Vaso di Pandora

Storia della Psichiatria

DALLA NASCITA DELLA PSICHIATRIA ALLE ISTITUZIONI CLASSICHE

Il concetto di follia è forse antico quanto la cultura: certo è che lo si ritrova negli autori greci da Omero a Sofocle, con le simulate follie di Achille e di Ulisse, finalizzate a evitare il “servizio militare”. E l’autentica follia di Aiace, già allora vista come riguardante non solo chi ne è colpito ma la collettività: “nella sorte di lui vedo anche la mia” e: “tormentava noi, vicini a lui, che soffrivamo per lui, nel vederlo così”. Ma una sistematica risposta sociale e  istituzionale è cosa dei nostri tempi, anche se già nel Medioevo si ha notizia di reparti e strutture per malati mentali nel mondo islamico ad Aleppo, Damasco, Kaladun, Baghdad, Cairo; e più tardi in Europa a Parigi, Lione Montpellier, Londra, Monaco, Friburgo, Zurigo.

Bisogna attendere il diciassettesimo secolo  perché la collettività elabori una vera risposta organica al problema della follia, che peraltro si trova allora, sul piano istituzionale, inclusa e confusa nel più ampio ambito della devianza. Le grandi istituzioni che nascono allora non hanno un fondamento clinico e/o scientifico ma mirano a finalità   assistenziali – sorta di indifferenziati servizi sociali – e a un tempo repressivi , indirizzate come sono a una eterogenea popolazione di  poveri, di oziosi, di vagabondi, di stravaganti, di libertini, di persone ideologicamente e/o comportamentalmente non conformi.  Nella Francia di Luigi XIII, Luigi XIV, Colbert, questo fenomeno si svolge nella sua forma più evidente, quasi didascalica: l’Hopital de Paris Salpetriere apre nel 1656, e 20 anni dopo accoglie già più di 6.400 persone: dimensioni sorprendenti in una città che contava all’epoca fra i 400.000 e i 500.000 abitanti. Naturalmente è probabile vi affluissero persone da altri ambiti territoriali, e infatti nel 1676 il Re decretò la fondazione di un Hospital General in ogni città del regno.Pochi anni prima, nel 1634, era stato aperto l’Asylum de Bicetre, nato come ospedale per veterani ma presto destinato a tali diverse funzioni.

Questo insieme di provvedimenti fa parte della costruzione di uno Stato nazionale retto da una monarchia assoluta, che richiede un accentuato controllo degli “irregolari”. Questi infatti nel Medio Evo feudale avevano potuto essere abbandonati ed  espulsi negli spazi territoriali che restavano liberi fra l’uno e l’altro centro di potere organizzato; quando non fisicamente eliminati,  tendenza  prevalsa nel Rinascimento con la caccia alle streghe. Ma un potere centralizzato che mira a un diffuso controllo del territorio ha altre esigenze.

Parallela l’evoluzione nel pensiero filosofico. Cartesio, nella sua riflessione epistemologica sui criteri di verità, fonda il potere della ragione anche mettendo a tacere la dimensione folle con quello che Foucault definisce “uno strano colpo di forza”: se nella ricerca del vero ammettesse quale elemento critico la possibilità di essere insensato, si riterrebbe “più insensato di loro”. Se è vero ciò che è chiaro e distinto, non c’è spazio per il confuso e l’indistinto.

E’ a fine settecento che nasce la psichiatria come la intendiamo.

Non mancano nei secoli precedenti riflessioni in qualche modo propedeutiche allo sviluppo della psichiatria moderna e inserite in ottiche più ampie, dalla medicina alla filosofia alla demonologia: basta rapidamente ricordare  Johann Weyer, Paracelso, Felix Plater, Sydenham, Cabanis.

