro corpo diverranno nemici persecutori.
- Lo studio di Edith Stein (2012): la lettura della sua tesi di laurea del 1917 sull’Empatia è fondamentale; più recentemente Rizzolatti e Gallese con le loro scoperte sui neuroni specchio. Essi mi hanno aiutato a comprendere i meccanismi dell’empatia, ovvero del “fondamento degli atti mentali e corporei” in cui viene colto il vissuto altrui. Edith Stein scrive “attraverso l’Empatia, ovvero la percezione e il riconoscimento del vissuto altrui, vedo anche come gli altri mi vedono”: essa apre alla dimensione dell’intersoggettività. Le pazienti anoressiche hanno anche questa dannazione “l’essere prive della umanissima e bella dimensione dell’Empatia”. In realtà, oggi, sembra che molti “normali” ne siano privi, non solo le nostre pazienti”. Un drammatico pericolo, un vero fattore iatrogeno è allora anche la mancanza di questa dimensione empatica, nell’osservazione clinica e nella cura dei DCA.
- Fondamentale è stata poi la conoscenza e lo studio della Teoria dell’Attaccamento: da Bowlby (1989) con i suoi quattro tipi di Attaccamento alla Mary Ainsworth, e Fonagy a Daniel Stern e la sua Infant Research. Per inciso, per le anoressiche gravi si parla di attaccamento distaccato che può precipitare verso un attaccamento disorganizzato.
- Ester Bick (1980) ed Anzieu che sviluppano i concetti di Io pelle, pelle vista come un involucro psichico, dove sono scritte, segnate, la storia individuale e sociale di ognuno di noi; se essa torna ad essere viva e calda, permetterà finalmente al corpo di parlare con l’anima. Amelie Nothomb (2023) in Psicopompo scrive: “Una notte di primavera mi svegliai verso le due. A strapparmi dal sonno era stata la constatazione di un miracolo: mi sentivo le gambe calde” (Amelie Nothomb soffrì di una grave Anoressia restrittiva).
- Frances Tustin (1972), grande studiosa dell’Autismo, che sviluppò il concetto di a) Narcisismo a pelle spessa b) Narcisismo a pelle sottile,ripreso poi da Rosenfeld;quando molti anni fa la conobbi, grazie a Salomon Resnik,mi spiegò come fosse stata Lei a mettere a fuoco questi due tipi di narcisismo patologico .
Salomon Resnik e Antonino Ferro
Infine, ricordo Salomon Resnik (2019) e Antonino Ferro che – durante le supervisioni – con molta pazienza mi aiutarono a capire che le anoressiche gravi, delle quali parlavo con loro per farmi aiutare a non perdere il senno e la speranza, si misuravano sempre tra vita e morte. In realtà hanno il terrore di confrontarsi con una fame disperante, una fame da Vampiro, una fame insaziabile e omicida, quella che io chiamo, e che così chiamo con loro nella terapia: la Bestia. La Bestia che è ben rappresentata dal disegno di una paziente di anni fa (immagine inserita all’inizio dell’articolo).
Salomon Resnik, durante la supervisione della terapia di un ragazzo affetto da una forma di Anoressia molto “psicotica” , mi ricordava come il vampiro non solo succhi il sangue alla vittima, ma soffi dentro, nello spazio lasciato libero dal sangue, il vuoto, vuoto interno disperante che, a sua volta, richiede ancora sangue con una fame mortifera: il desiderio, mai appagato del tutto, di sbarazzarsi di questo terribile vuoto interno nella negazione, sempre più prepotente di un Corpo che senta, che ami, che soffra, che ricordi, che desideri: la morte mentale è quello a cui mira la “Bestia”.
A questo proposito ricordo Amelie Nothomb (2022) che ne Il libro delle sorelle scrive: “l’Anoressia ha parecchi elementi in comune con la possessione demoniaca” e poi Tristane – la cugina della giovane anoressica che poi morirà – non sapendo bene come definire questa forza negativa di Lisette chiamata malattia, pensava: “se è così difficile guarire dall’anoressia è proprio perché è terribile liberarsi da una possessione”.
Infine, i miei maggiori maestri sono stati e continuano a essere i miei pazienti, quando accettano di rischiare un po’ di vivere l’esperienza di cura, dell’incontro con questo vecchio, strano ma ancora curioso e sempre rispettoso empaticamente per la loro terribile sofferenza.
Ecco ora la storia di Laura: il nostro comune lavoro di terapia spero sia utile esemplificazione clinica di quanto sopra esposto.
La storia di Laura
Tra tante terapie delle quali ho conservato i dialoghi, ho scelto quella di Laura che era stata ricoverata da noi al Centro Disturbi dell’Alimentazione e Adolescenza (CDAA) dell’Ospedale Santa Corona di Pietra Ligure(SV) da me diretto nel 2004: essa ben evidenzia
- Aa un lato l’utilità dell’integrazione della psicoterapia con la terapia istituzionale nelle forme più gravi della patologia che chiamiamo Anoressia Mentale
- Dall’altro la necessità di tempi non brevi di cura, durante i quali non ci dobbiamo fare abbattere dal pessimismo, sempre un alibi per non fare, mentre dobbiamo vigilare sul rischio della perdita della dimensione empatica nella relazione con i nostri pazienti. Non dobbiamo perdere empatia e capacità di capire anche che cosa succede in noi durante terapie che spesso possono diventare dure, frustranti o farci perdere la possibilità di comprendere ed anche, soprattutto, ben curare. I colleghi con i quali ho lavorato per anni al CDAA hanno avuto queste capacità ed un entusiasmo che mi sorprendeva sempre.
Forse è scontato, ma ricordo:
- L’importanza del discutere in gruppo quotidianamente il nostro operare;
- L’importanza di una costante supervisione al nostro lavoro, soprattutto quello istituzionale. Penso che questi “antidoti” siano anche una “cartina di tornasole” per capire lo stato di salute di un gruppo di lavoro istituzionale e quindi di un Servizio.
