Vaso di Pandora

Riflessioni e provocazioni sulla Comunità Terapeutica.

Si tratta quindi ed è ormai la tendenza della psichiatria attuale, di occuparsi di problemi biologici, sociali, relazionali, di sistema di comunicazione, psicodinamici-intrapsichici, filosofico esistenziali, ecologici, antropologici, filo ed ontogenetici.

Queste brevi premesse rendono esplicita la difficoltà di intervenire in modo incisivo su tutte queste variabili; implicano la necessità di tollerare di dover operare nella terapia della psicosi, partendo dal modello e dal vertice di osservazione più aderente alla propria cultura e personalità, evitando di barricarsi dietro di essa nel tentativo di imporla. Ciò per non dover affrontare la fatica derivante dal considerare l’altro in un’ottica dialettica, che è la sola possibilità di evitare un impoverimento narcisistico della cultura umana.
Il riconoscere l’altro ed il rispettarne la dimensione personologica è una delle basi della relazione con la persona psicotica, che solo successivamente renderemo specifica come la terapia, se riusciremo ad indirizzare gli interventi al fine di promuovere la crescita individuale ed il rafforzamento della struttura egoica del paziente.
I risultati in tal senso dimostreranno la validità del nostro intervento.
La proposta è quindi quella di avere come riferimento un modello in questo senso pragmatico.
Nel decidere di delimitare un contesto preciso, la comunità terapeutica, nel quale intervenire pre promuovere la riabilitazione del paziente psicotico, abbiamo seguito: esigenze di ordine pratico, quali la mancanza di strutture residenziali per pazienti con i quali i programmi sul territorio erano falliti per vari motivi, ed esigenze personali derivanti dalla frustrazione del desiderio di portare avanti, seppur in una prospettiva non totalizzante, un percorso caratterizzato dalla possibilità di riproporre un microcosmo che avesse in sé una minor perversione della comunicazione e permettesse perciò di intervenire sul paziente senza le influenze potenzialmente patogene dell’ambiente.
La gamma di interventi che si sono pensati utili, derivati dalla nostra esperienza in strutture intermedie, sono stati caratterizzati dal tentativo di tener il più possibile in considerazione le variabili che abbiamo definite prima come concorrenti nel determinare la malattia mentale.
Il gruppo di operatori che si confronta con un’impresa del genere deve inevitabilmente fare i conti con le proprie aspettative e ispirazioni ideali.
Esse intervengono come forza motrice di un processo che necessita, per giungere a buon esito, della opportuna fluidità.
Ognuno degli operatori tecnici (definiscono tali coloro che hanno fatto la scelta di lavorare in comunità per aspirazione professionale) porta con sé un patrimonio emotivo costituito dalla cultura personale, dalle convinzioni sul tipo di intervento da preparare per il fine stabilito, dall’idea dei mezzi da utilizzare, dall’idea dal rapporto in gruppo e col gruppo.
Diverse sono ovviamente le motivazioni degli operatori non tecnici (ausiliari e segretari) che comunque sono depositari di una cultura “comune” molto importante e da considerare utilissima nel tentativo di realizzare un continuum tra il dentro della comunità e il fuori dell’organizzazione sociale.
Il tentativo di realizzare un progetto comunitario sottende la necessità di definire un setting istituzionale più confacente alle esigenze connesse ai compiti propri della riabilitazione che, abbiamo già avuto occasione di dire, consiste “nel accertare e supportare i bisogni e le motivazioni del paziente attraverso interventi complessi ed integrati, condotti sia a livello individuale sia ambientale, focalizzando in modo particolare l’attenzione su tutto ciò che costituisce la vita quotidiana del paziente”. Ed ancora “promuovere la crescita complessiva dell’individuo, senza valorizzare l’acquisizione di abilità settoriali più o meno inutili e senza ricercare ipertrofiche compensazioni”.
All’interno del teatro comunitario si svolgono varie scene che, pur essendo autonome, vengono modificate dal contesto in cui si manifestano e non possono essere tra loro slegate.
A partire da questa considerazione ho proposto a colleghi e collaboratori, che si sono trovati a condividere con me questa avventura, alcune domande, che sono servite da stimolo per indicare una strada comune su cui procedere considerando le aspirazioni ideali, le diverse culture personali ed infine la necessaria verifica programmatica di esse.
Questi che avevo proposto erano i seguenti:
1) il lavoro di gruppo e in gruppo;
2) il problema dell’integrazione;
3) il problema della riabilitazione: significato, modelli di riferimento;
4) l’atteggiamento psicoterapico istituzionale;
5) l’attività risocializzante;
6) il problema dello spostamento progressivo dal “dentro” al “fuori”;
7) istituzione di laboratori protetti;
8) il significato della psicoterapia individuale all’interno della comunità;
9) l’importanza della diagnosi per l’ammissione in comunità;
10) il significato della supervisione esterna del lavoro svolto;
11) l’importanza dl rapporto tra gruppo di tecnici, di non-tecnici e di pazienti.
Il desiderio di poter comunicare ad altri colleghi ed operatori psichiatrici i limiti e le possibilità del nostro intervento ci ha sorretto in questa fatica.
Non intendiamo porci come modello che risolve al proprio interno ogni problema riguardante il paziente, ma come strumento di lavoro che deve integrarsi, tra i tanti utili a ridefinire in modo economicamente più valido il drammatico percorso evidenziale del malato mentale.
Lo spazio al confronto con altre situazioni, realtà terapeutiche, istituzionali e culturali diventa quindi per noi un bisogno strettamente legato al poter far della terapia o come preferisco dire: “a prendersi cura del paziente”.
L’idea era in origine di utilizzare il materiale proponendone una sintesi esplicativa; ho preferito invece proporre degli stralci integrali dei vari contributi che permettessero, evidenziando le diversità ed i punti di contatto, di fornire al lettore un’immagine più completa possibile della situazione al momento attuale.
L’ordine dei contributi è apparentemente casuale.

Anna Barlocco, psichiatra

Ho sentito dire una volta da uno psichiatra che l’esistenza delle comunità terapeutiche è la prova della nostra incapacità di guarire gli psicotici: non riuscendo cioè a rendere queste persone in grado di stare nel mondo reale gliene costruiamo intorno uno artefatto perché in esso possano vivere.
Detto ciò sembrava quasi convincente.
C’era tuttavia in questo discorso qualcosa di irritante, qualcosa che dopo aver iniziato a lavorare in una comunità mi è diventato sempre più chiaro.
Quello che presuppone non tanto la rinuncia a priori, ma la staticità.
Qualcosa che fa venire la voglia di scappare da simili luoghi.
È stato diverso quello che abbiamo vissuto in questi primi mesi di lavoro qui, un divenire variegato, complesso e molteplice.
E diverso, soprattutto, e da quell’idea non troppo definita nei suoi contorni, ma emotivamente ben presente e non barattabile, di quello su cui ci è stato chiesto di pensare, un’idea di futuro più che un progetto quella per lo meno che sta nella nostra mente. Per me, più che un’idea o un modello, è qualcosa che si avvicina a una preconcezione, una guida “morbida” e adattabile, probabilmente tinta di desiderio. Mi è più facile partire dalle emozioni di quello che è stato finora, e l’emozione prevalente è stata la sorpresa. Penso ai rapporti individuali con i pazienti, cui ero già abituata in un rapporto ospedaliero psichiatrico o in uno studio, ma che hanno assunto, per il fatto di svolgersi in una comunità, differenti connotazioni.
Non solo in quanto parte di un tutto ben più vasto, ma come suo filo conduttore, luogo dove le esperienze comuni di oggi vengono riportate a se stessi e alla propria storia.
Penso poi, soprattutto, al rapporto con il gruppo dei pazienti, e a questa sensazione a tratti sconvolgente di essere come immersi in un acquario che prima si vedeva solo dal di fuori: questa totale condivisione di quotidianità, lo svegliarsi, il sonno, il cibo, il chiacchierare, sentire raccontare una barzelletta, giocare a pallone e a ping-pong, fare una sciarpa, studiare pittura o come si sviluppa un vaso, fare le frittelle, sfogliare una rivista e dare i voti agli attori più belli. E poi arrabbiarsi, essere stanchi, vivere aggrediti e spaventarsi, annoiarsi o diventare tristi, sentirsi contenti.
Essere dentro, stare in mezzo, ma con qualcosa di diverso, una funzione strana, difficile da raccontare, peculiare di quest’altro gruppo che siamo noi: il gruppo dei terapeuti. Penso che quello che chiamiamo “clima terapeutico” sia strettamente legato a questa funzione, che ognuno di noi usa individualmente in un modo che ha a che fare con la sua trasformazione e ancor di più con la sua persona, ma che l’essere parte, appunto, di un gruppo rende anche qualitativamente differente. Più trasmissibile, credo, estensibile con un apprendimento che non può essere che emotivo, che si avvicina più al pensare psicoanalitico che all’intento pedagogico. Ha qualcosa a che fare, questa misteriosa “funzione”, almeno idealmente, con ciò che Bion chiama “capacità di rêverie” e la “funzione alfa”. Tollerare, cioè, le sensazioni che attraverso il meccanismo dell’identificazione proiettiva ci vengono fatte sentire, accoglierle dentro di sé per elaborarle, renderle assimilabili, restituirle bonificate e come tali tollerabili. Dare ad esse, dunque, un senso.
Implicito in questo discorso è il nostro coinvolgimento diretto e costante nelle dinamiche del gruppo operatori-pazienti: da ciò deriva, come imprescindibile corollario, la necessità di una supervisione esterna al gruppo stesso e ad esso comune.
Zapparoli, parlando di terapia dello psicotico, ha messo in primo piano il concetto di integrazione. Intendiamo l’integrazione su diversi piani. I1 primo è tra i differenti poli di un ideale triangolo, cioè trattamento psicofarmacologico, psicoterapico e riabilitativo-assistenziale. Tutti e tre trovano espressione nella prassi della comunità.
Un secondo piano riguarda l’integrazione tra i diversi membri dello staff curante: questo aspetto deve essere particolarmente rafforzato. La modalità è da una parte formalizzata, con la partecipazione di tutto il personale al gruppo di supervisione, in parte informale, tramite gli interventi ed i contatti estemporanei di ogni giorno, cui deve essere portata costante attenzione.
Un terzo livello e più allargato, non riguarda tanto la comunità nel suo interno, quanto i suoi rapporti con i reparti ospedalieri ed i Servizi di Salute Mentale di competenza, la famiglia, l’entourage e l’ambiente del singolo paziente; rapporti questi che devono essere stretti, essendo la struttura in cui operiamo solo un momento, ci si augura evolutivo ed emancipativo, dell’assistenza al paziente: ed è proprio il senso storico della continuità quello che deve essere mantenuto o fornito. Ciò tenendo conto della posizione appunto “intermedia” che la comunità terapeutica occupa, in un ideale asse contenimento-autonomizzazione, malattia-sanità.
Questo ultimo punto ci porta inevitabilmente a quello che è il progressivo spostamento da dentro a fuori. Lo “spostamento” di cui si parla, pur essendo certamente nel suo complesso progressivo, e non lineare: io, per lo meno, lo immagino come costituito nel suo interno da movimenti pendolari, in un continuo scambio, come spazi separati da una membrana permeabile di cui noi come terapeuti siamo costituenti.
Le crisi, frustrazioni, paure in cui il paziente si imbatte nel “suo” strettamente personale “fuori” − realizzato sia nell’ambiente d’origine durante i permessi a casa, sia quotidianamente nei contatti − sono riportate qui, ad ogni suo ritorno, e qui vengono elaborate, pensate, affrontate.
Se vogliamo guardare a questi processi in termini di codici nel senso di Fornari, sia quello materno sia quello paterno vi trovano espressione, in un continuo aggiustamento, calibrato sulle risposte del singolo paziente in quel particolare momento. Concetto, del resto, che si può avvicinare a quello della “stimolazione ottimale” proposto da Wing. Il codice fraterno riguarda più da vicino il gruppo dei pari, e ad esso ci si richiama maggiormente nelle attività più prettamente risocializzanti e riabilitative.
Arriviamo cosi a parlare di riabilitazione, intesa come qualcosa che va pensata caso per caso. Ciò (senza sottovalutare il faticoso lavoro che il paziente comunque fa per proteggere sé e gli altri dagli effetti distruttivi, dirompenti, della psicosi) utilizzando gli strumenti e le risorse disponibili nel territorio, cercando soluzioni il più possibile individualizzate e possibilmente anche esterne alla comunità.
È per esempio in questo ambito che si situa il rapporto tecnici-non tecnici, in cui è compito dell’operatore farsi “intermediario” tra follia e sanità.
Per una parte dei pazienti, almeno al momento, del resto, gli spazi che possono essere richiesti non superano l’ambito dell’ambiente protetto.
Concretamente, spazi strutturati sul modello del laboratorio protetto sono però scarsi o assenti, a tutt’oggi: un problema aperto è se sia o meno il caso che in futuro la comunità contribuisca a crearne, e in che misura.
In ogni caso, questi aspetti mettono ancora una volta in primo piano il lavoro con il S.S.M., la costruzione comune di un progetto, di ciò che ognuno può fornire per portarlo a compimento, la sua continua verifica e conseguenti eventuali modifiche. Questo introduce il problema della diagnosi: c’è infatti una diagnosi iniziale con le inevitabili valutazioni prognostiche in base alla quale si costruisce un’ipotesi di lavoro. C’è una diagnosi che serve come linguaggio comune per rendere comunicabili esperienze e risultati, ricerche statistiche ed epidemiologiche; e questo, del resto, l’esplicito intento cui si richiamano gli autori del DSM III R.
Esiste, infine, la diagnosi da dimenticare e mettere da parte nel lavoro di ogni giorno.
Per concludere, tornerò all’inizio.
Dicevamo, dunque, la staticità. Penso sia questo il pericolo da tenere costantemente presente, inteso come irrigidimento, stallo, perdita di vita. Ad esso contrappongo un altro concetto, in cui pensiero e sentire sono per me così strettamente legati da impedirmi di spiegarlo razionalmente: la fluidità.