Ma la svolta decisiva si ha con l’opera di Philippe Pinel (1745 – 1826) che dal 1793 opera a Bicetre. La mitologia relativa a questo personaggio si riassume nel celebre gesto liberatorio: togliere le catene agli infermi di mente che non solo si trovavano confusi in una massa indifferenziata di “devianti” come mendicanti, prostitute, libertini, immigrati, ma finivano con l’essere sottomessi a un trattamento particolarmente duro in quanto refrattari al rispetto delle norme comportamentali imposte dall’istituzione. Il gesto è reale ma – necessariamente – parziale.  Necessita di una copertura politica, fornita da Couthon,  uomo di Robespierre. Infatti, l’arbitrarietà dell’internamento indiscriminato in uso nell’ancien regime risulta incompatibile con l’ideologia rivoluzionaria, e ciò apre il problema dello specifico  trattamento dei folli ritenuti disturbanti o pericolosi: diviene necessario individuarli all’interno del più ampio ambito della devianza, e si apre quindi lo spazio allo sviluppo della moderna psichiatria; termine tuttavia inventato 15 anni dopo in Germania, dal medico Johann Reil.

Notevole il lavoro teorico di Pinel, e i suoi riflessi operativi. Egli definisce con chiarezza il limite fra le affezioni organiche e quelle, si dirà più tardi, psicogene: sono le passioni disordinate a causare ipocondria, melancolia, mania, isteria. Tutto ciò a suo avviso ha una base “sociologica”: è la perdita delle regole morali a turbare l’equilibrio personale conducendo alla follia. Da qui, in una stretta connessione fra teoria e pratica, nasce l’esigenza di un “trattamento morale”: una sorta di ortopedia mentale, che ai nostri occhi sta fra un approccio pedagogico e una specie di ri-condizionamento, una “behaviour therapy” ante litteram. La liberazione, almeno parziale, dalle catene non è quindi solo un provvedimento umanitario ma è anche necessaria premessa al trattamento morale: non si possono incentivare i comportamenti sani e disincentivare quelli malati se il paziente è immobilizzato.

Anche in questo passaggio appaiono forti connessioni fra il trattamento del disturbo mentale e il quadro culturale, sociale e politico nel quale esso cambia. Di fatto Pinel ci appare  debitore al concetto di “tabula rasa” di Locke nell’attribuire alla mente psicotica una notevole plasticità, tanto che nell’intento di modificarla con adeguati stimoli non rifugge affatto da un autoritarismo forte  ma  inserito in un progetto di cura. Il suo seguace Daquin – che opera in Savoia, parte del Regno di Sardegna ma regione culturalmente e linguisticamente francese – non esclude neppure   un “salutare timore” come molla del cambiamento. L’imposizione violenta di un ordine razionale è precisamente un’eco di quanto accade nello svolgersi della rivoluzione francese proprio negli anni in cui Pinel si insedia a Bicetre.

Questi indirizzi vengono ulteriormente sviluppati da Jean-Etienne Esquirol, successore di Pinel: egli formula riflessioni nosografiche e soprattutto epidemiologiche, tentando correlazioni fra le varie tipologie di disturbo mentale e  le variabili extracliniche personali e socioambientali: personali come sesso, età, stagione di insorgenza, professione; e generali come urbanesimo e  atmosfera politica e culturale; come si vede, un tipo d’approccio tutt’altro che superato ai nostri giorni. Propone la teoria dell’isolamento terapeutico, che avrà una protratta influenza teorica e pratica: il primo passo del trattamento morale è il distacco del folle dall’ambiente sociale che  ha contribuito al suo male, e i cui stimoli perturberebbero gli interventi controllati previsti dal trattamento.