Quando la conosco, Laura ha 24 anni, gemella monoovulare ma non sono uguali e lei assomiglia di più al papà; Laura nasce podalica, per prima, e appena nata è posta in incubatrice. Nasce in Italia ma poi, fin da molto piccola, gira con tutta la famiglia il mondo per la professione del papà; la madre, laureata anch’essa, non esercita una professione proprio per l’organizzazione migrante della famiglia. Vi sono anni che ricorda belli: “mamma comprava le bambole e giocava con noi, il papà era molto preso dal lavoro ma facevamo insieme passeggiate a cavallo se sapevamo bene le tabelline”.
Quando la conosco il papà lavora in Oriente, la sorella, laureata, vive a ….., dove segue studi per la carriera diplomatica, la madre, dai 18 anni di Laura, quando inizia il disturbo, si è divisa tra i luoghi del marito e i molti luoghi di cura della figlia. La sorella l’ho vista una volta: di lei mi colpì l’espressione un po’ attonita, stupita che hanno anche Laura e la mamma; la madre sembra una donna che cerca, con impegno ma anche difficoltà, di imparare il mestiere di “mamma”. Il padre parla delle sue emozioni ma cerca di portare sempre tutto sul registro razionale.
Vogliono bene a Laura, ma sono molto segnati da questi anni, quasi rassegnati. Hanno fatto nella loro città una terapia famigliare dai 19 ai 22 anni della figlia.
“Ci hanno insegnato a cogliere le differenze tra le due figlie”; durante la terapia famigliare finalmente Laura svela l’abuso sessuale subito a 10 anni da parte di uno zio materno e racconta la paura per le minacce di morte che lo zio le faceva: “Se parli verrà un tumore al cervello a te e a tua madre”. Lei addebita la sofferenza giovanile, più che all’abuso, alle minacce dello zio: sviluppa una grande paura per le malattie (lo sporco nero che invade il suo corpo). Vorrebbe stare sempre con la mamma che tuttavia raggiunge spesso il marito per il mondo.
Secondo i genitori il disturbo alimentare di Laura inizia a 18 anni, a …….., la mattina di Natale, quando Laura dice al papà che non avrebbe più fatto giurisprudenza e che non avrebbe più mangiato. Si isola, lascia le relazioni sociali ma nega l’esistenza di una sofferenza, di un disturbo. Iniziano psicoterapie e ricoveri anche molto lunghi, durante uno dei quali è sottoposta ad un ciclo di elettroshock. Arriva a pesare 27 kg, effettua molti tentativi di suicidio ed è sempre “resistente” ai ricoveri che ritiene inutili (“li erano tutti troppo matti”), sviluppa astio verso i genitori e verso tutti i curanti che conosce dai 18 ai 24 anni.
Poiché i nonni paterni vivono a …., dalla Clinica di …… dove era ricoverata viene trasferita al nostro Centro di Pietra Ligure. Da noi ha due ricoveri volontari, durante i quali si fa conoscere per la chiusura rabbiosa, gli atti autolesivi e per la resistenza tenace ad alimentarsi.
Tuttavia gradualmente impara a chiedere aiuto agli operatori, molto bravi e pazienti.
Durante il terzo ricovero, non al CDAA ma al nostro Centro Crisi, inizio a vederla, due volte alla settimana. Cerco di definire con lei e i famigliari la necessità ancora del ricovero, la regolarità del setting, tenendo duro rispetto alle continue richieste di cambiare ancora tutto… mah! ero in realtà molto perplesso su dove saremo andati a finire. Mi aiutarono sempre molto i colleghi del Centro e la possibilità costante di riflettere con loro, che avevano la parte più dura del lavoro… di sostegno e di buon contenimento.
È puntuale agli appuntamenti, anche dopo le dimissioni… io non reggo i suoi silenzi, il suo essere altrove e così inizio a farmi raccontare la sua storia. Man mano che racconta, io gliela ri-racconto chiedendole se sto comprendendo bene… e lei, via via, comincia ad aiutarmi: questo è sempre un momento saliente della terapia perché indica l’apertura a una dimensione empatica, anche se ancora ambivalente.
Frammenti di colloqui
6 aprile
È arrabbiata, resta con il cappotto, è tutta sottile e ha un trucco come di altri tempi. Parla dello sciopero della fame e della sete; al Centro crisi ha iniziato questa battaglia anche se poi chiede aiuto a tutti… mi telefona con estrema cortesia e mi dice che si è tolta la flebo e che non mangia.
A: a quale fine?
L: morire, non esserci più.
Dopo la seduta mi manda un messaggio “Buona Pasqua dalla sua paziente terribile” che nel frattempo era stata ricoverata in SPDC.(Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura)
16 aprile
È dimagrita ancora, vestita con sciarpa e tuta rosa… nell’insieme mi sembra meno corazzata.
A: il suo corpo racconta qualcosa di questi giorni?
Muove il piede della gamba accavallata nervosamente
A: mi sembra una situazione sempre più dura… il suo piede parla
Lei piange in silenzio. Penso che vorrei lenire la sua sofferenza
L: non voglio superare le 1.500 calorie… e poi ho molta paura
Mi accorgo che mi sto grattando
A: mi viene il prurito, si vede – dico sorridendo – che è una mia reazione allergica a Laura
L: è probabile, mia mamma me ne ha detto di tutti i colori… non ce la fa più.
La gamba ha smesso di vibrare e mi sembra stare meglio… le emozioni girano.
A: Non so, in realtà sente che gli altri, che io, gli operatori che la curano, facciamo fatica con lei e ne soffre.
All’uscita saluto la mamma… mi sembra tutto difficile, un po’ troppo. Ho l’impressione che l’abuso, che per Laura e forse anche per i famigliari è l’inizio di tutto, in realtà sia stato un fattore precipitante, qualcosa di terribile che ha fatto emergere un nucleo grave, forse psicotico. Lei è attualmente “abusata” da questo nucleo psicotico molto minaccioso, come il tumore al cervello presente nella minaccia dello zio. Laura cerca di bloccarlo (il Vietato l’Accesso della Gianna Polacco Williams) non mangiando, non bevendo, forse per uccidere questa parte psicotica che non si è più rinabissata ed incistata, come era successo dai 12 ai 18 anni. È una parte di lei che non è mai stata vista e finalmente elaborata… e ora lei mi sta aiutando a vederla insieme al Centro che ci sostiene.