Carnovale Monica – Romano Cinzia, psicologhe

…l’unica certezza che avevamo come scudo era il privilegiare il lavoro di équipe e l’attenzione orientata al gruppo dei pazienti e alle sue dinamiche. Attorno a questo postulato abbiamo sviluppato il nostro lavoro e adesso, a distanza di 6 mesi dall’apertura della “Redancia”, possiamo fare alcune riflessioni e considerazioni riguardanti il cammino percorso finora.
Appartenenti al gruppo abbiamo inizialmente considerato tutti gli operatori (tecnici, non tecnici) ed i pazienti ed abbiamo tacitamente dichiarato sfruttabili ai fini terapeutici tutte le risorse dell’istituzione. Sforzandoci di usare, nella maggiore estensione possibile, in un piano terapeutico vasto, il contributo di tutti: personale e pazienti.
Per fare questo si deve aver presente il bisogno e la necessità di tutti gli operatori di comprendere il senso di ciò che si sta facendo.
Mentre l’uso del termine “équipe” si è diffuso in modo ubiquitario, ciò non ha coinciso nella realtà con l’analoga attuazione responsabile delle caratteristiche funzionali che questo termine comporta.
Persone educate per tanti anni a considerare la malattia mentale come insensatezza, abituate ad una prassi custodialistica che presupponeva l’ubbidienza coatta o volontaria del malato, quindi formatesi con questa esperienza, o non formatesi del tutto, (personale ausiliario) se non vengono rese partecipi del differente modo di concepire la malattia mentale restano disorientate e confuse da trasformazioni che appaiono solo nominali (quello che prima era il “matto” ora si chiama “ospite”).
Non riusciranno mai ad assumere consapevolmente una loro capacità relazionale adeguata alla gestione di una Comunità Terapeutica aperta. Noi pensiamo sia compito dei tecnici chiarire gli obiettivi comuni, stimolare la comunicazione interna sottolineandone l’importanza.
Se ci troviamo ad interagire con gli altri in un rapporto in cui non possiamo dare un senso al nostro esserci, siamo come parole inserite in una frase senza senso ed il nostro essere “parte del tutto” si risolve in un esserci-male, cioè in un malessere comune.
La condivisione quotidiana di situazioni con i pazienti ci coinvolge in dinamiche che tendono a portarci “dentro” alle relazioni, con il rischio di perdere di vista quello che sta realmente succedendo.
Molte volte sono i nostri vissuti personali che ci spingono ad avere una visione “di parte”, altre volte ci troviamo dentro, troppo dentro, al gruppo ed alle sue perversioni. Si impone, in questo caso, la necessità di una supervisione che ci stimoli a vedere dall’esterno, “da fuori”, che ci aiuti a diventare spettatori che osservano il loro stesso agire e re-agire.
È stato dimostrato che vi sono profondissime connessioni tra lo sviluppo della malattia mentale e l’organizzazione dell’intervento.
Non ci convince una struttura che privilegi un’impostazione “psicoterapica” che preveda risposte “a blocchi”, separando, all’interno di una stessa situazione, le competenze in una serie di gesti scissi e frammentari:
– quella del terapeuta con il suo spazio-setting privilegiato;
– quella dell’infermiere solo dispensatore di medicine o puro “manovale”;
– quella dell’utente, fruitore passivo e corpo estraneo rispetto all’organizzazione.
Il vero progetto (forse l’unico in questa ottica) della Redancia è una continua trasformazione mediata ed indirizzata dalle esigenze e dai bisogni di ogni singolo paziente.
Ci siamo chieste quale sia il vero problema che un approccio di tipo riabilitativo deve affrontare. Pensiamo si possa essere tutti d’accordo che coloro che hanno condotto un’esistenza disfunzionale alla società, possano essere definite persone con problemi seri nel soddisfare bisogni ed esigenze proprie ed altrui. Le loro storie sono una serie continua di fallimenti personali e sociali con conseguente ritiro loro e degli altri nei rispettivi spazi vitali, sempre più ristretti.
In questi spazi, liberi dalle normali aspettative, ricevono etichette che descrivono in realtà una “nuova serie” di aspettative sociali. Ad esempio, definire una persona “psicotica” vorrà sottintendere l’attribuzione di significati che spesso condizioneranno le aspettative e la relazione con gli altri.
Proseguendo in tale processo di allontanamento dalle relazioni si accresce l’isolamento della persona. Poche saranno le opportunità di imparare nuove capacità e facilmente verranno perse, per disuso, le capacità acquisite nel passato.
Il problema vero di questi pazienti possiamo vederlo nella mancanza di articolazione sociale, nella loro incapacità di soddisfare con successo le esigenze, i bisogni, secondo le norme correnti nella collettività. Obiettivo di un intervento riabilitativo diventa quindi lo sviluppo di queste capacità ed abilità. Crediamo che trattamento e riabilitazione non possano essere separati: nel lavoro psichiatrico procedono insieme. Ci chiediamo pertanto, lavorando in Comunità Terapeutica, che cosa possiamo offrire oltre a farmaci e psicoterapia? Rispondere a questa domanda, pensando di soddisfarla, sarebbe presuntuoso. Pensiamo però di poter proporre qualcosa di utile ai pazienti lavorando sullo sviluppo di competenze individuali e sociali che rispettino lo stile di vita di ognuno all’interno del contesto normativo della società, senza essere vincolati da una gamma limitata di scelte e lontani dal voler condizionare rigidamente le loro preferenze…
…Se pensiamo che il paziente possa “cavarsela” nel suo spazio vitale, significa che ci aspettiamo da lui dei miglioramenti che non possono essere sproporzionati rispetto alle sue possibilità reali. È importante, a nostro avviso, calibrare il livello di stimolazione per tenere sempre vivi l’interesse e l’aspettativa, ricordando che l’assenza di stimolazione (troppo malato) conduce alla perdita di interessi e che un’iperstimolazione (troppo sano) crea grosse aspettative che facilmente portano al ripetersi di un fallimento; entrambe vanno nella direzione della cronicità (Wing e Brown).
L’orientamento del nostro gruppo nella pratica è diretto verso l’integrazione di mezzi terapeutici e riabilitativi pur con i limiti di un’esperienza ancora giovane.
La struttura del programma e l’interazione paziente-équipe si basano sulla valutazione delle competenze di ciascuno e sulla definizione di comportamenti da sviluppare. Il programma deve cambiare mentre il paziente cambia. Se il programma resta lo stesso, anche se migliorano i comportamenti competenti, il paziente, in realtà, diventerà socializzato in relazione alle norme, ai valori ed alle aspettative del programma e non a quelle della società esterna.
Mentre il paziente migliora ci saranno nuove competenze che dovranno essere sviluppate. Il programma per ciascun individuo dovrà, quindi, essere adattato a questo fine. Cioè, ad ogni stadio, i comportamenti che il paziente ha sviluppato sono solo il punto di partenza per stimolare ulteriori competenze.
Le attività inserite nel progetto, siano esse un gruppo di falegnameria, giardinaggio o cucito, sono un mezzo per sviluppare le competenze sociali presentate già dal paziente.
Alla Redancia, il favorire queste situazioni ludico-metaforiche, significa “accompagnare” il paziente in una rappresentazione del reale paragonabile al gioco infantile del “come se”.
Il rischio può essere, d’altra parte, quello di negare la realtà stessa che non sarà mai “asettica” e priva di complicità. È compito dei terapeuti stimolare un costante esame di realtà che fa parte della dimensione “paterna” della Comunità. Il clima della Redancia rappresenta a nostro parere un buon esempio dei concetti di “codice paterno” e “codice materno” teorizzati da Fornari, il quale sostiene che “i gruppi sono equiparabili alla famiglia”. Quindi la rappresentazione dell’istituzione nella mente delle persone che la vivono può essere descritta in termini di codici oggettivi.
I codici descrivono un certo tipo di relazione tra i personaggi familiari.
Il codice paterno si fonda sul privilegiare il principio di realtà e nel valorizzare l’espansione delle capacita e dell’autonomia, favorendo così una progressiva e graduale separazione del figlio dalla madre prima, dalla famiglia poi, e la sua introduzione nella società più ampia.
L’altra faccia del nostro intervento è di tipo materno: si stabilisce un contatto immediato (per quanto possibile) con il paziente sulla base dell’accudimento, della tenerezza e del riscontro emotivo empatico. Questo porta a considerate meno spaventoso l’esterno.
Pensiamo che la stessa équipe che sostiene e protegge il paziente debba anche proporgli e/o imporgli, se necessario, gli aspetti più duri delle regole e della vita in generale. La difficoltà sta nell’essere contemporaneamente “dentro e fuori”, “padre e madre”; ciò è in parte risolvibile, come si e fatto, con la divisione di questi due ruoli e la loro attribuzione a terapeuti diversi considerando anche le caratteristiche personali di ognuno.
Le attività svolte alla Redancia sono ripartite in un ordine spaziale e temporale per dare all’ambiente un ritmo costante.
Alle pareti della stanza comune sono appesi cartelloni, fatti con la collaborazione dei pazienti, che riportano la distribuzione degli orari specificando le attività nei vari momenti della giornata. Nella suddivisione del tempo e dello spazio si inseriscono i gruppi di attività che si svolgono in giorni stabiliti della settimana in un luogo ben preciso.
Abbiamo posto l’attenzione sul valore terapeutico dei materiali usati (legno, stoffa, palle, pennelli…), sull’importanza dell’azione e sul significato dell’interazione nel gruppo. Il materiale costituito da oggetti concreti si rivela assai importante ai fini di un rapporto comunicativo che non si limita al livello gestuale e concreto, ma attiene anche a quello simbolico.
Gli spazi strutturati, in cui di volta in volta prevale una certa tecnica o un certo materiale (psicoterapia individuale, di gruppo, corporea, musica, espressione grafica), mirano ad integrate i vari livelli di espressione e di comunicazione della persona: dalle forme preverbali alle rappresentazioni simboliche (linguaggio).
In questo contesto terapeutico viene data particolare importanza all’agire inteso come espressione di un modo di essere, al gesto che media il rapporto tra soggetto e oggetto e a tutto ciò che il gruppo elabora.
Queste modalità terapeutiche sono assai vicine alle possibilità di espressione e di comunicazione di questi pazienti. Melanie Klein, parlando dell’azione dice che: “nella maturazione ontogenetica è più primitiva del pensiero e della parola”.
L’utilità di questa considerazione è evidente ai fini dei nostri gruppi: si è cercato di favorite l’integrazione del paziente psicotico il quale spesso usando le parole come oggetti, non ha altro modo di comunicare se non facendo uso di espressioni non verbali…
La diagnosi di un paziente ci può aiutare a fare delle prime ipotesi, ci permette di iniziare con lui un rapporto che rispetti il suo modo di comunicare e di entrare in contatto con noi; non esaurisce, non fissa una relazione; ne stabilisce solo le regole iniziali che possono modificarsi sulla base dell’evoluzione della relazione stessa.
Tentiamo di accostarci quanto più possibile al senso dell’esperienza umana di fronte alla sofferenza psichica. Non più anamnesi quindi, ma tentativi di ricostruire storie personali senza limitarci al sintomo.
Storicizzazione, recupero di un passato scomparso, intervento sul presente, definizione di un futuro più chiaro. Vorremmo avvicinarci alla “vita vissuta” delle persone senza strutturare l’incontro solo con la loro “parte malata” riducendo la sospensione del loro spazio-tempo.
È, infatti, la vita del soggetto sofferente e non la sua malattia ad entrare in relazione con la vita stessa degli operatori, modificando costantemente i tempi e i modi dell’intervento.