Ma il trattamento morale rivela col tempo i propri limiti, dimostrandosi inadeguato a cambiare il funzionamento patologico della mente; anche se ne ravvisiamo tuttora una lontana eco negli interventi riabilitativi a indirizzo comportamentistico. Al contrario, negli ultimi decenni  del secolo XIX e nei primi del XX  la ricerca anatomoclinica apre nuove promettenti prospettive, con la scoperta delle basi anatomiche (e parzialmente, di quelle eziologiche) di importanti e gravi disturbi mentali: le demenze degenerative, quelle vascolari, quelle infettive. In particolare suscita grandi speranze l’identificazione dell’infezione luetica quale causa della paralisi progressiva, poiché la sintomatologia di questa ha una somiglianza, pur superficiale, con quella di altre sindromi psicotiche: in particolare di quella schizofrenia che, significativamente, Kraepelin denomina “dementia praecox”: anche questa dunque una demenza, contraddistinta soprattutto dal suo inizio precoce. Kraepelin non è però il principale alfiere dell’organicismo, cui più che altro offre il supporto di una classificazione dei disturbi sistematica, chiara, apparentemente obbiettiva (come i DSM oggi?). E’ invece  Griesinger che più di ogni altro incarna il nuovo indirizzo, con conseguenti proposte organizzative: il dispositivo assistenziale dovrebbe prevedere un momento rivolto all’acuzie, con interventi medici intensivi (ciò apre la strada alla nuova denominazione di “Ospedale Psichiatrico” in sostituzione di quella di “Manicomio”); e una fase successiva in cui quelli che chiameremmo “esiti in cronicità” vengano avviati ad attività confacenti al loro stato, in colonie di lavoro.

Anche l’approccio organicistico rivela nel tempo i propri limiti. Infatti  non vengono identificate basi organiche in altri disturbi mentali, oltre che nelle citate sindromi demenziali; e anche per queste ultime alla accurata e ben fondata definizione nosografica non fa riscontro una vera efficacia dell’intervento terapeutico.

Nel frattempo, le Istituzioni proseguono una loro evoluzione (o involuzione) abbastanza indipendente dai vari indirizzi teorici e terapeutici. Ne sono molle principali l’industrializzazione e l’urbanizzazione con le modificazioni culturali e sociali che vi si collegano. In una società agricola una famiglia patriarcale allargata abita là dove lavora, e ha quindi la possibilità di tener d’occhio e gestire in qualche modo il membro disturbato e disturbante. Vi sono realtà diverse, come quella dell’Italia Meridionale dove i contadini vivono in agglomerati di diverse dimensioni da cui si recano ogni giorno al podere, spesso abbastanza lontano; ma in questa situazione è il gruppo dei vicini e familiari a far da ammortizzatore. Oppure la  persona sofferente può inserirsi, con compiti ausiliari, nel lavoro agropastorale in cui è impegnata la famiglia
Cambia tutto quando i membri di una famiglia nucleare devono ogni giorno andare in fabbrica o in negozio, lasciando solo il parente ammalato.

Le istituzioni continuano quindi a crescere: fermandoci all’Italia, nel 1875 – anno della prima ricerca statistica sistematica – risultano 12.913 degenti: 47 ogni 100.000 abitanti; nel 1899 i degenti salgono a 34.802, distribuiti in 128 Istituti: più di 100 ogni 100.000 abitanti. Infine nel 1971 si arriva a 233.000 degenti.

All’impotenza terapeutica si aggiunge quindi una crescente inadeguatezza logistica: l’affollamento e l’impreparazione di un personale di ogni livello sempre più demotivato e frustrato cooperano nel negare al degente non solo un efficace intervento di cura ma perfino una assistenza di base degna di questo nome.

E’ in quegli anni che, dopo complicata gestazione, viene alla luce quella legge del 1904 che, parzialmente modificata nel 1968,  reggerà l’assistenza psichiatrica fino al 1978. Essa colma un vuoto normativo che lasciava campo libero a diverse prassi e norme locali. Si compone di 9 articoli, definiti nei contenuti da un regolamento di 90 articoli.

E’ in apparenza molto garantista: prevede il ricovero in caso di pericolosità a sé o ad altri o di pubblico scandalo,  attestati da un certificato medico e da un atto notorio che danno luogo a un ricovero provvisorio disposto dal Pretore, mentre quello definitivo è sancito dal Tribunale. Ma il diavolo sta nei dettagli: in caso d’urgenza e sulla base di un certificato medico l’autorità locale di pubblica sicurezza può ordinare l’immediato ricovero saltando tutti i passaggi richiesti “di regola”. Ebbene, in quasi vent’anni di lavoro in Ospedale Psichiatrico non ricordo un solo caso di ricovero ordinario: tutti d’urgenza, con la connessa procedura semplificata.