12 giugno
Laura mi ha portato un sogno, che fa da anni… con un bimbo con una testa enorme e deforme che parla una lingua strana (Laura conosce 5 lingue, 6 con quella della psicosi): “Lo tengo in braccio ma è troppo pesante”… lontano una ragazza bianca, sottile glielo ha dato
A: forse posso aiutarla… a sostenerlo… a capire la lingua strana”
Ho pensato al sogno come a un’ecografia di una parte “mostruosa” – quella che io chiamo di solito la Bestia e loro capiscono e non si sentono offese – una parte mostruosa che sta dentro di lei e ora mi chiede di aiutarla a sostenerlo, il bimbo del sogno, a liberarsene finalmente. Ho pensato allora di doverla prendere alla lettera, quando dice “sono grassa, pesante”, anche se la mia percezione visiva è diversa.
A: c’è un mostro che lei asseta, a cui non dà da mangiare.
La seduta successiva
Sono venute a trovarla la nonna materna e altri parenti… ha tenuto in braccio una cuginetta di 9-10 mesi.
L: ho smesso di fare quei sogni.
Io penso alla cuginetta come a un sogno.
A: immaginiamo che lei abbia sognato che il bambino è cambiato.
L: mmmm
A: Laura tiene in braccio un bimbo meno deforme… la cuginetta è meno pesante?
L: eh si, si
A: è una bella bimba?
L: si
A: chissà come era lei a nove mesi?
Laura sembra colpita e il piede che prima, nuovamente, agitava nervosamente si calma.
L: pourquoi moi? je suis divisèe en deux partes, se non parlo sono l’unica a portare tutto sulle spalle
A: anche con i suoi sogni ha chiesto di essere aiutata
Mi viene in mente che Laura ha spesso male alla schiena e al collo. Alcune sedute dopo:
L: un sogno… chiedevo di mangiare, non me lo volevano dare
A: ???
L: c’erano diversi infermieri… mi controllavano, non volevano che mangiassi. Non prendevo la terapia volentieri
A: e se pensassimo che i personaggi del sogno sono parti di lei…? È lei la regista! C’è battaglia finalmente.
L: dopo sette anni, per la prima volta ho voglia… il cane… la casa mia, riprendere gli studi ma non voglio bruciare le tappe
A: il sogno della scala (uno avanti e tre in dietro), le delusioni, le “mattane” per anni.
È un cambiamento, non ci dobbiamo scoraggiare, lei è stata molto ferita, si è difesa come ha potuto
L: ce la metto tutta ma poi mi sento in colpa
A:??
L: Verso me stessa, no aspetti, non avevo il diritto di vivere, loro avevano la gemella. Il mio cervello nasconde una parte buia che nascondo
A: forse c’è una relazione con le persone del sogno che non vogliono che lei mangi, qualcosa è mancato
L: di sicuro è mancato qualcosa
In seguito emerge una mamma che a 19 anni è andata via di casa, a lavorare a …… dove conobbe il papà di Laura, allora studente. Emerge anche la figura del nonno materno, ex-partigiano. Prima uomo coraggioso, poi divenuto violento con la figlia, futura madre di Laura. A me da allora la mamma di Laura sembra più simpatica, meno fredda e attonita.
Alcune sedute dopo
L: vorrei ringraziare Lei ed i Suoi colleghi… non sono mai stata così in 7 anni. Spero sia definitivo, non un’euforia transitoria.
A: Ha cominciato a portare gli incubi, a sognarli qui in seduta, a riconoscerli, così non la divorano più dentro, come dei vampiri.
Laura mi dice che dorme come non succedeva da anni
L: a volte mi dico: stavo bene, ero più forte quando pesavo 27 kg, poi penso non è vero! Ora ho più libertà, c’è una parte che vuole ancora dimagrire ed un’altra che vuole andare avanti, che dice di continuare a vivere… nuovamente.
Mentre Laura parla penso che mi sembra troppo bello, “stai attento a non idealizzare…” ma poi penso che ne sono guarite tante.
A: la vita si sta animando.
Interrompe poi la terapia, con garbo e mi lascia un lungo scritto sulla storia del suo rapporto con la malattia, l’Anoressia. La madre è tornata in Oriente; lei una sera è arrivata al Centro Crisi dicendo che aveva sbagliato la coincidenza del treno, chiedendo ospitalità. Fu ospitata due giorni ma non mi cercò. Per un po’ di tempo, ogni tanto faceva telefonate al Centro, talvolta anche a me. Era tornata a vivere a ……., si era poi laureata ed aveva intrapreso anche lei la “strada diplomatica”.
Ecco ora i contributi delle tre giovani donne che hanno sofferto di Anoressia Nervosa; esse hanno risposto a queste due mie domande
- Cosa fu così attraente nell’Anoressia?
- Cosa, durante la cura, Le fece scattare l’idea di poterla lasciare, l’Anoressia?