Giuseppe Berruti, psichiatra

Nel cercare di scrivere queste note credo di aver riscontrato le difficoltà che si incontrano di fronte a una situazione complessa, difficile da accettare in quanto tale: cioè il tenere una prospettiva unitaria e “spiegare” tutto con una teoria; difficoltà che oltretutto è una conseguenza nell’atteggiamento non ideologico (nei limiti del possibile) che ci siamo dati. Quindi ho pensato che poteva essere utile, in questa linea, considerare i punti dati come dei vertici diversi, da cui osservare la comunità. Ho pensato anche che ci potrebbe servire poter utilizzare qua e là il concetto di asse, inteso come direzione per orientarci.
Tanto per cominciare credo che il lavoro di gruppo sia una prospettiva fondamentale della comunità, sia che intendiamo il gruppo dei pazienti, sia quello degli operatori. Credo che il gruppo sia il più importante fattore terapeutico a Redancia, che può essere da questo punto di vista considerata come un tutt’uno, persino tra pazienti e operatori, dove ogni operatore è vicino ai pazienti in modo individuale, rappresentando per essi, probabilmente, qualcosa di diverso nella loro “esperienza” del processo terapeutico (sarebbe interessante vedere se in diverse tappe si appoggiano a terapeuti diversi). La prospettiva del gruppo ha a che fare conl’individuazione di se stessi come soggetto capace di porsi in relazione con gli altri e nella relazione terapeutica; ma soprattutto ha a che fare con il clima terapeutico di cui è pensiero. Possiamo guardare alle attività di gruppo come supportive e preparatorie alla psicoterapia individuale, o viceversa come ad un risultato di un lavoro preparatorio individuale.
Dipenderà, credo, dal caso specifico, dalla capacita e dalla formazione degli operatori.
Se da una parte il processo terapeutico e molto legato al gruppo, ed è qualche cosa che si nutre del clima terapeutico (e forse sono addirittura la stessa cosa, come dicevamo), d’altro canto dipenderà anche dall’integrazione delle agenzie, che in questo senso sono un estensione sia del clima terapeutico che del gruppo stesso. In questa prospettiva il paziente si pone in un percorso lungo un asse Individuo-Gruppo, che corrisponde alla capacità di essere se stessi in gruppo, e quindi di poter partecipare a gruppi più grandi, esterni e meno protetti. Questo percorso assomiglia molto ad un altro “asse”: quello Interno-Esterno dove il progredire consiste nell’essere più individuali e quindi più capaci di essere sociali.
La progressiva autonomizzazione del paziente, nel corso del processo terapeutico, si sposta progressivamente da un interno più protettivo ad un esterno che lo è meno. Attorno a questo “vertice”, naturalmente, si organizzano poi molti degli altri fattori.
Così il lavoro dei gruppi sembrerebbe potere svolgere lungo questo percorso due funzioni, una recettiva, protettiva, che aumenta la dipendenza del paziente, favorendo un sentimento di “sicurezza”, e una “maieutica” per cosi dire, che fornisce il terreno per staccarsi e progredire Quest’ultima funzione sembra più legata alla capacità del gruppo di funzionare come “gruppo di lavoro” e la risocializzazione sembra essere un aspetto di questo processo. Visti secondo la nostra prospettiva questi e altri punti, le attività di laboratorio e la presenza dei non-tecnici, possono rappresentare un vertice essenziale del percorso interno-esterno. Ognuno di questi fattori può comunque diventare in un dato momento un punto d’appoggio essenziale per una nuova fase evolutiva, che comunque resta individuale.
La dipendenza dal gruppo per esempio, può essere sia una posizione di partenza, verso una maggiore individuazione, sia un punto di arrivo di una persona che si riapre agli altri.
Per fare un esempio, i laboratori protetti vanno, mi sembra, visti nel contesto del processo terapeutico del singolo paziente; infatti possono rappresentare o un momento terapeutico molto iniziale, dove la capacita individuale di una attività “pensante” è ancora rudimentale, o un momento “creativo” in una fase critica evolutiva importante. Anche l’importanza dei “non tecnici” viene molto enfatizzata da questo aspetto, senza contare l’importanza che per il paziente può avere l’estendere la rete integrata al di fuori della “sanità”, se lo pensiamo nel percorso dentro-fuori o in quello gruppo-individuo.
Queste diverse attività servono quindi in parte per valutare il paziente, in parte per curarlo e in parte per poter fare delle previsioni.
Non mi sentirei di dire che in assoluto sono diverse per importanza.
Direi invece che formano una rete tra le quali si colloca ogni paziente di momento in momento, e che ogni via può essere la principale della terapia.
Un altro elemento fondamentale riguarda la possibilità di pensare e verificare le esperienze fatte. Questo punto non fa parte esplicitamente di quelli dati, ma raccoglie elementi importanti da molti di essi, e la valutazione iniziale è molto importante per questo. Per esempio ci aiuta sia nella selezione dei pazienti, sia per le valutazioni prognostiche, su cui si basa parte della possibilità di valutare la qualità del lavoro. I criteri diagnostici sono naturalmente un enorme problema, dato che bisogna trovare la mediazione tra la necessità di inquadrare una persona senza costringerla in gabbie rigide, con termini che siano condivisibili da altri e quindi non ambigui e statisticamente utilizzabili, ma che non perdano di vista ciò che c’è di vitale nell’esperienza clinica in Comunità. Il tutto senza torturare nessuno (operatori e pazienti) con interminabili batterie di test.
Credo che dovremmo fare ogni sforzo per trovare un compromesso accettabile; la classificazione di Chestnut Lodge sembra troppo vaga e loro stessi trovano non sia predittiva. Ha però dei pregi: infatti tiene conto di fattori famigliari e genetici, nel senso di sviluppo della personalità.
Le classificazioni ICD 10 e DSM III R (APA 1987) hanno invece il pregio della chiarezza e della comunicabilità, ma sono rozze per i
nostri scopi e andrebbero utilizzate solo in fase finale, per cosi dire tradotte ai fini di pubblicazioni.
Nell’obbiettivo di “pensare” la comunità, oltre che per capire meglio i nostri momenti di difficoltà, la supervisione diventa uno strumento importante. L’importanza della supervisione nasce dalla consapevolezza che nessuno è estraneo alle dinamiche del gruppo e alle forti emozioni che i pazienti (e spesso gli altri operatori) ci suscitano e ci trasmettono.
Credo che, se è importante che il supervisore sia esterno, dovrebbe d’altro canto essere una persona in contatto con il gruppo, piuttosto che una supervisione “individuale” e lontana, che potrebbe collocare una pane “pensante” fuori dalla comunità verso la quale l’atteggiamento non potrebbe che essere per lo meno ambivalente.
Che si affronti il problema col concetto di rete o con quello di campo (Correale, 1991) resta l’importanza della collocazione del paziente nel contesto terapeutico; questo contesto deve essere ben chiaro agli operatori che si prendono cura del paziente, in modo da agire in modo omogeneo tra le diverse agenzie. Abbiamo visto come la psicoterapia possa essere vista da prospettive diverse.
La psicoterapia, che fa parte degli strumenti terapeutici a disposizione, va in ogni caso inserita nel contesto di rete di cui si parlava e di percorso in cui si colloca il paziente. Vanno individuate le indicazioni caso per caso e le tecniche disponibili, anche nella possibilità di accogliere pazienti che possano svolgere un lavoro concentrato nel tempo.
Penso che il centro dell’attività terapeutica sia lo sviluppo di una capacità affettiva e di pensiero più adulta e autonoma, dalla quale le altre capacità e autonomie dipendono e che si sviluppa dalla relazione tra l’individuo e la comunità come gruppo complesso (pazienti, operatori, operatori e pazienti).
In questo senso tutti gli altri quesiti possono entrare in questa prospettiva: l’integrazione diventa un’area comune nella quale i diversi operatori “pensano” al paziente e ne ricavano degli atti terapeutici. Eventi anche recenti (perché frequenti) ci hanno segnalato con forza l’importanza di fare chiarezza sul nostro ruolo e sulla nostra funzione, proprio allo scopo di non diventare un “piccolo manicomio”.
Credo che alcuni punti importanti siano: 1) Noi siamo un’agenzia del processo terapeutico, al servizio di chi ha la responsabilità di questo progetto; 2) lavoriamo su un progetto globale, cui forniamo il nostro contributo in modo integrato, e non lavoriamo senza.
Probabilmente per poter fare questo (dato anche che il rischio è grosso) dovremo essere chiari nel proporre un nostro progetto per ogni paziente, che definisca e limiti il nostro impegno, in relazione al progetto del curante, in modo da poter pretendere il rispetto dei patti e una verifica del lavoro fatto. Progetto che naturalmente può venire cambiato strada facendo, ma che comunque mantenga fede ad un contratto definito. Di momento in momento le decisioni che verranno prese saranno regolate dal tentativo di migliorare la capacità dell’individuo di essere se stesso affettivamente, quindi di stare con gli altri e progressivamente di autonomizzarsi.
Alcune annotazioni riassuntive: l’attenzione al clima terapeutico nasce dalla consapevolezza che questo mondo di relazioni, desideri e impulsi è molto importante dal punto di vista terapeutico. Potremmo definirlo come la qualità delle relazioni all’interno della Comunità, e, sebbene difficile da individuare con chiarezza, potremmo concettualizzarlo usando il concetto di campo istituzionale di Correale, fatto di impulsi, fantasie, desideri e relazioni affettive in cui entra anche la struttura-contenitore che ne rappresenta degli aspetti.
In questo “campo” ogni individuo prende una posizione e sviluppa da questa posizione una serie di relazioni con gli altri partecipanti.
L’importanza della supervisione nasce dalla consapevolezza che nessuno è estraneo alle dinamiche del gruppo.