Il concetto di pericolosità è in realtà un concetto limitativo: il ricovero in Ospedale psichiatrico implica una spesa per la collettività, giustificata soltanto da esigenze di ordine pubblico. A garanzia contro ricoveri ingiustificati si prevede un periodo di osservazione di 15 giorni aumentabili a trenta, seguito dalla formulazione di una diagnosi o dalla dimissione per non competenza di ricovero. Spesso però questa possibilità rimane più teorica che concreta: anche in assenza di gravi turbe psichiche, la dimissione può diventare irrealizzabile per la mancanza di una nicchia sociale, familiare, lavorativa in grado di riaccogliere il degente. Essa è comunque possibile, pur con crescente difficoltà, anche dopo il periodo di osservazione: può accadere per guarigione o per sufficiente miglioramento, ma in questa seconda ipotesi si impone l’affidamento familiare o anche extrafamiliare, e il reingresso rimane possibile in base a semplice certificato medico.

La facilità di ottenere il ricovero e la difficoltà di dimissione concorrono dunque al crescere della popolazione manicomiale, innescando un circolo perverso: sovraffollamento – mancanza delle condizioni minimali per un intervento di cura – crescente sovraffollamento.

In Liguria, non diversamente che in altre regioni, la situazione richiede periodiche sostituzioni delle strutture esistenti con altre di maggiori dimensioni. Nel 1499 viene fondato l’Ospedaletto,

Rudere dell'Ospedaletto (GE) bombardato nella II Guerra Mondiale
Rudere dell’Ospedaletto (GE)

o Ospedale degli incurabili, sito approssimativamente nella attuale Via Vernazza, così denominata proprio dal nome del fondatore dell’Ospedaletto. Il titolo per l’ammissione è non solo e non tanto la cronicità di una malattia – specialmente la lue, che si va diffondendo in Europa – quanto una condizione di degrado socioeconomico: si parla di “infiniti poveri miserabili”. E’ più che verosimile che fin dall’inizio vengano accolti anche malati di mente: ma il primo riconoscimento formale di questa realtà è del 1593, nella forma di una disposizione che subordina l’ammissione del folle alla autorizzazione dei 12 Protettori (una sorta di consiglio d’amministrazione). Ad essa si potrà poi derogare entro precisi limiti quantitativi: fino a 6 “menti capti seu furiosi pauperes et miserabiles” nel 1608; fino a 12 nel 1612; a 24 nel 1613, 40 nel 1622, 50 nel 1627, 80 nel 1651. Questa crescente pressione rende progressivamente invivibile la struttura.

E’ nel 1826 che si ritiene necessaria la costruzione di uno stabilimento riservato esclusivamente (almeno in teoria) ai malati di mente. L’area scelta è  Abrara, nella piana del Bisagno e più precisamente nella zona della attuale Via Brigata Liguria. All’epoca è fuori dell’area urbana, ed è zona di orti (da cui la parola “besagnin”). Si costruisce un edificio a stella con sei bracci, nel modello del panopticon proposto dal filosofo inglese Bentham, in cui il controllo e sorveglianza dei degenti o dei detenuti a vario titolo è favorito dalla collocazione centrale dell’ufficio dei sorveglianti. Prima pietra nel 1834, inaugurazione nel 1841 di quello che è noto come Manicomio di Via Galata.

Esterno del Manicomio di Via Galata (GE)
Manicomio di Via Galata (GE) – esterno

Anche questa Istituzione viene presto travolta dal sovraffollamento: dai 425 del 1850 si passa ai 966 del 1909, tanto da dover nuovamente ricorrere anche al vecchio Ospedaletto. Si impongono nuove soluzioni, anche con la motivazione non secondaria di una fruttuosa diversa utilizzazione dei terreni di Abrara che ormai, raggiunti dall’espansione della città, hanno un ben diverso valore economico.

