La REMS nella terapia di comunità: la collaborazione interistituzionale
Tra i diversi mandati che la legge 81/2014 prevede per la REMS si stabilisce un equilibrio dialettico. In coerenza con la gestione affidata ai sanitari e al modello operativo terapeutico di tipo territoriale, particolare rilevanza va data sul piano operativo al mandato di cura, il quale implica anche funzioni di vigilanza, sorveglianza sanitaria per la sicurezza delle cure, ma nessuna attività controllo e custodia. Quindi la sicurezza sociale e la prevenzione di nuovi reati compete alle forze dell’ordine.
In questo complesso di interventi si sostanzia la collaborazione interistituzionale. I mandati di cura e giudiziari discendono da norme costituzionali diverse, prevedono riferimenti teorici e operativi specifici e tuttavia devono trovare forme di sintonia e integrazione. In questo quadro vi deve essere una collaborazione e una concertazione che preveda sempre anche la persona destinataria dei provvedimenti nell’ambito di una dialettica che mantenga sempre corretti gli ambiti e i mandati senza derive quali la “giustizia terapeutica” o la “psichiatria giudiziaria”.
Giustizia e psichiatria non hanno bisogno di specificazioni. Il cambiamento avvenuto con la chiusura degli OPG richiede un’innovazione dei concetti e delle prassi in quanto sono venute meno le funzioni custodiali e le misure di sicurezza possono trovare senso se collocate in uno scenario diverso rispetto al passato.
In altre parole, se per il magistrato la misura di sicurezza adottata, in relazione alla presenza della pericolosità sociale, ha la finalità di aiutare la persona e di tutelare la comunità, l’affidamento della persona alle cure dei sanitari fa sì che la tutela della comunità avvenga in funzione e come esito del percorso terapeutico e non come finalità da perseguirsi autonomamente. La protezione della comunità spetta, come si è detto, alle forze dell’ordine.
In nessuna parte della normativa vi è un mandato custodialistico a carico dei sanitari, né è applicabile la posizione di garanzia. Sotto il profilo operativo vi è una sostanziale incompatibilità tra un’azione custodialistica e un’attività di cura e abilitazione come viene intesa nella moderna pratica psichiatrica.
Cura che si sviluppa a partire da una lettura psichiatrica che è ben diversa da quella rieducativa, retributiva, espiativa della pena. Questa deve tendere alla rieducazione e al reinserimento sociale. Inoltre, con la riforma Cartabia vengono indicate anche le forme di mediazione e giustizia riparativa, con attenzione alle vittime e/o ai loro familiari.
Libertà, consenso, adesione alle cure, responsabilità, sicurezza, controllo sono categorie dimensionali non dicotomiche che vanno (ri)lette con la chiave interpretativa della psichiatria.
Ad esempio, la questione delle libertà è in gioco in modo cruciale nelle persone che hanno provvedimenti giudiziari (misure di sicurezza detentive, misure cautelari, arresti ecc) che la limitano. Ma con quale finalità? E con quali strumenti? Si pensa forse che la riduzione della libertà di movimento di per sé, possa produrre un cambiamento?
Come noto per i pazienti con disturbi mentali autori di reato appare insufficiente utilizzare gli strumenti espiativi e rieducativi dell’apparato penitenziario.
L’analisi deve essere più complessa e dobbiamo invece vedere il legame ambiguo e contradditorio tra disturbi mentali e libertà. Se da un lato è piuttosto facile, con uno spirito di tolleranza, cogliere la libertà connessa all’essere diversi, creativi, bizzarri, fuori dagli schemi, dall’altro occorre ricordare che i disturbi mentali in se stessi compromettono la libertà e limitano le potenzialità della persona. Lo stesso vale per la cura che può essere vista sia come una situazione che talora implica limitazioni e riduzione della libertà sia come un mezzo per un suo possibile aumento: libertà di pensare, di esprimersi comunque e come possibile, nelle relazioni e negli affetti, di comunicare nelle forme proprie. Libertà è anche nel fare scelte di vita particolari, come vivere per strada, senza lavorare, senza redditi, con attività marginali, talora creative, magari delirando senza essere ricoverati e facendo uso di sostanze e alcool.
Tuttavia si aprono interrogativi circa il senso della libertà quando il soggetto finisce con il vivere nell’emarginazione, nell’abbandono, specie se ciò si associa ad una perdita completa dei propri diritti e le persone finiscono con l’essere dimenticate dal mondo o essere vite “di scarto” (senza tetto, migranti, persone senza identità, documenti e residenza, “apolidi” senza diritti) .
Se la libertà viene vista rispetto ai reati, alle possibili sanzioni fino alla custodia che in una relazione lineare, diviene limitazione della libertà stessa, ben più complesso è il rapporto libertà- diritti/doveri responsabilità e relazioni, in particolare quelle di cura.
A fronte delle istituzioni (in passato manicomiali, oggi…), la “libertà è terapeutica” se si associa ai diritti (“chi non ha non è” dice Basaglia citando un proverbio calabrese) e consente di costruire esperienze di vita, esistenze singolari in tessuti collettivi, percorsi di emancipazione nella rete dello scambio e del contratto sociale della comunità. Libertà è possibilità di relazione e partecipazione che si realizza nel prendersi cura rispettando le diversità.
Se la libertà è futuro, cioè speranza di cambiamento della persona nella comunità, questa questione diviene la base, attraverso ineludibili conflitti e contraddizioni, per il lavoro delle REMS, quali nuove invenzioni della salute mentale di/nella comunità, campo di tensione che si definisce nella relazione fra violazioni e responsabilità individuali e collettive.