Mauro Selis, psicologo

Premessa storica: “La nostra coscienza della realtà e del sé abbisogna di una continua revisione cognitiva”.
Su questo assunto intendo basarmi proprio per “costruire” riflessioni che possano rappresentare un fondamentale substrato teorico al mio “agito” professionale.
L’assunto iniziale mi fa cogliere che:
1) l’Io è un processo dinamico che si crea e si ricrea, quindi l’uomo non è: mai inerte: “l’uomo − afferma Kelly − e una forma di movimento e ciò che si deve considerare è la direzione che tali movimenti assumono nel corso dell’esistenza”.
2) La realtà non è esterna a noi quanto piuttosto una nostra elaborazione, per cui la nostra conoscenza su tutto ciò che avviene è suscettibile di revisione sulla base della nostra capacita di costruire spiegazioni alternative. Da qui il principio di “uomo” come ricercatore ed elaboratore di informazioni.
3) Per quanto riguarda il cambiamento, concetto chiave per la nostra terapia comunitaria, è proprio la mancanza di costruzioni alternative che può spiegare il fatto che spesso una persona non riesca a cambiare, a ristrutturare teorie su sé e sul mondo che si sono rivelate fallimentari.

Il gruppo
Il mio intervento nell’ambito della comunità terapeutica è indirizzato maggiormente alla situazione gruppale.
Tutto ciò sia per motivi organizzativi del lavoro d’équipe, sia soprattutto per propensione naturale.
Pensare il gruppo come un tutto che è più della somma delle parti, mi fa investire maggiormente in tale direzione.
A livello applicativo c’è un passaggio (sempre per non perdere di vista un modello teorico di riferimento) da un’ottica “costruttivista” (in cui il focus è la mente che funziona per costrutti e si struttura in iter di costrutti) ad una più “costruzionistica” (in cui il focus ha più carattere interattivo e l’unità d’analisi è la connessione tra individuo e società).
Lo stare in gruppo costituisce un fenomeno sociale con cui è inevitabile, per ognuno, misurarsi. II gruppo è caratterizzato dall’emergere di un compito in comune e dallo strutturarsi di uno spirito di appartenenza significativo sia a livello cognitivo sia emotivo.
Considero le emozioni, in un’interazione gruppale, come fonte di segnali cognitivi e fonte dell’organizzazione della mente.
Il gruppo è, quindi, organizzatore e produttore di emozioni e di sentimenti come affettività e l’aggressività. È una situazione partecipativa che permane nel tempo e attraverso cui si cerca di realizzare degli scopi (terapeutici e riabilitativi in questo contesto) e in cui si mira al cambiamento. Nel gruppo (e non solo) si producono norme interne, si ristrutturano regole (che sono poi le organizzatrici del comportamento… in fondo, se ci riflettiamo, tutta la realtà è regolata!) ed anche ruoli. È, infatti, in atto un “gioco” tra individuo e gruppo all’interno del quale vengono assegnati dei ruoli.
Si sceglieranno, dalle caratteristiche dell’individuo, quelle più pertinenti per il funzionamento ottimale del gruppo (vedi l’esempio della nostra équipe ove ognuno e impiegato secondo le proprie attitudini e in maniera propositiva per il buon andamento della comunità).
Il ruolo e, dunque, una sorta di organizzatore di regole (per es. come porsi all’interno di quel gruppo, quali parti di se esplicitare etc…) che permettono il formarsi del gruppo.
In questo senso concordo con J. Bruner quando afferma che il Sé non è un fatto solo legato all’individuo, ma c’è anche un “Sé Disperso” che possiamo investire nei gruppi.
Questa è:, in sintesi, la filosofia di gruppo e di lavoro in gruppo.

Gruppo itinerante
Il gruppo itinerante è un “gruppo chiuso” a scadenza semestrale formato da sette pazienti più un leader od aggregatore che raccoglie i contributi degli altri e li converte in strategie d’azione. I momenti d’incontro e di congedo sono ritualizzati con un motto-domanda che è divenuto, con l’andare degli incontri, un momento fondamentale di saluto. Il leader chiede ad alta voce “chi e il più forte?” il gruppo risponde all’unisono: “noi!”. Questo per ricompattare la struttura del gruppo che ha cadenza settimanale e circa quattro ore di vicinanza spazio-temporale.
I concetti peculiari per tale attività, che non è solo a mero carattere ricreativo e si serve per gli spostamenti di un pulmino, sono quelli di Situazione, Episodio e Regola.
La Situazione, che ha come scenografia un luogo (scelto dal gruppo) spesso differente (da qui il nome itinerante), ha come correlato il concetto di contesto. Ciò e ovvio se consideriamo che non c’è comunicazione se non esiste contesto, ogni comunicazione può essere decodificata se la mettiamo nel suo testo, ossia il contesto situazionale. L’ingrediente base della situazione è l’hic et nunc e tutto ciò che c’è nel “qui ed ora”. I costruzionisti parlerebbero di “realtà incorniciata”, infatti non c’è situazione senza confini, i quali contribuiscono alla costruzione della situazione.
All’interno della situazione troviamo il concetto di Episodio, rappresentato da ciò che l’osservatore coglie prima, durante e dopo la situazione. L’episodio, nel nostro gruppo, è un concetto “narrate” ossia si esplicita verbalmente.
Essendo il gruppo formato da sette persone possiamo avere sette versioni diverse su un solo accadimento, praticamente ognuno racconterà il “suo” episodio in una situazione unica per tutti. Rimanendo invariata la situazione cambiano gli apparati cognitivi, i punti d’osservazione, le valenze affettivo-emozionali e la pregnanza significativa.
Il leader, per dare un ordine alla realtà del gruppo, deve analizzare gli episodi che sono un importante costrutto interattivo tra osservatore e realtà. Sempre all’interno della situazione troviamo il concetto di Regola.
In tutte le situazioni gruppali troviamo regole che sono poi le organizzatrici del comportamento degli individui. Compito dell’aggregatore è quello di indicare regole (o “consegne”) su cui basarsi per aiutare il paziente (membro del gruppo) a mutare quegli atteggiamenti di natura cognitiva, affettiva ed emotiva che creano e hanno determinato un blocco inibitorio.
Cambiamento qui è inteso alla maniera di Bateson il quale parla di co-evoluzione quando A (l’operatore od organizzatore) produce dei cambiamenti che B (paziente del gruppo) sintetizza e seleziona nel proprio sistema, per cui per produrre cambiamenti bisogna cambiare: è un sistema, circolare.
Questo tipo di gruppo ha come fine sia la creazione di un contesto relazionale in cui i rapporti significativi abbiano un senso, sia 1’aumento della capacita di far fronte ad ogni evenienza che si manifesta al di fuori della vita comunitaria (questo anche per preparare un humus fecondo allorquando il paziente verrà dimesso).
Per fare ciò è necessario irrobustire e/o strutturare la valutazione soggettiva del livello di padronanza dei problemi o compiti o situazioni, ossia di quelle che Bandura chiamerebbe “aspettative di efficacia personale” le quali svolgono un’importante funzione autoregolativa dell’azione umana. L’acquisizione di capacità di prestazione non rappresenta solo l’allargamento del repertorio delle risorse comportamentali inizialmente ristretto, ma diviene soprattutto il “tram-
polino di lancio” per successive nuove acquisizioni.
Generalmente, anche per i pazienti psichiatrici, i successi incrementano l’autovalutazione mentre i ripetuti insuccessi la deprezzano soprattutto se questi ultimi si manifestano nella fase di acquisizione delle abilità e non possono essere attribuiti ad eventi controllabili o a motivi transitori come, per esempio, un insufficiente impegno.
Sarà compito del leader, ovviamente, sia gestire efficacemente il gruppo anche sul versante emotivo-affettivo in modo da massimizzare lo scambio reciproco tra i membri e motivare alla partecipazione, sia modulare l’intervento secondo le possibilità di prestazione dei singoli (vedi concetto di stimolazione ottimale di Wing).

Attività dei video
L’attività dei video si svolge, a gruppo aperto, una volta alla settimana e consta di tre fasi ben distinte tra loro: breve presentazione del materiale, visione del video e discussione post-video.
Il conduttore, durante la presentazione del materiale, non deve emettere giudizi di valore (per non inficiare il comportamento e gradimento dell’ospite), ma deve usare un linguaggio neutro che anticipi sommariamente i contenuti, le tematiche e l’ambientazione del video.
La seconda fase, visione del video (film o concerto), corrisponde al momento “non verbale” del1’attivita. I pazienti assistono alla situazione filmica rispettando la consegna del silenzio perché “poi se ne può parlare”.
L’ultimo momento dell’attività è dedicato alla discussione su ciò che si è appena visto. Questa fase finale può essere svolta in due maniere differenti. La prima è di ottica gruppale, si approfondisce una tematica (o anche più tematiche) ed ogni partecipante (non interpellato dal conduttore che comunque “modera” la discussione) può esprimere il proprio punto di vista. La seconda è di tipo più individuale: il conduttore interpella ogni singolo paziente e lascia ad esso uno spazio personalissimo in cui può esprimere tutto quello che ritiene pertinente a ciò che ha appena terminato di vedere.
Questa duplice impostazione si pone, ovviamente, due obiettivi diversi. La prima situazione ha il carattere di una discussione di gruppo su argomentazioni comunque ristrette. Nella seconda, il conduttore diventa un tramite per far verbalizzare le emozioni e i pensieri suscitati dalle immagini e dai suoni, così da renderli espliciti e “disponibili” alla équipe degli operatori e in particolare al terapeuta di riferimento. Quest’ultimo obiettivo presuppone una maggiore
circolarità dell’informazione rispetto all’altro “obiettivo”.
Il concepimento e la realizzazione di quest’attività si basa su un principio ben noto della psicoterapia di gruppo: quello secondo cui il gruppo ha capacità terapeutiche perché il disadattamento che si propone di trattare è stato, a sua volta, determinato da un gruppo. Il lavoro con stimoli visivi e sonori rende la persona uno strumento risonante, sensibile alle sue vibrazioni. Lo spettatore mediante lo stimolo filmico, mezzo suggestivo per raggiungere e condizionare i più profondi strati dell’animo umano, interagisce con esso e compie una
ristrutturazione del proprio campo cognitivo attraverso una percezione, comprensione e rielaborazione di una serie di dati che il video offre: gradimento, argomento, partecipazione emotiva, grado di coinvolgimento, analogie con esperienze vissute realmente etc… Il paziente, assistendo al video, costruisce una realtà complessa e crea costrutti nella propria mente attraverso l’attivazione di dinamiche preconsce ed inconsce che investono meccanismi di proiezione, identificazione ed imitazione. In altre parole, il vissuto percettivo-emozionale indotto dallo stimolo filmico reifica nello spettatore le problematiche profonde. Si trova cosi a contatto con figure ed eventi che acquisiscono per lui una realtà psichica ed emozionale di primaria importanza.
Tutto questo attraverso una elaborazione proiettiva del Sé in un personaggio o in una vicenda. Il materiale audio-visivo ha, quindi, la proprietà di creare una rete di strutturazione/ristrutturazione del campo cognitivo del paziente che spesso dovrà far fronte a schemi imprevisti in momenti e contesti dovuti a circostanze fortuite.
Le parole, le immagini e i suoni dello stimolo filmico introducono, usando concetti cari a J. Bruner, all’antinomia autonomia/dipendenza che racchiude sia i modi con cui l’individuo vive e sa evolvere.
La propria indipendenza dagli altri, dalle cose e dagli avvenimenti, sia il “dramma interiore”, cioè la capacita di far coesistere i numerosi tratti distintivi della propria personalità, spesso in conflitto tra loro. Tutto questo finalizzato ad una corretta rappresentazione dei concetti nella mente del paziente.
Per quanto sopra esposto, il materiale filmico può quindi essere considerato e analizzato sotto tre dimensioni: strutturale (come è fatto), semantico (cosa dice) e simbolico (che senso ha per chi ne fruisce).
Si verifica così una sorta di razionalizzazione cognitiva rappresentabile con uno schema tripartito di interazione: tematizzazione, operazioni ed elementi costitutivi dell’evento filmico.
Entrando nel particolare i fattori interagenti sono:
TEMATIZZAZIONE: 1) parole
2) immagini
3) suoni
4) ambiente
OPERAZIONI: 1) Percezione
1,1 l’esplorazione
1,2 discriminazione
1,3 riconoscimento
1,4 confronto
1,5 seriazione
1,6 classificazione
2) Comprensione
2,1 analisi
2,2 interpretazione
2,3 valutazione
2,4 fruizione estetica
3) Rielaborazione
3,1 verbale
3,2 motoria
3,3 grafica
4) Meccanismi Cognitivi
4,1 proiezione
4,2 identificazione
4,3 imitazione

Elementi costitutivi dell’evento filmico: 1) fonte 2) contesto 3) funzioni 4) struttura 5) forma 6) trama 7) andamento 8) intensità emotiva 9) grado di coinvolgimento 10) durata 11) interazione visiva 12) interazione motoria 13) interazione verbale.