Azzurra Ferrari
Ripercorrere quei momenti e quelle emozioni non è per niente facile. Si prova un profondo dolore che altro non è che il sentimento nascosto dietro a quella sensazione illusoria di onnipotenza. La malattia non so dire come arriva. Tutto è così veloce che non hai modo di pensare. Il cervello si spegne. Non esiste più il pensiero. La razionalità qui non è ammessa e successivamente anche le emozioni. Posso solo affermare che lei è subdola, si insinua piano piano nella tua mente e lo fa creando immagini di te “divine”. Si impossessa della tua persona e non ti abbandona mai. Si nutre di qualsiasi mezzo per arrivare al suo obiettivo. Nel mio caso i social hanno sicuramente contribuito a far sì che lei potesse alimentarsi della mia mente oltre che della mia anima. Tu non sei abbastanza. Abbastanza bella, abbastanza forte, abbastanza intelligente, abbastanza adeguata, abbastanza precisa, abbastanza perfetta. È qui che scatta la voglia di prendersi cura di qualcosa… di occupare la mente pur di rimanere fermi. Porsi un obiettivo. Raggiungere un’ideale di donna perfetto che possa così essere all’altezza di questo mondo così crudele e insensibile. Essere finalmente qualcuno dove nessuno potrà mai dire qualcosa perché finalmente perfetta. Non vedi più nessuno, non ascolti più nessuno. Ogni giorno avevo un’idea nuova, un’energia fuori dal normale, inesauribile. Nel mio caso posso dire che ho sempre vissuto coi pensieri accelerati e poche erano le fasi depressive, probabilmente perché rimanere ferma comportava sentire. E io le emozioni le avevo bloccate. Direi congelate. Odiavo percepire. Odiavo ogni tipo di sentimento. Però era tutto bello, finalmente ogni giorno avevo un compito: fare attività fisica. Un dovere. Un obbligo al quale non potevo rinunciare. Valeva più di ogni altra cosa al mondo e via via che passavano i giorni il tempo dedicatogli non era mai abbastanza. Ogni volta che terminavo il mio “lavoro” tornavo a casa e correvo davanti allo specchio nella speranza di vedere qualche risultato soddisfacente. Puntualmente la mia risposta era: “domani andrà meglio”. Da qui, il crollo. Le ossessioni, i deliri, le notti insonni, le manie di persecuzione. Avviene la trasformazione, ovvero, la differenza sostanziale tra quella che sei e quella che diventi. Ricordo l’aggressività, la ferocia, la rabbia così prepotente nel voler portare avanti quello che realmente vedevo e percepivo in me nonostante la situazione critica in cui mi trovavo. La rabbia nasce contro tutti quelli che intendono aiutarti.
Accettare di avere una malattia mentale non è facile. Accettare e comprendere che lei è il tuo nemico e non una condizione normale dell’essere è difficile e porta dolore. Il dolore nel percorso di cura è sempre presente. Si evolve. Cambia. Posso dire che una volta che si prende realmente coscienza di tutto e che ne sei fuori (almeno in buona parte) quello che ti lascia è micidiale. Quasi quasi pensi che era meglio prima ma poi ti fermi e inizi a ragionare. A lavorare su te stesso. A dialogare. Inizi a ricordare chi eri, da dove vieni, che cosa ti piace, cosa invece non accetti. Inizi a vederti. E piano piano ritrovi piacere nel farlo. Nell’inconscio scatta una voglia diversa di voler vivere la vita. Ti accorgi che forse il cambiamento non è poi così male e che la vita è bella anche se non pianificata. La fase necessaria è il modo con il quale il terapeuta entra in connessione con te. Il mondo che hai dentro, le incomprensioni. Il modo con il quale decide di ascoltare chi sei e cosa vuoi senza giudicare ne sentenziare. Ci vuole delicatezza, costanza, tempo. Bisogna dare e darsi tempo. Quello è fondamentale. La famiglia è un tema importante in questi disturbi. Devono esserci e non esserci. Difficile, lo so. Perché purtroppo l’anoressia è cosi: vuole ma non vuole. Un macello. Per questo bisogna affidarsi. Quello che si vede non è reale. La pienezza, l’ingombranza, il senso di colpa. Tutto questo non ha nulla a che vedere con la normalità. Ecco perché i miei amici si godevano feste, aperitivi, Natali, compleanni, passeggiate, serate… senza pensieri! Nei miei numerosi momenti di up sono arrivata a compiere atti che mai pensavo di fare. Rubare nell’azienda stessa in cui lavoravo da anni, probabilmente solo per riuscire a fare chissà quale serata top dove sicuramente non avrei mangiato nulla ma avrei postato foto al fine di dimostrare a “qualcuno” che anch’io valevo qualcosa. Che anch’io potevo avere un posto nel mondo. Sono arrivata a sfrecciare con l’auto a velocità inaudite prendendo non so quante multe. Ho buttato via centinaia e centinaia di euro dal parrucchiere. Extension da 400 euro a seduta. Ho bruciato i miei risparmi in pochi mesi senza senso alcuno. Ho avuto un colpo di sonno alla guida rischiando la morte. Il sonno non esiste. La pace un lontano ricordo. Ho voltato le spalle alle persone che amo di più al mondo: la mia famiglia. L’ho trasportata in un tunnel senza luce. Mi sono costruita una gabbia d’oro fatta di grandi illusioni e forti giustificazioni solo per paura di lasciare quella zona che tanto era confortevole e che tanto amavo. “Mi volete modificare!”, “mi volete grassa”! Queste erano le frasi perenni che sbattevo in faccia a tutti coloro che cercavano di lottare contro di lei e non contro di me. Ero diventata un robot. Ero diventata un essere senza sentimenti. Il sesso dimenticato e qualsiasi tipo di relazione era una paura. Scongelare le emozioni è stata dura. Mettersi a nudo ogni giorno è combattere. Quando pensi di aver raggiunto un equilibrio piuttosto stabile ecco che arriva la “parolina” poco gradita o non appropriata che ti fa cadere di nuovo e pare mandare all’aria quel tanto duro e faticoso lavoro della settimana. Un Sali e scendi. Una montagna russa. Un percorso mai lineare. Uscire dalla malattia comporta sacrificio, stanchezza e dolore. Devi prendere coscienza che è una lotta continua, un ricordare di armarsi appena ci si sveglia. Un portare l’ombrello anche con giornate di sole. Però posso dire, che è qui che impari a vedere le sfumature della vita. I colori che questa ti porta. Riesci a capire che si può vivere anche alla giornata e che forse a tutto c’è una soluzione. Che se non fai quella strada ne puoi fare sempre un’altra, che alla fine a destinazione ci arriverai ugualmente. Senza perderti. Devi rischiare. Rischiare porta paura ma è necessario per uscire dalla gabbia. A me il corpo mi stava abbandonando. Ricordo che avevo sempre freddo, bevevo lunghissimi caffè e litri di tisane. Andavo a letto con la borsa dell’acqua calda, e le caviglie gonfie, avevo peli su tutto il viso e i miei capelli mi rimanevano in mano. Questo purtroppo non lo dimenticherò mai. Non dimenticherò niente di tutto quello che vissuto e provato. Io sono morta quel giorno e rinata il giorno stesso. Attraverso le varie fasi dell’anoressia, a un certo punto, si arriva a un bivio: o vivere o morire. È proprio di fronte a quel bivio che bisogna riuscire ad avere il coraggio di scegliere la felicità, di sbloccare quella paura, di crescere, di non rimanere in un corpo di bambino, ma di accogliere le emozioni, sentirle, conoscerle, capirle, viverle… affinché si possa finalmente riuscire ad assaporare la liberta di essere chi siamo. Io personalmente quello che mai mi perdonerò è la consapevolezza di aver fatto soffrire determinate persone. Chissà quante domande si sarà fatta mia madre senza darsi mai risposte, quanti le notti in bianco di mio padre per cercare di trovare la strada migliore, gli attimi di solitudine che avrà provato mio fratello. Purtroppo. Un senso di vuoto che non riuscirò a colmare e anche se loro stessi mi diranno che non è così io so già che mi porterò nella tomba questo macigno e che niente e nessuno potrà farmi cambiare idea. Sono fatta così. Di certo quello che mi fa andare avanti è che tutto il cammino che ho fatto, tutto il lungo viaggio che ho affrontato e che ancora oggi compio ne vale la vista meravigliosa che riesco a vedere. L’anoressia è una patologia che va curata esclusivamente con un’équipe medica specializzata (psichiatra, psicologo e nutrizionista), ci vuole l’utilizzo dei farmaci perché possono alleviare psicosi, allucinazioni visive e deliri. Mai trascurare il sonno, è importante far riposare il nostro fisico. Ascoltiamo le persone che abbiamo vicino, loro non vogliono modificarti o cambiarti. Vogliono solo cercare di lottare contro la malattia e non contro di te! Ringrazio vivamente i miei medici perché attraverso i loro modi gentili e discreti e le loro ponderate decisioni hanno cercato di capire il mio mondo complesso senza mai giudicare ne sentenziare. Loro mi hanno sempre vista, nonostante la malattia.