Interno del Manicomio di Via Galata (GE)
Manicomio di Via Galata (GE) – interno

Negli anni 80 ci si orienta sull’area di Pratozanino, località collinare quasi disabitata nell’entroterra di Cogoleto. Le motivazioni economiche – basso costo dei terreni – e sociali – allontanamento del folle disturbante dal contesto sociale – trovano una qualche copertura ideologica nei lontani echi della teoria dell’isolamento di Esquirol, e nella concezione tardoromantica della campagna come luogo di pace rasserenante. Tuttavia l’eccessiva distanza dalla città e la mancanza di mezzi di comunicazione adeguati sollecitano critiche. Si rinuncia temporaneamente al progetto e ci si orienta invece su Quarto, dove il nuovo Ospedale Psichiatrico nasce negli anni dal 1889 al 1905.

Quella di Pratozanino tuttavia è solo una eclissi: il drammatico affollamento di Quarto impone presto nuove soluzioni, dapprima ricercate in varie piccole succursali ma infine trovate nella riproposta di una nuova grande istituzione appunto a Pratozanino, che nasce nel 1910.
Ha una duplice funzione: a quella principale di “scolmatore” di Quarto unisce quella accessoria di ammissione diretta per i pazienti della Provincia di Savona.

La struttura segue lo schema “a villaggio”, articolata com’è in una ventina di padiglioni distribuiti in un vasto parco. La filosofia generale risente della impostazione di Griesinger: a degenti considerati cronicizzati e in linea di massima senza prospettive di dimissione si offre un ventaglio di possibilità di lavoro interno sostanzialmente gratuito: soprattutto agricolo, ma anche nella tipografia, nella panetteria, nella falegnameria. Ma di fatto questa possibilità coinvolge non più di 150 – 200 pazienti sui 2200 complessivi. La distribuzione segue criteri strettamente comportamentali: padiglioni osservazione, infermeria, cronici tranquilli, semiagitati, agitati, incontinenti, lavoratori.

E’ qui che nel ’60 si trova a operare il sottoscritto, novellino venticinquenne ancora all’ultimo anno di specializzazione, frequentata fino allora nelle corsie della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali di Genova, a quel tempo unificata e che accoglieva la psichiatria in posizione alquanto subordinata. La scelta di lavorare in manicomio era in quell’ambiente considerata un ripiego alquanto squalificante. Un collega  rimasto in Clinica alludeva malignamente alla rozzezza dei diari clinici manicomiali chiedendomi: “allora, come sono i poteri logici e critici dei tuoi pazienti?” e un altro, rispondendo al mio scandalo unito al desiderio – ingenuo, certo – di cambiar qualcosa: “vedrai che lì te le toglieranno dalla testa queste belinate missionarie!”.

Il brutto è che non sbagliavano. Come sono entrato in servizio, mi sono stati affidati i due reparti femminili di “croniche tranquille”, per complessivi 300 pazienti circa (più o meno, non ricordo bene). E siccome si pensava che questo compito mi lasciasse molto tempo libero, avevo anche il compito di recarmi, nella tarda mattinata, nel reparto osservazione uomini per risvegliare i pazienti in coma insulinico con endovenose glucosate ad alta concentrazione: terapia a quell’epoca utilizzata pressochè di regola in quel reparto negli esordi psicotici, e seguita poi da cura neurolettica che contava fondamentalmente su cloropromazina e reserpina, primi – e fino allora unici – farmaci antipsicotici: la prima scoperta nel 1952 da Laborit e ampiamente studiata e introdotta nella terapia da Delay e Deniker; la seconda mutuata dalla medicina tradizionale indiana. Arrivava in quegli anni anche l’imipramina, prototipo degli antidepressivi triciclici destinati nel tempo a sostituire quasi totalmente gli inibitori delle monoaminoossidasi: capostipite l’iproniazide. Agli inizi del mio lavoro a Pratozanino questi farmaci costituivano già l’ossatura dell’arsenale terapeutico disponibile, mentre le varie terapie di choc, prima predominanti, erano ormai utilizzate quasi soltanto negli esordi. Tuttavia non si comprendeva ancora quale potesse essere il loro potenziale nel consentire una trasformazione dei dispositivi di cura: gli addetti ai lavori, pronti ad accogliere nuovi strumenti di terapia somatica che apparivano emotivamente neutri, erano molto meno disposti a una evoluzione  dei rapporti interpersonali intraistituzionali.