Attività di ginnastica
L’attività di ginnastica è svolta all’interno della comunità con cadenza settimanale per una durata di circa trenta minuti. Essa fa parte di un quadro più ampio di attività socio-riabilitative e si propone di
riattivare nei pazienti sia il gusto del movimento fisico (inequivocabile sinonimo di benessere), sia il desiderio di un momento ludico
semistrutturato. L’attività, a livello pratico, è divisibile in 3 fasi salienti: apertura, lavoro ginnico e congedo.
L’apertura è dedicata alla strutturazione/formazione del gruppo (che è “aperto”) con il motto di benvenuto “mens sana in corpore sano” che tutti i fruitori recitano ad alta voce. Poi inizia i1 lavoro ginnico vero e proprio con vari esercizi: corpo libero, coordinamento motorio, piegamenti, respirazione, allungamento e rilassamento muscolare. Nell’effettuare alcuni di tali esercizi il conduttore invita il gruppo ad esternare, ad alta voce, il numero progressivo della serie. Si è notato che la verbalizzazione è più intensa mano a mano che ci si avvicina alla conclusione dell’esercizio, nell’ultima “ripetuta”
avviene una sorta di urlo liberatorio che sembra un mezzo per espellere tossine psico-fisiche. Il congedo avviene con il medesimo motto d’apertura e il rinnovo
dell’appuntamento alla settimana successiva.
Con quest’attività, che ha come fine quello di recuperare e/o sviluppare alcune capacità fisico-motorie, si cerca di trattare attivamente la sottostimolazione, evitando peraltro la iperstimolazione particolarmente densa di rischi, in pazienti che spesso presentano scarse capacità di tolleranza ad ogni tipo di stress.
Anche in questo contesto e, pertanto, valido il concetto di “stimolazione ottimale”.

Psicoterapia individuale
I1 postulato base del mio “lavoro” individuale sui pazienti è che le nostre cognizioni determinano in modo particolare il nostro comportamento. La psicoterapia, quindi, come costruzione dinamica di alternative.
Per cui è necessario tener conto non solo della conoscenza che una persona può avere di sé e del mondo, ma anche della sua “ignoranza”; delle possibili visioni alternative e di insospettati nuovi aspetti della realtà.
È proprio la mancanza di costruzioni alternative che può spiegare il fatto che spesso un paziente non riesca a cambiare, a ristrutturare teorie su sé e sulla realtà circostante che si sono rivelate un fallimento. Ciò configura una situazione di “impasse” nel sistema di costrutti del paziente, il quale continua a testare e ritestare la stessa conoscenza di se stesso e del suo mondo interpersonale senza poter accettare le implicazioni dei nuovi dati che gli vengono forniti. In questa maniera il disturbo e la patologia divengono quelle parti della costruzione di sé che il paziente conosce meglio, le uniche che diano un senso al suo modo di mettersi in relazione con gli altri, quelle che canalizzano i1 suo comportamento, i suoi pensieri, le sue immagini, le sue fantasie e i suoi deliri.
Le visioni alternative di sé sono “…sentieri poco battuti, percorsi che non si sa bene dove conducano, finestre su mondi sconosciuti” (George A. Kelly).
In questo quadro è comunque necessario anche esaminare gli antecedenti evolutivi e gli eventi essenziali della vita del paziente (anamnesi clinica, diagnosi d’ingresso), ma l’esame del passato acquista valore unicamente in quanto permette di far luce sul presente, sullo hic et nunc. In questa ottica anche i colloqui con i familiari possono risultare molto importanti perché permettono di comprendere meglio gli schemi cognitivi del soggetto in terapia.
In sintesi, la strategia psicoterapeutica iniziale si svolge attraverso quattro tappe fondamentali:
1) instaurare con il paziente un rapporto di fiducia e stima reciproca, con particolare attenzione alla sfera dell’affettività;
2) aiutare il paziente a diventare il più consapevole possibile delle sue cognizioni;
3) comunicargli che la percezione della realtà non è la stessa per tutti gli individui e che i processi psicologici e fisiologici possono alterare la percezione e la comprensione del reale;
4) valutare il grado di logicità, adeguatezza e adattività delle cognizioni del paziente e riconoscere quali pensieri scorretti modificare (alcune cognizioni, seppur scorrette, non si devono modificare se hanno per il paziente una funzione adattiva).
Si dice spesso che i pazienti psicotici pensino troppo e in maniera errata: ciò è sbagliato o quanto meno mal calibrato. Invece mi sembra vero che lo psicotico abbia molta paura di pensare ed elaborare cognizioni; queste persone hanno paura dei pensieri ed hanno molta difficoltà ad esprimerli; credo che per questi pazienti il fatto di pensare sia un atto di autonomia per eccellenza che ai loro occhi è avvertito come proibito… questi pazienti ci causano difficoltà a pensare (e un riflesso), attraversiamo dei momenti di vuoto e siamo colpiti, come i pazienti psicotici, dalla difficoltà di pensare (P.C. Racamier). In tali casi, oltre a comunicare questo disagio al gruppo d’équipe, non bisogna interpretare per forza ma bensì ipotizzare, chiedersi il perché ed elaborare congetture.
Ciò, afferma Popper, è “la base di partenza per esporci, per iniziare a lavorare… tutto questo serve allo psicoterapeuta per strutturare il campo di interazione (setting)”. Il setting dovrebbe fornire norme chiare, non ambigue per alimentare esperienze di vita correttive.
Credo, quindi, in una psicoterapia interattiva come modus di coevoluzione con il paziente. Ciò ha l’obiettivo sia di rinforzare sia di sensibilizzare competenze e risorse mantenendo disponibili il più ampio campo di abilità e possibilità latenti.
Un fine importante anche del processo psicoterapico consiste, pertanto, nell’acquisizione da parte del paziente di strategie ed abilità per fronteggiare le diverse situazioni sociali, esercitando su esse un controllo attivo ed efficace. Acquisire e/o affinare abilità sociali fornisce un valido contributo alla soluzione di problemi rilevanti come la realizzazione di modelli di relazione soddisfacenti ed adeguati con l’esterno (altri, ambienti) e come i1 raggiungimento di obiettivi sia affettivi sia strutturali.
Questo implica la necessità di caratterizzare qualunque progetto anche in termini di abilità sociali di base, intese come prerequisiti per l’acquisizione di ulteriori abilità sociali evolute, magari legate (in alcuni casi) al ruolo che il soggetto andrà ad occupare nella situazione lavorativa protetta o non. È fondamentale elaborare modelli di trattamento (social skills training) con i quali si cerchi di sviluppare/rimodellare le abilità sociali del paziente “…a cominciare da quelle più gravemente menomate e da quelle prioritarie per una graduale crescita dell’autonomia del paziente stesso” (Ardigò De Girolamo).
Riabilitazione, dunque, come raggiungimento dell’autonomia del soggetto e la sua reintegrazione sociale. Ci deve essere, quindi, una processualità del progetto che conduca il paziente, dopo lo sradicamento operato dalla condizione di disagio psichico, ad un reinserimento nel tessuto sociale. Porre la riabilitazione come elemento processuale implica, quindi, 1’esistenza di passaggi intermedi, graduati sui bisogni, le capacità e le predisposizioni cognitive di ogni singolo paziente (vedi per es. le nozioni ciompiane di asse-case e asse-lavoro). In questo ambito si colloca il momento della psicoterapia individuale, ossia strumento di un progetto d’intervento a più ampio spettro, intimamente collegato ad altri campi d’azione. Questo perché bisogna ricordare che la psicoterapia è sempre qualcosa di imperfetto, incompiuto e gli errori sono inevitabili.
Pertanto non è azzardato affermare che la miglior psicoterapia sia quella in cui si commette il minor numero di errori. Gli errori, come ricorda De Leo, devono rappresentare il punto di partenza per il miglioramento e per la verifica ed il controllo ricorsivo dei risultati.
Tutto ciò deve entrare strutturalmente e continuamente nel lavoro psicoterapeutico.
Un altro momento essenziale è rappresentato dalla supervisione al lavoro svolto che, in linea di massima, dovrebbe avere la stessa matrice teorica dell’ “agito”, ciò per non creare una spaccatura tra modello di riferimento e prassi.
Supervisione intesa come suggerimento di nuove “soluzioni architettoniche” del caso clinico e di continue sperimentazioni del feedback. Tutto ciò perché, come afferma Neisser, “le cose che non vediamo, sono le idee che non abbiamo mai avuto” e un intervento estremo può allargare e meglio strutturare il campo d’azione.

Daniela Zinola, pedagogista

La mia esperienza lavorativa alla Redancia è per ora cosi breve che trovo serie difficoltà a scrivere una relazione intesa come “un rapporto sulle attività svolte nella comunità terapeutica”. Preferisco cercare di esporre in primo luogo quelle che sono le mie sensazioni rispetto al clima terapeutico della vita comunitaria e questo anche perché il mio ruolo, nel senso di funzione, all’interno della comunità, si sviluppa in attività riabilitative e ricreative di gruppo. Come tirocinante di una vera e propria attività riabilitativa, quale la psicomotricità, e conduttrice di un’attività ricreativa, ho potuto rilevare come questi due diversi momenti della vita comunitaria abbiano la medesima importanza, visti nell’ottica del clima terapeutico della struttura, perché entrambi si prefiggono dei fini terapeutici, primo dei quali uno scopo socializzante (ci si vede per fare delle cose insieme).
L’attività riabilitativa ha naturalmente una funzione maggiormente definita nella cura del paziente psicotico; esige da parte del conduttore una preparazione approfondita, un programma di lavoro preciso ed orientato verso un obiettivo. Obiettivo che, per i pazienti, consiste nel raggiungere una maggiore consapevolezza del proprio corpo e delle sensazioni ed emozioni che si vivono attraverso questo, e per il terapeuta nel riconoscere le difficoltà somatiche e dunque psicologiche dei pazienti, sia da un punto di vista individuale sia sociale (per sociale intendo il modo del paziente di vivere nel gruppo, il suo rapporto con questo).
L’aspetto più interessante dell’attività è che le difficoltà possono essere rilevate mediante dei momenti ludici, giocosi, momenti in cui le interazioni con gli oggetti e con i compagni assumono un significato profondo in relazione all’obiettivo che l’attività si prefigge. Per giungere dunque a dei risultati concreti (l’attività) esige dei tempi lunghi, un gruppo chiuso e una cadenza precisa delle sedute.
L’attività ricreativa può permettersi meno rigidità in questo senso;
il gruppo è aperto, l’obiettivo è a breve termine e consiste nello stare insieme per costruire, preparare, confezionare, organizzare delle “cose”, decise durante l’assemblea dei pazienti, il sabato mattina (si cuce, si ricama, si colora, si cucina, si fanno acquisti). Il programma non è rigido, può essere modificato in base a necessità che si presentano prioritarie: ad es. ora abbiamo sospeso il lavoro di cucito per preparare insieme gli addobbi natalizi. L’attività ricreativa, in apparenza semplice, è in realtà compressa per le difficoltà di coordinare, per quanto possibile, il lavoro di persone così particolari, cercando di rispettare i loro tempi senza forzarli, di ridimensionare le loro idee tanto grandiose quanto irrealizzabili, senza lasciarsi “spiazzare” ed arrendersi alla depressione che ogni tanto li prende per mano. Al di là di questo discorso un po’ personale, in cui le difficoltà sono soprattutto dovute al1’inesperienza, la ricreazione diventa riabilitazione quando, ad esempio, si organizza una festa, per cui uno dei pazienti si occupa della raccolta dei soldi, l’altro dell’acquisto dei prodotti, altri della preparazione dei dolci, e chi non ha mai pasticciato con zucchero, uova e farina può farlo dopo aver superato le solite resistenze, verbalizzate dalla famosa e ricorrente frase “Ma io non sono capace!”, frequente in ogni tipo di attività.
Riassumendo: riabilitazione e ricreazione assumono la medesima importanza, se inseriti in un clima terapeutico che si pone primariamente un fine socializzante e secondariamente una scoperta riscoperta delle capacità individuali dei paziente. Ed e proprio per perseguire il secondo obiettivo che le attività, a mio avviso, dovrebbero essere maggiormente coordinate tra di loro, attraverso un confronto dei comportamento, delle difficoltà dei singoli pazienti, rilevate dai terapeuti che si occupano di lavori diversi, ma orientati verso una meta comune.
Io credo che il lavoro di gruppo consista in questo raffronto, esaminato dallo psichiatra o psicologo che, in quanto referente del singolo paziente ed esperto, possiede degli elementi di conoscenza che gli altri non detengono, perché acquisiti mediante la psicoterapia individuale, e che possono essere utilizzati come strumenti di lavoro, da tecnici e non tecnici. Mi pare comunque che questo tipo di lavoro si attui durante la riunione di supervisione, che però personalmente ritengo, per quanto chiarificatrice di situazioni delicate e intricate, non sufficientemente orientativa per poter svolgere un lavoro comune che risulti coerente, evitando di dare messaggi contraddittori ai pazienti.