Bianca Ruffino
Anoressia si presenta come attraente perché fa credere di essere un luogo sicuro. Un nido. Un nido pascoliano.
Pascoli fuggiva dal male oscuro della vita, regredendo al nido. Io fuggivo dalle insicurezze, dal dovere di perfezione, dal dover essere, regredendo nella malattia. Anoressia è subdola: fa credere di poterci aiutare, mentre il suo vero scopo è quello di prosciugare tutte le emozioni. L’anoressia fa credere che a comandare sia tu. Convince che tu possa avere il controllo e possa dettare le regole del gioco. Finge di eliminare il dolore, mascherandolo; invece, lo coltiva. È micidiale, perché fa sentire potenti. Fa svanire il tanto temuto giudizio degli altri, perché getta nel baratro della solitudine, in un buco nero dal quale non dà modo di uscire. Toglie ogni pensiero e ogni preoccupazione. È proprio questo il suo punto di forza. Non c’è più tempo per pensare a altro. È ingannatrice. Promette potere, invece intrappola nelle più perverse ossessioni. Anoressia ruba la mente e il corpo. Usa la mente per succhiare peso. E più scende il peso, più si complimenta con il suo ospite, incitandolo a continuare, fino a farlo scomparire. Ho immaginato Anoressia come un verme penetrato nel mio cervello. Il verme cresceva man mano che io scomparivo, alimentandosi al posto mio. Aveva parti del corpo di ogni persona che mi aveva fatto del male, approfittando di me. Mi parlava, complimentandosi con me per ogni atto mortificante che mi auto infliggevo; rassicurandomi che in quel modo avrei allontanato le delusioni; offendendomi se cercavo di ribellarmi. La voce era forte e chiara. Anoressia non smetteva mai di parlarmi. Una sola promessa ha saputo mantenere: non se ne sarebbe andata mai via da me. In effetti era sempre con me. Eravamo in due: io e il verme.
Cosa durante la cura mi fece scattare l’idea di lasciare l’anoressia…
Mi chiesi un giorno perché dovessi farmi tanto male, perché dovessi subire io questa violenza. Ho chiamato mio papà, gli ho parlato del mio dolore. Ho conosciuto una dietista che mi indirizzò a due psicoterapeuti, lasciandomi la scelta. Sembra buffo, ma sentiti i nomi dei dottori non ho avuto dubbi. Sapevo chi mi avrebbe portato fuori dal tunnel per farmi vedere la luce. Mi ricordo la prima visita: ero impaurita, dominata dall’anoressia. Disse il mio terapeuta: ci dobbiamo piacere entrambi, io ti devo piacere e tu devi piacere a me, trovare il terapeuta giusto è già un traguardo. Conquistò il mio interesse. Non è stato facile, non è facile. Iniziai la terapia nel marzo del 2022, due anni fa. Durante la cura ho avuto l’opportunità di frequentare il secondo semestre della quarta liceo in Canada. La decisione di partire per allontanarmi dai luoghi in cui mi ero ammalata e dal giudizio altrui è stato il primo scacco alla malattia. In Canada sono stata benissimo, libera da ogni giudizio. Non conoscevo nessuno e nessuno conosceva me. Ho vissuto con le mie regole, ho giocato con le mie carte. Lì ho scoperto che ero capace di giocare e di essere me stessa. Da questo momento il Verme ha perso tutte le sue parti del corpo e persino la sua voce. Sono passata dal buco nero della solitudine più desolante a festeggiare con un vestito da fiaba accompagnata in limousine alla sera del ballo di fine anno americano. La donna che sono ora non è minimamente paragonabile alla ragazzina con l’anoressia. Ho riconosciuto la gioia di vivere, ho imparato ad assaporare la mia vita come mai prima. Ho deciso di guarire, sono guarita. A poco a poco iniziavo a parlare di me nelle sedute, non della malattia. È stato questo uno dei momenti più belli della mia vita, io mi stavo scoprendo! L’anoressia nasconde la personalità, oscura la persona. Io ho vinto e la mia personalità sta venendo fuori. Ho ancora tanto cammino da fare, ma ho sentito e continuo a sentire l’emozione grande di poter amare, di apprezzare e di accettare quel che sto finalmente conoscendo di me.