Se la scelta è quella di non emarginare la devianza e la diversità (nell’illusoria convinzione di poterla circoscrivere in un unico luogo, quando appartiene a ciascuno), privando della libertà la persona con disturbi mentali autrice di reato, la responsabilità esercitata dal sistema giudiziario e psichiatrico non può essere quella dell’OPG che aveva come primo compito la protezione della comunità attraverso sistemi coercitivi, punitivi, oggettivanti, allora è necessario un cambiamento che sviluppi una diversa modalità di prendersi cura, ciascuno con i propri strumenti, dell’altro.
La libertà non è mai compromessa totalmente e dal punto di vista psicologico la persona vive in una prospettiva di libertà e di futuro. In particolare, in tema di salute, la libertà di autodeterminazione è teoricamente sempre presenti e quando non lo è, i diritti sono appoggiati sulla presenza dell’altro (ad es. il familiare, l’amministratore di sostegno, il fiduciario). Quindi se il giudice pone in essere provvedimenti che limitano la libertà di movimento o di comunicazione, il clinico si muove in un contesto dove la libertà di cura è (deve essere) sempre presente, dove il mondo interiore, i vissuti della persona sono ancora più presenti e intensi.
In questa interazione continua e dinamica, libertà e responsabilità si declinano inevitabilmente come rischio e ricerca di alternative a modelli incentrati su un’impostazione dirigistica e paternalistica per passare da una visione gerarchica che colloca il potere solo nelle gerarchie e annulla le soggettività ad una che chiama la persona alla partecipazione, alla responsabilità affinché diventi protagonista del percorso di cura e della sua vita.
Occorre passare da una concezione gerarchica, distante, declamatoria e paternalistica che può portare ad un esercizio sostanzialmente improduttivo e talora dannoso del potere, sia esso giudiziario o medico, ad una visione del potere molto più orizzontale che attiva relazioni più paritarie e mobilita le risorse delle persone e della comunità per costruire nuove relazioni e nuovi scenari di senso per soggetti non più chiusi/bloccati nei loro ruoli e nelle loro trasgressioni ma capaci di comunicazione, a volte singolari o conflittuali, ma potenzialmente creative di nuovi valori e di capitale sociali. Questo si può ottenere con il dialogo, l’ascolto e la concertazione.
All’interno della REMS, significa rendere la persona co-responsabile della libertà (e della sua limitazione), della sicurezza, della qualità della vita quotidiana. Significa anche essere sempre e fin da subito parte della comunità sociale, quella che sta attorno alla REMS ma soprattutto quella di riferimento naturale della persona. Comunità che magari sono ferite, risentite, espulsive, vissuti intensi che vanno conosciuti e affrontati anche per evitare che diventino fantasmi sempre più potenti e inquietanti. Se si vuole preservare la comunità e lavorare per la sua sicurezza occorre sapere che la limitazione della libertà di movimento prima o poi cessa e quindi la costruzione della sicurezza e della qualità della convivenza familiare e sociale implica non solo un lavoro con la persona ma anche con la famiglia, le persone significative del contesto di vita.
In questo senso la misura di sicurezza (o giudiziaria) può divenire misura di comunità e attivare quelle modalità di negoziazione, mediazione fino, per quanto possibile, a possibili percorsi di giustizia ripartiva.
Una via che appare assai interessante per persone che sono affette da disturbi mentali e che sono state prosciolte in quanto non imputabili. E tuttavia proprio in queste persone la questione del vissuto del reato, nel suo articolarsi con la psicopatologia ma anche con l’umana comprensione delle esperienze e delle relazioni ha una particolare importanza. Trascurare questo aspetto mettendolo tra parentesi per concentrarsi “solo” su patologie e comportamenti potrebbe essere un limite. Ecco perché accanto agli strumenti classici della psichiatria di comunità, la questione dell’approccio al vissuto del reato, fa sì che si stia sviluppando un modello d’intervento nuovo e assai interessante che attraverso narrazioni e ascolto, dià voce al dolore inesprimibile e il silenzio diventi comunicazione e intesa di corpi e sguardi.
Quindi non si tratta di giustapporre alla meglio interventi giudiziari e psichiatrici attuati “sulla” persona ma di mettere al centro la persona, i suoi vissuti, i suoi punti di vista e con una chiave di lettura psichiatrica analizzare tutti gli aspetti biologici, psicologici e sociali, co-costruire “con” la persona programmi di cura in una prospettiva comunitaria e orientati alla recovery e alla libertà, sostenuti da misure giudiziarie concertate, appropriate e sintoniche e affiancate da un lavoro di ascolto, mediazione ed elaborazione del vissuto del reato, delle sue conseguenze, in un’ottica ripartiva.
Questa è una possibile teoria e pratica di lavoro di un grande gruppo interistituzionale con al centro la persona considerata come risorsa e sempre in relazione con l’altro e la comunità.
Un’innovazione di approccio che supera nelle pratiche segreganti dell’OPG, rilegge e reinterpreta i mandati a partire dalla persona, da ciò che è umanamente concreto, dalla presenza intrigante dell’altro. Un incontro che richiede le sensibilità di una psichiatria dolce e umile, di una giustizia “mite”, di un diritto saggio ed essenziale, minimo che si confronta, accogliente, con lo sguardo dell’altro, le violazioni, la perdita di senso e identità, la sofferenza, il male radicale, profondo e la morte.
Sarebbe questo il passaggio più significativo di tutte le trasformazioni che sono avvenute.