Anna Diroccia, psicologa

La serie di considerazioni che seguiranno nascono da una riflessione sul lavoro di psicologo in una Comunità per malati psichiatrici. Quindi mi sembra opportuno partire dalla riflessione su che cosa sia una Comunità: in generale è un luogo dove vivono un certo numero di persone, psicotici e borderline, per i quali ci si pone come obiettivo la riabilitazione. La struttura della Comunità, sia in senso architettonico sia di gestione del lavoro, e in funzione di questo obiettivo. Quindi lo scopo è la riabilitazione, il mezzo è la terapia di Comunità. In questo senso la Comunità non è un luogo dove si fanno attività terapeutiche ma è la vita di Comunità stessa la terapia. La Comunità si configura come un sistema microsociale entro il quale devono avvenire dei cambiamenti individuali attraverso un costante movimento di rottura-riequilibrio del sistema intero e, di conseguenza, individuale. In questa ottica non si può parlare di un “dentro” contrapposto ad un “fuori”, ma piuttosto di un ambiente maggiormente protetto. La Comunità diventa uno spazio di transizione in cui si possono vivere, in modo graduale, esperienze di autonomia. Le esperienze vengono vagliate, vissute attraverso una riflessione di gruppo o individuale.
Quando si parla di ambiente protetto si intendono, secondo me, almeno tre aspetti: 1) l’aspetto normativo, “paterno”, di chi da delle regole che salvaguardano chi le rispetta (oltre che la vita di comunità stessa); 2) l’aspetto di accettazione, “materno” che offre un argine alla distruttività con una costante disponibilità all’accoglienza; 3) la possibilità, data da tutta l’équipe, di sviluppare la capacità di “prendere la distanza” dal contingente, dall’esperienza concreta e immediata, relativizzandola e mediandola attraverso il pensiero
astratto, il linguaggio. La mediazione viene data dal pensiero e dal linguaggio come attività relazionali-simboliche che permettano di create uno spazio mentale che si colloca tra la realtà e il proprio mondo interno dando una forma, un nome al caos attraverso una rappresentazione del reale.
Ritorniamo ora al concetto di riabilitazione. In generale si potrebbe definire la riabilitazione come l’acquisizione di una serie di capacità a vivere le relazioni ed ad agire, cioè sociali ed interpersonali, basandosi sulle potenzialità della persona. Partendo da una definizione di Benedetti che “concepisce la schizofrenia come una forma di non-esistenza caratterizzata da disorganizzazione, disintegrazione e indifferenziazione dell’Io”, potremo dire che riabilitare significa fare riacquisire ad una persona una capacita di esistenza con un recupero delle proprie potenzialità relazionali ed emotive.
In questo processo è essenziale “essere con” il paziente in modo continuativo. Questa è la funzione di presenza. La funzione della presenza e fondamentale poiché senza l’altro lo psicotico non esiste.
Contemporaneamente questo legame di dipendenza lo spaventa poiché l’oggetto che vede e vive è potenzialmente divoratore. Quindi la presenza deve essere il meno terribile possibile senza per questo essere neutra. È necessario quindi un atteggiamento di giusta distanza. Il paziente deve essere accettato da tutta la Comunità ed ogni membro della comunità agisce la funzione di presenza differenziandosi secondo il proprio ruolo. Questa deve essere esplicata essendo rivolti ad un modello di crescita e di progressiva autonomizzazione.
In comunità oltre “all’essere con” si aggiunge la dimensione “dell’essere in”. Questo significa una costante valutazione del contesto ambientale e relazionale e un’attenzione alle dinamiche paziente-gruppo pazienti, paziente-gruppo operatori tecnici e non.
Quando si parla del percorso che un paziente fa all’interno della Comunità, è essenziale un attento bilancio tra bisogni/possibilità: nel senso che non si deve chiedere né troppo, né troppo poco rispetto a ciò che il paziente è in grado di dare. Alcuni pazienti sono abilissimi nel farsi ipo o iper valutare come se fossero combattuti tra un bisogno di esistenza e dinamismo e uno di staticità e di immobilismo psichico. In ogni caso la stimolazione deve sempre essere funzione di un bisogno comunicato in maniera più o meno esplicita ed
è solo attraverso la relazione che e possibile valutare il grado di stimolazione ottimale.
In base alla stimolazione si creano delle aspettative sul paziente. Questo mi sembra un punto molto importante perché se queste sono nulle, cioè se nessuno crede in un miglioramento, senz’altro il paziente si adeguerà. Non è solo il paziente che si muove verso un obiettivo ma e tutta l’équipe che si muove con lui: capita spesso che un membro dell’équipe si sostituisca al paziente nel fare qualcosa. Questo è terapeutico solo se la sostituzione è definita al paziente come provvisoria.
Un altro punto cruciale del processo riabilitativo che si accompagna
alla funzione di presenza è rappresentato dal fatto che ogni esperienza è condivisa, cioè il paziente non è mai lasciato solo. La condivisione non consiste nel fare le stesse cose, ma in un clima emotivo dove 1’interesse per la persona è manifestato soprattutto nella capacità di preoccuparsi del gruppo e dalla continuità con cui viene esplicata questa capacità. Solo in questo clima la stimolazione può essere vissuta dal paziente come non traumatica e gli insuccessi possono essere tollerati. Nella nostra esperienza la riabilitazione viene esplicata attraverso un lavoro di gruppo. A questo proposito tutto il gruppo si fa carico di un paziente anche se un membro dell’équipe può assumere un ruolo privilegiato con un determinato paziente.
Ogni figura professionale accetta innanzitutto di essere uno strumento del gruppo. Ciò, se per un verso può essere rassicurante perché non si è mai soli ad affrontare un problema, per un altro può essere molto frustrante della propria onnipotenza narcisistica (“posso fare tutto da solo”) e angosciante per la sensazione che si può avere di non riuscire mai ad affermarsi individualmente se non nel gruppo.
Gli operatori in Comunità lavorano sempre in uno stato di crisi intesa come separazione, scelta, rottura della continuità. Stare in Comunità in un gruppo in cui gli spazi individuali sono molto ridotti, fa emergere le proprie difficoltà ad instaurare relazioni costruttive. La reazione è spesso di fuga. Quello che tiene insieme gli operatori è la compattezza del gruppo che, attraverso una comunicazione circolare e chiara, rimanda a se stesso una possibilità di esserci sia come gruppo, sia come singolo operatore.
Questo stesso vissuto viene rimandato al gruppo dei pazienti ed è proprio questo il nucleo terapeutico della Comunità.