Camilla Tallone
L’anoressia è stata tutto per me per tanti anni… un tutto unificante, totalizzante. Ero alle soglie dell’adolescenza quando la conobbi e ne rimasi ammaliata. Se la dovessi “personificare” la descriverei come una signora esile, dal profilo sottile, dita leggiadre un po’ ossute (ma non troppo), capelli lunghi, corvini, modi raffinati e… perché no, un tailleur di Chanel. Venne a bussare alla mia porta in uno dei tanti momenti di buia solitudine di quel periodo in cui cercavo spasmodicamente una via di fuga dalla freddezza di una famiglia frammentata. Mi tese la mano e con la sua voce armoniosa mi invitò a seguirla. Iniziò così la mia avventura nell’intricato mondo dei Disturbi della Nutrizione e dell’Alimentazione (come ora vengono pomposamente etichettati dal DSM). Cosa mi colpì di lei? Credo principalmente due cose (tailleur di Chanel a parte): onnipotenza e tempo.
L’essere umano per sua natura è tormentato da quell’insostenibile leggerezza che lo spinge a porsi interrogativi esistenziali sconcertanti, rimirando l’infinito da dietro la siepe dei suoi limiti in un naufragio che, almeno per la sottoscritta, di dolcezza aveva poco. Sul ciglio di questo baratro, lacerata da un senso di vuoto e di finitudine indicibili, Lei (l’anoressia) mi regalò la possibilità di controllo: controllo sul cibo, controllo sui cosiddetti “bisogni primari”, controllo sui miei istinti, sui pensieri, controllo dell’Altro, quell’Altro che tanto mi spaventava, di cui non sapevo cosa farmene e che con Lei al mio fianco potevo tenere in scacco, scacco matto. E poi il tempo… dannato tempo… Cosa intendo per tempo? Mi riferisco al suo trascorrere inesorabile, al suo fuggire via e all’angoscia che questo suscita: un’angoscia atavica senza consolazione. Difficile da descrivere a parole… quella che si sente nella carne guardando l’incipit di Sussurri e grida: una stanza rossa e il ticchettio asincrono di orologi, tanti orologi, a ornare pareti e mobilio e a ricordarci quanto la nostra esistenza sia effimera e insignificante. Ma con Lei, la mia compagna, la mia signora, tutto questo veniva cancellato dall’illusione di poter fermare il corso degli eventi, di poter fissare il mio essere nel tempo e nello spazio: un corpo bambino, senza tracce di donna, un corpo controllato, un burattino al servizio dell’anima in un dualismo cartesiano diventato ossessione paralizzante. Fu così che, senza accorgermene, anzi convinta di avere in mano le redini della mia vita, finii nel baratro, nella voragine della cieca anoressia, schiava di quella donna elegante vestita di rosa (l’anoressia) che piano piano si rivelava essere una figura demoniaca, come un “vampiro” nel mio cervello, una sorta di tumore che non riuscivo a combattere perché… udite, udite… bramavo profondamente, volevo senza riuscire a farne a meno. E oggi? Beh, sono qui. Vivo da sola da qualche anno, mi sono laureata in Medicina e Chirurgia e aspiro, tra un dubbio e l’atro, a diventare una psichiatra. E lei? Difficile a dirsi… Lei è ancora con me in un certo senso: mi accarezza dopo una giornata frustrante, mi sussurra nell’orecchio con il suo fascino irresistibile… la vedo per strada nelle gambe ossute di una ragazza o la cerco nei momenti dolorosi della mia quotidianità quando tocco le mie coste alla ricerca della magrezza rassicurante come facevo ai bei vecchi tempi… la sento nella mia pelle quando incontro, anche solo di sfuggita, la mia immagine riflessa e quasi non la riconosco e con fare un po’ schifato tra me e me commento “che grassa!”. Ma resisto a quella vertigine, a quella voglia di cadere, mi aggrappo alla vita, rinunciando a quel godimento mortifero che ora riconosco come tale. Ogni tanto mi sorprendo a chiedermi: si può guarire? Credo che la risposta sia: dipende, cioè dipende da cosa si intende per guarigione.
Per me la guarigione è stata trovare un equilibrio seppur instabile, cogliere gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza anche nelle crepe dell’esistenza, sentire e accogliere il desiderio, desiderio di una passeggiata tranquilla la domenica mattina, del caldo abbraccio di un amico, del sapore di un cibo nuovo, di un tè caldo in compagnia di un buon libro in una giornata uggiosa che piange tutte le sue lacrime. Come sia stato possibile questo cambiamento forse neanche lo so: così come sono silenziosamente scivolata nella morsa dell’anoressia così ne sono uscita, in punta di piedi, lentamente, seppur devo ammettere dolorosamente. Sono stata e sono una paziente ostica, incline al sabotaggio di qualsiasi tipo di tentativo di aiuto, molto amante della pars destruens e della “critica per la critica” e senza idea alcuna che potesse anche solo remotamente esistere una pars construens. Insomma una di quelle che in pausa caffè gli operatori sanitari e i medici, intendo quelli che certo non brillano di grande umanità, apostrofano per descrivere il caso in maniera “efficace” con uno sbrigativo “anoressica border con dinamiche disfunzionali senza grosse prospettive per il futuro”.