Non c’è voluto molto per prendere atto della rete di rapporti di potere che governava l’istituzione. Il Direttore, neuropsichiatra dotato in teoria di poteri molto ampi, doveva fare i conti con l’Economo, un vero e proprio Direttore amministrativo che aveva con l’Amministrazione Provinciale – padrona dell’Istituto – rapporti probabilmente più organici e consolidati che non il Direttore stesso. Questi in compenso aveva un potere totale sui Sanitari (mi pare  6 o 7 per 2200 degenti) sui cui atti aveva ogni facoltà di verifica e di annullamento o modifica; poteva trasferirli da un reparto all’altro anche senza motivazione. Nei reparti femminili il suo riferimento erano forse, più che i Medici, le Suore che a differenza dei primi erano inamovibili e garanzia di continuità gestionale.

La controparte sindacale tutelava, come è giusto, i lavoratori; ma su posizioni fortemente reazionarie. Il corpo infermieristico non faceva parte della carriera infermieristica generale, ma era un corpo a sé  reclutato, dopo brevi corsi, con un sommario esame finale. In esso, a parte sporadiche eccezioni, si era col tempo fortemente strutturato un assunto di base – avrebbe detto Bion – di “attacco e fuga”. Ogni minima risposta innovativa veniva percepita persecutoriamente come minaccia al quieto vivere e come capace di evidenziare vere o supposte inadeguatezze personali, con conseguenti  intensi attacchi invidiosi che portavano a squalificare ogni ipotesi di cambiamento come velleitaria e insensata.

I sindacati di ogni colore ma tutti fortemente corporativi e dotati di  stretti legami politici con gli Amministratori  cavalcavano questo stato di cose: alla doverosa tutela degli interessi economici e delle condizioni di lavoro non avevano mai unito una spinta alla riqualificazione tecnica e professionale, a parte alcuni interventi di facciata come la proposta di costituire il sottogruppo degli “infermieri scelti”, al quale titolo non corrispondeva affatto una miglior formazione.

Nella gestione del paziente dunque si restava affidati solo alle qualità personali, certo sempre fondamentali ma che andrebbero sostenute con un supporto tecnico teso allo sviluppo delle capacità relazionali: esso invece mancava totalmente. Si variava dunque da atteggiamenti di comprensione umanitaria ad altri di sostanziale indifferenza fino ad altri  francamente violenti. Ogni tanto qualche lampo di sofferenza autocritica: ricordo un piccolo episodio. Gran parte degli infermieri erano impegnati in attività lavorative di ogni tipo, quasi considerando il lavoro in ospedale come un secondo lavoro: quando mi sono complimentato con uno di loro perché sapeva far di tutto, mi ha risposto con qualche amarezza: “sì, tranne che l’infermiere”.

Più variegate le posizioni del corpo medico, pur sottese da una comune frustrazione e così ben descritte da Tobino: chi si rifugiava in studi, letture e pubblicazioni; chi in una apparente indifferenza rassegnata; chi in sterili rivendicazioni personali.  Fruivamo di alloggio gratuito a compenso della collocazione lavorativa disagiata: gran parte di noi lo utilizzava, e il Direttore era tenuto per regolamento ad alloggiare dentro l’ospedale. Si creava quindi un particolare clima di guarnigione, in una atmosfera di tempo sospeso che in qualche modo avvicinava la condizione dei curanti a quella dei pazienti.

E’ in questa condizione che negli anni 50 l’Istituzione si presentava ai cambiamenti imminenti. Ma il seguito al prossimo numero.

Per le fotografie si ringrazia il prof. Emilio Maura

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