Sulla psicoterapia
In una Comunità dove ci si basa soprattutto su un lavoro di gruppo potrebbe sembrare un contro senso proporre una psicoterapia individuale. In realtà emerge che il contesto e alquanto appropriato. Già Freud affermava che raramente la psicologia individuale può prescindere dalle relazioni del singolo con gli altri e che, quindi, essa è fin dall’inizio psicologia sociale. Avere la possibilità di intraprendere una relazione duale con un operatore di riferimento, in un setting ben preciso, permette di costruire una relazione significativa volta al cambiamento.
“La psicologia del Sé considera la patologia schizofrenica non come espressione psicobiologica di una patologia individuale ma come una patologia psicologica della relazione” (Oberti).
È nella relazione, quindi, che si può cercare di ricostruire.
Questo significa anche porsi di fronte all’altro con il proprio bagaglio esperienziale umano. In questo non ci sarebbe niente di intrinsecamente terapeutico se non ci fosse una meta, un obiettivo da raggiungere e la capacità di riflettere su quello che sta o non sta succedendo. Io non penso che si possa affermare di lavorare con l’obiettivo della guarigione: sarebbe un’illusione e, soprattutto, bisognerebbe sapere quale è la linea di demarcazione che separa la normalità (a condizione che esista) dalla patologia.
L’obiettivo generale dovrebbe essere quello di raggiungere un assetto della personalità che renda possibile una vita che tolleri il più possibile gli squilibri, le angosce, la paura.
Con molta esperienza, forse, si potrebbe riuscire a capire dall’inizio fin dove si può lavorare rispetto al tipo di patologia, all’anamnesi, alle risorse ambientali. In realtà ogni volta che ci si relaziona con una persona il quadro cambia. Di conseguenza, l’obiettivo verso cui si lavora si crea nella relazione in modo dinamico: il processo terapeutico si disegna a 2 mani. Quindi il processo terapeutico ha connotazioni uniche per ogni persona e, ogni volta, occorre interpretare parti di sé diverse.
Concordo con quello che dice Benedetti sui processi di identificazione empatica: “Nei processi normali di identificazione empatica con 1’altro, noi ci immettiamo nell’altrui per comprenderlo, scoprendo o supponendo frammenti, segmenti di noi stessi nell’altro, i quali ci permettono di sentirli simili a noi”. In questo processo non si deve mai perdere la propria identità che e quella di terapeuta altrimenti si rischia di essere attori passivi che accettano ruoli dettati da altri rinforzando un modello di relazione patologica.
A questa concezione generale sulla psicoterapia volevo aggiungere alcune considerazioni sull’esperienza della psicoterapia in Comunità. Sono esempi che mettono in luce alcune difficoltà e peculiarità riscontrate “sul campo” che mi hanno fatto riflettere sull’importanza di considerare il contesto in cui si lavora.
1) Molti pazienti hanno due operatori di riferimento. Si crea quella che Racamier definisce “situazione bifocale”. Per un verso questo nasce dalla necessità che venga somministrata anche una terapia farmacologica e questa funzione può essere svolta solo da un medico e, comunque, solo all’interno di una relazione (quindi oltre ad uno psicologo deve esserci anche un medico). Questa situazione offre alcune opportunità tra cui quella di poter lavorare a due livelli in modo approfondito. Racamier e Carratrie affermano che “uno dei terapeuti lavora nel fantasmatico e l’altro nel reale”. Questo non è, pero, un modo di lavorare sempre valido: deve essere modulato secondo le necessità dei pazienti. Talvolta osservare come il paziente si muove su queste due figure consente una valutazione particolare delle sue modalità di relazione, dei suoi bisogni, delle sue paure e delle sue difese. Da questa valutazione si può decidere insieme (cioè medico-psicologo) come procedere.
2) In Comunità si condividono altri spazi oltre a quello dei colloqui. Questo permette un maggior numero di momenti di contatto e di condivisione. Talvolta ci si sente sommersi dalle richieste di questi pazienti che chiedono in modo avido e tentano di manipolare ogni momento, ogni emozione della persona che sta loro vicino. Emerge un problema di negoziazione della distanza che va affrontato e che, in questo particolare contesto, richiede un controllo ed una ben precisa consapevolezza da parte del terapeuta. Condividere gli spazi significa stare in/con il paziente nella Comunità e fare insieme, rinforzando le parti dell’Io più sane, senza dimenticare, però, quelle sofferenti.
3) Spesso i pazienti parlano, nei colloqui, di altri ospiti, ovviamente conosciuti anche dal terapeuta, chiedendo consigli su come comportarsi o, addirittura, giudizi di valore. Ovviamente non bisogna cadere in questa trappola che il paziente utilizza per evitare di parlare di Sé. Spesso però ci si trova davanti a pazienti che parlano di altri per una sorta di “rimbalzo”, nel senso che determinate angosce vengono riconosciute solo con determinate persone, talvolta per un effetto di rispecchiamento dei propri problemi. Altre volte sono vere e proprie richieste di aiuto perché non si riesce a gestire un rapporto all’interno della Comunità. Ci sono momenti in cui il paziente non ce la fa a parlare direttamente dei propri problemi e bisogna consentirgli di farlo attraverso quelli degli altri per riuscire ad ammetterli solo successivamente come propri. In questo movimento l’equilibrio può essere precario: le proiezioni paranoiche possono raggiungere momenti di tensione in cui il passaggio all’acting violento può avvenire da un momento all’altro e nei confronti di qualsiasi membro della Comunità. Infine la richiesta di parlare di altri e anche un modo di provare a vedere “da che parte sta” il terapeuta, cercando una conferma dell’esistenza, nella realtà esterna, di fazioni, parti contrapposte (il buono, il cattivo), rinforzando questa modalità di rapportarsi al reale, alle persone. Come muoversi in una situazione del genere dipende dall’obiettivo che il terapeuta pensa di raggiungere con quel paziente ma, ancor di più, dalla valutazione delle possibilità del paziente in quel particolare momento del suo percorso terapeutico.
4) Spesso nei colloqui vengono riportate sensazioni, emozioni o, addirittura, produzioni di altre attività terapeutiche svolte all’interno della Comunità. Anche qui l’attenzione deve essere rivolta al tentativo che fa il paziente di creare un rapporto esclusivo, simbiotico (“solo tu, mio terapeuta, sei così bravo da poter capire quello che faccio”), che vanifica quindi il lavoro di Comunità. In questo senso occorre rinviare queste riflessioni agli operatori che si occupano direttamente delle attività in questione. Questa richiesta pero può essere anche un tentativo di ricercare un quadro integrato di sé, mettendo insieme tutte le diverse esperienze o, meglio, tutte le diverse parti di sé messe in gioco. In questo senso il paziente può usare il momento del colloquio per tentare una riflessione su di sé, cercando di unificare le proprie esperienze in una rappresentazione coerente.
Il terapeuta può essere d’aiuto, in questo compito, solo se la comunicazione tra gli operatori avviene in modo costante e chiaro. Solo in questo caso al paziente è consentita una integrazione dei vari aspetti di Sé, cioè solo se l’équipe intera ha una visione integrata e unitaria del paziente in questione. Da questi pochi esempi si evidenzia che occorre riflettere attentamente sul contesto in cui si esplica il rapporto psicoterapeutico.
Ogni episodio deve essere letto nell’ottica della relazione a due e della relazione con il contesto più allargato, tenendo presente tutte le interazioni con il gruppo curante e non. È importante confrontarsi molto con tutti gli operatori tecnici e non, per non lavorare in un modo scisso e frantumato che consentirebbe al paziente la possibilità di agire la propria patologia mantenendo statico il proprio sistema relazionale. Gli esempi citati dimostrano come spesso il paziente cerchi di disgregare il gruppo minando l’essenza della terapia di Comunità. In Comunità anche la terapia più sofisticata ed intelligente non ha possibilità di esito se non è concertata e supportata dal gruppo.

Pierfabrizio Cerro, psichiatra

In una struttura di tipo comunitario ci si trova, indipendentemente dal ruolo esercitato e dal modello a cui ci si ispira, ad essere immersi in un clima in cui le dinamiche di gruppo hanno un peso fondamentale. Direi che in questo caso la parola “dinamica“ assume proprio il significato originario di forza, energia, nel senso che a volte si ha la sensazione di essere immersi in un vortice, determinato da un campo di forze, da cui il nostro pensiero razionale rischia di rimanere totalmente offuscato e reso impotente a capire.
Vorrei in questo ambito riflettere su come il fatto stesso di stare in un gruppo, possa diventare portatore di valenze terapeutiche, a condizione che si ponga il più possibile attenzione alle variabili che di volta in volta entrano in gioco, non nel senso di inserirle in schemi precostituiti al fine di bloccare il cambiamento, ma nel senso di saperle “giocare” nella relazione all’interno del gruppo nella maniera più autentica possibile, nel senso heideggeriano dell’ “esserci”. In un
gruppo come il nostro, che ammonta a 20-25 pazienti e a 14 operatori tra medici, psicologi, infermieri, tecnici della riabilitazione, personale ausiliario, si ripropongono, come in un microcosmo, le stesse dinamiche (tensioni, frustrazioni, desideri, rivalità, invidie) presenti
nella società allargata. Queste dinamiche emergono soprattutto in un secondo tempo rispetto all’ingresso del paziente nella struttura, in quanto solitamente al primo impatto la Comunità, confrontata con l’Ospedale da cui i1 paziente proviene, o con l’ambiente familiare spesso teatro di conflitti e fonte di intense angosce, e vissuta come qualcosa di “tranquillizzante”, seppur investita in modo ambivalente di grosse cariche emotive (idealizzanti e persecutorie, oggetto buono che salva e oggetto minaccioso che perseguita). In un secondo momento, però, quando il paziente è maggiormente dentro al gruppo, emergono inevitabilmente gli aspetti conflittuali, spesso fonti di grandi angosce, con cui il paziente si mette a contatto con il mondo. La Comunità allora diventa come uno spaccato, o meglio “una rappresentazione pittorica di elementi che permeano di sé il modo di stare nel mondo dell’individuo. Il problema è allora: come muoversi in questo mare di emozioni, spesso contraddittorie, incomprensibili, angoscianti, esaltanti e terribili ad un tempo, sapendosi dimenticare le boe di salvataggio (la teoria, il supervisore, etc.) e senza tuttavia esserne travolti? Anzi, non solo senza esserne travolti, ma possibilmente sapendo trasformare questo magma stupendo e terribile, che è poi il riflesso del magma di cui e impastata la nostra mente, in qualcosa dotato di un senso “terapeutico” nel senso del “prendersi cura”, del preoccuparsi insieme.
In un contesto come quello a cui mi riferisco, tuttavia, tutto diventa allargato e arricchito di nuovi elementi che sono quelli intrinseci al gruppo stesso.
Il gruppo è fatto di persone. Ognuno porta la sua storia, la sua personalità, i suoi tratti caratteriali, i suoi desideri, le sue paure. Ognuno ha aderito più o meno coscientemente ad un progetto terapeutico che prevede un periodo di permanenza in Comunità; ma questo è solo l’aspetto razionale, che svolge un ruolo di scarso peso nelle dinamiche in atto; in realtà ognuno proietta poi nella
Comunità e nel gruppo le sue delusioni, le sue frustrazioni, le sue angosce persecutorie, le sue aspettative magiche. Tutto ciò contribuisce a formare il clima affettivo del gruppo, clima che potrà diventare “terapeutico”, capace cioè di promuovere un cambiamento, nella misura in cui ognuno degli operatori sappia giocare le proprie emozioni sul terreno della relazione senza troppa paura del coinvolgimento e delle sofferenze che esso comporta, pur riuscendo a pensare sulle emozioni, non nel senso di sostituire il pensiero all’azione, ma nel restituire all’agito, anche a quello aggressivo o distruttivo, la possibilità di essere accolto e pensato. È mio parere che in questo gioco si realizzi il nucleo potenzialmente terapeutico della Comunità, là dove ci sia una sempre maggior padronanza da parte di tutti gli operatori del proprio strumento emotivo, che permetta di chiedersi continuamente che cosa sta succedendo, non solo tra paziente e terapeuta, ma nelle varie relazioni che si possono instaurare all’interno della Comunità.
Si realizza così un gioco di specchi dove le contraddizioni, espressione dell’individualità dei singoli operatori e pazienti, vengono continuamente rilanciate e riproposte spesso in modo drammatico, e la capacità del gruppo si misura proprio nella possibilità di gestirle, non in modo assemblearistico, ma riportandole sempre alla relazione ed al tentativo costante di pensare insieme le emozioni che in essa si sprigionano.
A poco a poco così la scena si anima sempre più di persone, e non più di personaggi prigionieri dei loro ruoli, persone che possono avvicinarsi e allontanarsi, andare avanti e fuggire, ma che in qualche modo si muovono alla ricerca della propria autenticità. Credo che poche esperienze come la terapia delle psicosi costringano a uno sforzo continuo di autenticità, per attraversare l’esperienza dell’inautenticità, dell’assurdità che il paziente ci pone impietosamente di fronte.
Vorrei concludere con le parole di L. D’Alfonso, che invitata a rispondere alla domanda “che cosa è per lei la psicosi?” terminava il suo intervento con le seguenti parole: “…in un mondo dove tutti siano dei personaggi più o meno riusciti, sicuri solo dietro la maschera dei ruoli, sento l’incontro col male di vivere, di chi si gioca la vita per tentare il prodigio che schiude la divina indifferenza come un quotidiano richiamo all’esercizio dell’autenticità”.