Fortunatamente c’erano anche e, purtroppo pochi va detto, sanitari dotati di visione, coraggio e di quel pizzico di follia che permette di andare oltre l’apparenza, al di là dell’anonima superficie. Credo che siano state queste persone a fare la differenza… e ora che ripenso a tutti quegli anni di sofferenza filtrati, come solo la nostra memoria sa fare e rabboniti perché spogliati della crudezza del presente, mi sento in dovere (credo soprattutto verso me stessa), pur non essendo assolutamente nel mio stile, di ringraziare (forse un po’ mielosamente, lo ammetto,) il dott. Ferro. La terapia in maniera ferma, asciutta, a tratti severa, mi ha mostrato la possibilità di una via di uscita e questo sguardo nuovo ha reso possibile il cambiamento. Così ho conosciuto (e non uso questo termine a casaccio) la mia famiglia, ho scoperto le loro solitudini, le loro paure e ho iniziato a condividere le mie… Ho imparato a prendere l’autobus, a resistere in classe senza attacchi di panico, a non vedere in un cucchiaino d’olio un mostro indistruttibile… e, forse la cosa più importante, ho assaporato il calore di affidarsi all’Altro. Vorrei dirvi che ora va tutto bene, ma non è così: la vita non è semplice, ma paurosamente intricata e la donna in rosa, la tanto amata anoressia, che voleva vendermi l’illusione di completezza, di pienezza, mi stava ingannando, ahimè un inganno dolce piacevole dal profumo di gelsomini e lillà, ma un tremendo e subdolo inganno. E quindi sono qui a raccontare come io oggi, per quanto difficile sia, ogni giorno accetto l’imperfezione, l’insignificanza, la profonda limitatezza e la disarmante impotenza che forse sono quei lati apparentemente oscuri che rendono unica, irripetibile e stupendamente fragile la nostra vita. Sono uscita dal mio nucleo autistico di sicurezze false, infantili… ho buttato giù quel castello o forse meglio dire prigione di sabbia e ho imparato a cogliere la bellezza dell’insignificanza come Kundera ci ha magistralmente esortati a fare… e ho scelto di diventare psichiatra o almeno ci sto provando: perché nell’inferno della malattia mentale che logora, trasforma fino a uccidere è necessario che ci sia un Altro capace di intravvedere la bellezza dell’anima, come un sacchetto di plastica danzante in una giornata di vento, sospinto da un soffio quasi magico…solo così è possibile “far ripartire una vita”, solo così è stato possibile per me essere qui oggi.
Conclusione
Se le cose funzionano, piano piano può svilupparsi nell’incontro di cura quella “Accoglienza Psicosomatica Amorosa” di cui parla Alessandra Lemma (2011). Essa potrà costituire quella “base sicura”, talvolta mai vissuta prima : nelle terapie riuscite allora il loro corpo potrà tornare a essere limite intersoggettivo, crocevia delle relazioni, territorio dell’interiorità, ma anche territorio dell’Alterità.
In conclusione, dopo tanti anni di attività clinica istituzionale e individuale, ricordo e accetto con gratitudine quanto nel lontano 1983 Evelyn Kestemberg,a Parigi al Tredicesimo Arrondissement, cercò di trasmettermi. Sono disturbi, grandi sofferenze umane – psichiche e somatiche – che sfuggono sempre, per la loro paradossalità, ai nostri tentativi ingenui di onnicomprensione, quando inventiamo e categarizziamo modelli terapeutici esaustivi. Se tolleriamo sempre modelli “incompleti, leggeri”, in realtà potremmo muoverci nella cura con agilità, come i “Temerari cavalieri volanti” di Cancrini e ancor più di Calvino (1988) e Kafka. Potremo così curare e liberare dal tormento della bestia le nostre pazienti e incontrare con curiosità le loro storie che via via emergeranno finalmente nella cura!
Ricordo ora il Convegno Internazionale organizzato a Savona nel 2009 dal titolo “Terra madre e mele avvelenate”. I DCA che curiamo, come la mela avvelenata dalla strega, interrompono la crescita, un sano e bello sviluppo: il tempo si blocca, la vita si ferma in una freddezza senza passioni, sotto una lastra di cristallo. Occorre passione, curiosità, ottimismo temperato, perché la vita torni a fluire e la mela mostruosa, che doveva imprigionare la nostra Biancaneve, venga espulsa. Occorre passione, desiderio, occorre rifiutare alibi pessimistici mortiferi; così noi ci concentriamo contro le “Bestie” mostruose, le foreste incantate piene di trappole, di lupi mannari e vampiri, piene di questi “Mostri” (interni e talvolta anche esterni) che si frappongono tra noi e loro.
Esse, le ragazze stregate dall’Anoressia, cercheranno di dissuaderci dall’affrontare questi “demoni”, per raggiungere l’adolescente che, in realtà, desidera crescere e divenire una bella donna e risvegliarsi dal sonno malefico, alimentato dal pessimismo disperante e dal terrore della vita.
Con Bauman (2008) penso infine che “la capacità di sperare sia una qualità davvero immortale delle persone” e credo che questa qualità sottenda ogni buona esperienza di cura, ma più in generale di vita.
complimenti Antonio, davvero un bel lavoro che ricostruisce la tua storia di formazione, ricerca e di clinica in modo davvero convincente.
sono situazioni di grande complessità ed è straordinariamente interessante la possibilità di un approfondimento clinico da così tanti punti di vista
un abbraccio, Vittorio
Lavoro da quasi otto anni nel Centro che Antonio Maria Ferro ha fondato, presso l’Ospedale Santa Corona di Pietra Ligure.
Non ho potuto collaborare direttamente con lui nell’attività clinica quotidiana, ma da lui ho potuto comunque imparare riguardo al complesso mondo dei Disturbi Alimentari, perché la sua creatura ha impressi i segni del creatore e quindi di lui continua a risuonare quello spazio-tempo, fatto di cura e vicende, nel quale mi muovo professionalmente.
In questo articolo – veramente un luminoso e vibrante sguardo sinottico gettato su un’area psicopatologica e antropologica che spiazza per inafferrabilità e scacco di qualsiasi pretesa esaustiva – rivedo la passione, la competenza, la curiosità genuina che mi ritrovo ad ammirare silenziosamente – e devo dire anche con un po’ di invidia per quella vitalità così giovanile -, in Antonio Maria quando mi accade di sentirlo parlare – o, come in questo caso, leggere. Per questo motivo utilizzo, senza eccessiva tema di apparire istrionico, enfatico o eccessivamente lusinghiero, l’aggettivo “vibrante” riferendolo a questo squarcio panoramico.
Non sono elementi secondari o circostanziali, perché, come afferma egli stesso, di fronte al rifugio congelato che la grave Anoressia sembrerebbe voler realizzare, la passione per le storie degli uomini, la speranza, “l’ottimismo temperato” dei curanti, insieme ovviamente alle competenze tecniche e al continuo e ineludibile aggiornamento, sono le irrinunciabili condizioni dell’incontro con quella sorta di mondo “siderato”.
Complimenti dunque ad Antonio e grazie per questo sguardo sapiente e al tempo stesso – per mezzo della delicatezza e della sensibilità che viene dalla voce delle sue pazienti – “umano troppo umano”.
Grazie Antonio, ancora una volta perché ho avuto la fortuna di lavorare con te come allievo e perché oggi, indomito, riproponi due questioni fondamentali per chi fa psichiatria: quale formazione attenga al sapere psichiatrico e qual è l’oggetto della nostra conoscenza.
Sono questioni che si impongono in un
momento delicato per la psichiatria, in
cui pare aver smarrito il suo spirito e perduta la necessità di esistere come disciplina a sé stante, in un punto di massima tensione tra la tentazione di accreditarsi alle scienze della materia e la consapevolezza che sia necessario un atteggiamento eclettico, verso ambiti del sapere apparentemente lontani dalla medicina ( come la sociologia, l’antropologia, la filosofia, la letteratura, la psicologia, la pedagogia etc..).
Al termine degli anni novanta maturavi l idea che lo psichiatra debba essere un artigiano ( la bottega della psichitria edito da boringhieri ), che sappia mescolare sapientemente prassi e teoria ma soprattutto debba confrontarsi con la società e la cultura del tempo. Il concetto di bottega artigiana inserita nella piazza come all’epoca dei Comuni medievali rappresenta il riferimento ideale e dotto a cui rifarsi per interpretare un ruolo professionale così complicato. Non lo è il laboratorio da esperimento perché, nella legittima pretesa di esattezza, necessaria alla ricerca scientifica, non vede il mondo che è fuori nel mercato, nella confusione, nella diversità a cui solo l artigiano in mezzo alla vita riesce ad approssimarsi per darne una lettura e curarne le vicende.
Da buon artigiano mostri le tue fonti, la cultura, riferimenti letterali, acquisizioni scientifiche, i ferri del mestiere insomma, e come utilizzarle per affrontare il problema dell anoressia. Il ricercatore storcera’ il naso, ovviamente, ma tu sottoponi le tue considerazioni al vaglio del confronto con te stesso, con il paziente e con la comunità degli specialisti.
Non è il metodo delle scienze esatte, ma è quello della ermeneutica che non pecca certo di autorevolezza.
La seconda questione riguarda l’oggetto della psichiatria: non è il cervello, non la società, non l’ineffabile psiche, non sono le malattie del corpo ma è l’esperienza che si rivela nel dialogo costante con il paziente, nella quale possiamo trovare delle invarianze che la nostra disciplina chiama sintomi, sindromi, determinazioni genetiche, ambientali, ma che, nella sua singolarità, rimane al centro del nostro lavoro. Tu indichi chiaramente il mezzo con cui affrontare l esperienza del paziente e questo è il dialogo come strumento ineludibile di comprensione e di cura. I resoconti dei pazienti riportati nell’ articolo sono l’esemplificazione illuminante di questa prassi e nello stesso tempo la dimostrazione della sua efficacia.
Pertanto grazie per questa lezione e per ciò che hai mostrato.
Un articolo che ho letto con interesse e crescente coinvolgimento e per il quale l’aggettivo utilizzato dall’amico e collega Fornaro, ‘vibrante’, è davvero il più appropriato. Si respira riga dopo riga la capacità del clinico esperto di creare connessioni tra i disturbi psichici gravi, le diverse teorie psicopatologiche e la loro cornice socioculturale e antropologica, così che la sofferenza psichica, anche quella mediata da un’espressività ‘aliena’ e apparentemente inintelligibile, trova senso e significato. L’utilizzo dei concetti di ‘malattia mentale transitoria’e di ‘nicchie ecologiche’, ad esempio, ci offre la possibilità di comprendere meglio, storicizzandoli e collocandoli nel loro contesto, alcuni comportamenti che vengono variamente definiti disfunzionali, sintomatici, patologici etc. E forse ci aiuta anche, come suggeriva G. Cecchin, a “convivere con il disagio dell’ incertezza e a sopportare l’ esplorazione prolungata e paziente” sfuggendo alle insidie della ‘urgenza classificatoria’ che sembra tornata a prevalere nella psichiatria contemporanea.
Vorrei aggiungere una notazione personale: lavoro da 23 anni al CDA e la lettura del brano di Antonio mi ha fatto riassaporare l’entusiasmo dei primi anni di vita del nostro Centro sotto la sua direzione. Sono stati anni un po’ pionieristici, eravamo infatti l’unica struttura pubblica dedicata alla cura residenziale dei DCA in Italia, e ricchissimi di stimoli, di confronti con clinici esperti italiani e internazionali, di occasioni di apprendimento quotidiano. L’importanza della formazione continua, lo sguardo aperto sulla società fuori delle mura ospedaliere, l’attenzione alla cura dei luoghi della cura e alla clinica dei gruppi e, soprattutto, la curiosità genuina e rispettosa verso le storie dei nostri pazienti, sono alcuni degli strumenti fondamentali appresi allora in quella bella ‘bottega della psichiatria’ (A.Ferro, G.Giusto) che era il CDA. Ancora oggi dopo tanti anni, e in un clima sociale e politico molto mutato intorno alla sanità pubblica, mi permettono di non annoiarmi quasi mai, di mantenere curiosità e interesse per le vicende delle ragazze e dei ragazzi che cerchiamo di curare e anche, perché no, di divertirmi nel lavoro con loro.
Mi ha fatto bene leggere il racconto di Antonio del suo percorso a confronto con la “bestia “ come lui presentifica il doloroso impatto con la distruttività nelle condizioni estreme dell’anoressia. Un cammino fatto di incontri con giovani sofferenti, ma anche con maestri di grande levatura e tramite il continuo confronto con colleghi compagni di viaggio . Molto attuale e coinvolgente questo lungo articolo , attualità che soprattutto leggo nella valorizzazione della formazione esperienziale da riprendere e rinnovare in particolare riguardo alla riflessione sulle malattie mentali transitorie, ma anche quel filone di ricerca che procede sul lavoro riguardo l’intersoggettività . Mi pare che il focus sia proprio sulla “ mente come teatro” di cui ci parlava Fausto Petrella … che ci porta a pensare alla speranza come dispositivo antropologico e fonte di vita