La psicoterapia all’interno della comunità terapeutica
Prima di addentrarmi nel tentativo di definire alcuni problemi che incontra la psicoterapia all’interno della Comunità, vorrei fare una premessa di ordine generale che riguarda il rapporto tra il lavoro terapeutico in ambito istituzionale, come è pur sempre l’ambito della Comunità Terapeutica, e la pratica psicoterapeutica in ambito privato.
Secondo me, un esame dei fattori terapeutici nel lavoro psichiatrico ha come sua premessa di non identificare in modo semplicistico ciò che uno psichiatra è chiamato a fare nella pratica quotidiana, anche in un ambito in cui la dimensione psicoterapica è tenuta in grande considerazione, con le pratiche psicoterapeutiche che si sono venute sviluppando negli ultimi ottanta anni, che si ispirano al trattamento psicoanalitico. Credo che il compito fondamentale nel quale sono impegnati numerosi medici e operatori sia quello di dare una fisionomia psicoterapeutica, una dimensione relazionale, all’atto psichiatrico.
Credo che questo compito sia tutt’altro che acquisito e d’altra
parte basta pensare che solo una trentina d’anni fa le esperienze degli psichiatri che potevano dirsi psicoterapeutiche erano piuttosto isolate.
I modelli analitici non sono né facilmente trasferibili fuori dal contesto che li giustifica, né sono tanto facilmente applicabili dall’esterno.
Fatta questa premessa di ordine generale, partendo dai problemi e dai limiti che la psicoterapia incontra in un ambito di tipo comunitario, vedrò di chiarire come, a mio avviso, i fattori terapeutici della psicoterapia possano essere mantenuti e anzi diventare uno strumento centrale all’interno della Comunità Terapeutica.
Un primo punto che riguarda la differenza tra lavoro psicoterapeutico in ambito privato e in ambito comunitario, riguarda il contratto. È chiaro che la libertà contrattuale assoluta, il vincolo che si stabilisce tra una domanda di cura del paziente e un’offerta di disponibilità di tempo del terapeuta, sono fattori che in una struttura comunitaria subiscono forti variazioni.
Eppure l’aspetto contrattuale indubbiamente esiste anche nella Comunità. Il paziente arriva alla C.T. solitamente su proposta del S.S.M., o in alcuni casi, inviato da un curante privato. Tuttavia, prima di entrare in C.T., il paziente si reca a conoscere la struttura, prende contatto personalmente con gli operatori della Comunità; vengono quindi esplicitate il più possibile la domanda e l’offerta, e solo quando il paziente è convinto di voler iniziare questo percorso,
entra in Comunità. Naturalmente l’ingresso in Comunità rappresenta l’inizio di un percorso terapeutico, che il paziente potrà interrompere in qualunque momento. Non si danno limiti di tempo definiti, ma si precisa il più chiaramente possibile fin dall’inizio, che il lavoro che il paziente può fare in Comunità è uno strumento che può essere utilizzato nell’ambito di un progetto terapeutico globale concordato con il S.S.M. o con i curanti che hanno già in carico il paziente.
L’elemento tempo, come dicevo, rimane indefinito, si esplicita solamente che il percorso terapeutico della C.T. ha un inizio e una fine.
L’accordo iniziale e del tipo “Potrà stare qui, finché ne avrà bisogno, e finché le potrà servire, etc….”. Spesso accade che sia il paziente a darsi un limite di tempo definito, e credo che questo sia una difesa importante contro l’angoscia di morte che può evocare l’ingresso in una struttura residenziale. Naturalmente quanto ho detto implica un’alleanza con la parte sana del paziente, ed e chiaro che questa sorta di contratto sarà più o meno attuabile a seconda delle capacità egoiche residue del paziente.
D’altra parte credo che questo non sia molto dissimile da quanto accade nella psicoterapia con pazienti psicotici, nella pratica privata.
Mi sono soffermato su questi aspetti, in quanto un elemento fondamentale della psicoterapia all’interno della Comunità è, secondo me, il fatto che il contratto avviene all’interno di un contratto più ampio, che è quello che il paziente stipula con tutta la C.T. al momento del suo ingresso. Nel momento in cui si inizia una psicoterapia all’interno della Comunità, vengono comunque discussi gli aspetti contrattuali pur con tutte le limitazioni di un contratto psicoterapico in ambito istituzionale. Tuttavia si ha l’impressione che il vincolo tra la domanda e l’offerta di psicoterapia in un certo senso sia già avvenuto a monte, che il paziente abbia già aderito, entrando in Comunità, a un progetto psicoterapeutico.

Un altro aspetto riguarda il setting.
È chiaro che le regole che definiscono ii quadro preservato e isolato del setting in psicoterapia analitica non si possono trasportare nella Comunità tout-court. Innanzitutto c’è la questione, non secondaria, del fatto che paziente e terapeuti condividono momenti che vanno al di là dello spazio della seduta; inoltre un certo numero di pazienti, che vivono a stretto contatto fra loro, sono seguiti in psicoterapia dallo stesso terapeuta, con tutte le fantasie e i vissuti che
questo comporta.
È chiaro che su questo punto esistono impostazioni differenti e questo riflette senz’altro una nostra scelta. In altre strutture di tipo comunitario, basta pensare al modello inglese dell’Arbours Crisis Center i terapeuti vengono dall’esterno e quindi è più facile mantenere la preservatezza del setting.
Nella nostra Comunità abbiamo scelto che chi fa psicoterapia faccia parte dell’équipe operante all’interno della Comunità così che paziente e terapeuta trascorrono molte ore insieme, si vedono, si parlano, a volte mangiano insieme etc. In questo modo il setting non è più solo il setting della terapia duale paziente-terapeuta, ma quest’ultimo si inscrive dentro la cornice più globale del setting della Comunità. O meglio gli elementi che determinano il setting della terapia duale (lo spazio fisico in cui si fa la seduta, la durata delle sedute, il numero delle sedute settimanali) sono presenti, ma le caratteristiche di preservatezza e di contenimento mi sembra siano soprattutto realizzate dal setting allargato della Comunità. Cosi pure quel senso di ritmicità un po’ ossessivo che caratterizza il setting e che ne costituisce uno degli aspetti contenitivi rispetto alle angosce del paziente, mi sembra soprattutto rappresentato dal ritmo cadenzato della quotidianità con le sue attività più o meno strutturate.
Un’altra questione su cui mi sembra valga la pena di riflettere è il rapporto tra psicoterapia e aspetti medico-psichiatrici all’interno della Comunità.
Indubbiamente dal punto di vista della tecnica psicoanalitica, questi aspetti andrebbero separati e chi fa la psicoterapia al paziente dovrebbe intervenire il meno possibile sugli aspetti di realtà del paziente.
Devo dire che anche noi abbiamo in parte attuato questa separazione tanto che quasi tutti i pazienti sono seguiti da due operatori: uno psichiatra e uno psicologo.
Rifacendosi a una concezione interattiva della psicoterapia, io credo pero che anche gli elementi della realtà, come il farmaco o il ricovero in ospedale, i collegamenti con i S.S.M. e con i familiari etc., debbano essere inseriti nella relazione e compresi nel significato che assumono a seconda del momento. Non si tratta cioè di “mettere in sospensione” la realtà per capire, ma di comprendere condividendo. Per esempio il farmaco può diventare una sorta di strumento che permette al paziente di rimanere in relazione con il terapeuta, ma può anche essere vissuto come oggetto “magico” o oggetto persecutorio a seconda dei momenti della terapia, così come il ricovero in ospedale, in un momento di crisi, può essere vissuto come un agito sadico, ma può anche essere il modo in cui il terapeuta si pone come figura concreta, distinta dai fantasmi persecutori del paziente.
Io credo che tutti questi aspetti agiti siano riconducibili alla relazione, se si tiene conto che essi saturano probabilmente bisogni inconsci sia del paziente che del terapeuta e sono comunque frutto di una interazione.
La mia impressione è che il distinguere in modo rigido gli aspetti psichiatrici da quelli psicoterapici rischi di irrigidire la relazione in ruoli precostituiti e demandare ad altri, quindi “mettere fuori” dalla relazione con i1 paziente, il momento agito; io credo che là dove lo psicotico, nella sua crisi acuta, costringe spesso il terapeuta ad agire al suo posto le sue angosce, debba essere il terapeuta che è in stretta relazione con lui ad assumersi questo compito, riuscendo contemporaneamente a verbalizzare le emozioni che intercorrono in quel momento nella relazione con il paziente, quindi di fatto a introdurre il pensiero.
Un altro aspetto importante riguarda la presa in carico del paziente.
In base a quanto detto prima è chiaro che esiste una presa in carico globale da parte della Comunità e una presa in carico individuale.
Mi viene in mente a questo proposito la discussione tra O. Kernberg e H. Segal, riportata da Zapparoli. La Segal, riferendosi ad esperienze avute da lei negli USA, afferma: “ciò che come analista chiedo dal punto di vista dell’organizzazione dell’ambiente per un paziente psicotico in analisi con me, è un minimo di sicurezza fisica, un ambiente il più possibile comprensivo che lo sostenga, per mezzo del calore umano, ma che analiticamente sia neutro, e non un ambiente che cerchi di mobilizzare e interpretare l’inconscio del paziente, quello evidentemente è il compito dell’analista”.
Kernberg, durante la discussione che ne è seguita, ha sostenuto che esiste anche la possibilità di collocare il paziente in un ambiente veramente psicoterapico per raggiungere lo scopo che il trattamento si svolga 24 ore su 24 e non solamente durante il tempo della seduta analitica. Kernberg cita l’esperienza del Menninger Memorial Hospital in cui, dice: “i pazienti devono-affrontare un certo numero di compiti quotidiani variabili secondo il grado di socializzazione di cui abbisognano”.
L’impressione che il paziente suscita su questo ambiente e le impressioni che questo ambiente produce su di lui, fanno parte del materiale sul quale il paziente e l’analista possono lavorare. Un particolare non trascurabile è che i pazienti del Menninger usufruiscono generalmente di 2 sedute settimanali, mentre i pazienti a cui si riferisce la Segal usufruiscono di 5 sedute settimanali.
Io credo che questi 2 modelli non vadano visti come 2 poli inconciliabili, ma possano essere visti come 2 posizioni, 2 vertici di osservazione diversi che si possono intercambiare a seconda dei momenti e delle indicazioni che il paziente dà al gruppo dei terapeuti.
Nella mia esperienza ho visto che se la Comunità funziona, si crea come un gioco dinamico tra presa in carico individuale, e presa in carico globale per cui, là dove esiste una situazione d’impasse nella relazione psicoterapica duale, si rafforzano gli aspetti materno-contenitivi della Comunità nel suo insieme, mentre quando c’è una difficoltà a stare dentro il gruppo, come accade molto spesso all’inizio della permanenza del paziente in Comunità, sarà soprattutto l’intensità della presa in carico individuale a permettere al paziente di stare
dentro, e a tollerare i suoi impulsi di fuga e distruttivi rispetto alla Comunità.
Riassumendo io credo che la psicoterapia all’interno della Comunità diventi una sorta di gioco in cui la psicoterapia individuale, con i suoi aspetti strutturati, diventa parte di un gioco più grande, rappresentato dalla vita Comunitaria, in cui l’attenzione continua alla relazione e alla lettura di ciò che in essa accade in termini di emozioni, ne costituisce la dimensione psicoterapica.
In questo contesto la psicoterapia individuale con le sue regole, il suo setting, è il setting più allargato della Comunità, sono tra loro in una dialettica costante, che è poi lo specchio di quella dialettica dentro-fuori che nel mondo psicotico tende a naufragare e che il terapeuta cerca di ripristinare, reintroducendo la dimensione simbolica.
Io credo che lo “stare con” il paziente, accompagnarlo nel suo contatto spesso fallimentare con il mondo esterno, le cui difficoltà e contraddizioni sono veicolate dal microcosmo della Comunità, cercando di recuperare quella distanza indispensabile tra vissuto ed agito, rappresenti il nucleo psicoterapeutico della Comunità nel senso di riattivare il più possibile la funzione della mente come capacità di pensare le esperienze.
Io credo che la C.T. così concepita, possa essere un’applicazione pratica, in via sperimentale, di quel filone della psicoanalisi che vede nella “matrice relazionale”, nel senso descritto da Mitchell come substrato interattivo su cui vengono intessuti ed organizzati, lungo tutto l’arco della vita, i molteplici aspetti dell’esperienza umana, l’alveo per farvi confluire e integrate le diverse prospettive relazionali.
Mi sembra estremamente importante il fatto che questa impostazione è in linea con la riformulazione cui è andata incontro in questi ultimi decenni l’oggetto stesso di interesse della psicoanalisi, la mente. Considerata ancora da Freud, prevalentemente a partire da un insieme di strutture predeterminate emergenti dall’interno di un organismo, essa viene attualmente vista come sistema aperto, in termini di patterns transazionali e strutture interne derivate da un campo interattivo, interpersonale. Va sottolineato come questa concezione permetta di tenere conto anche dei fattori biologici. Infatti il contesto interattivo permette di cogliere appieno la portata dei fattori biologici come portatori di specifici significati.
Vorrei provare ad esemplificare quanto detto finora, raccontando un caso, a mio avviso particolarmente coinvolgente per tutta la Comunità (in cui, per la verità, la tecnica psicoterapica adottata è stata un po’ particolare) che mi pare mostrare abbastanza bene come la Comunità nel suo insieme si muova intorno al paziente.
A. è giunto alla nostra struttura inviato da un C.P.S. della Lombardia con diagnosi di schizofrenia ebefrenica cronica, dopo una permanenza di 4 anni presso un’altra Comunità Terapeutica. Il motivo dell’invio è stato determinato dal tentativo di sbloccare una situazione di stallo e di parziale regressione che si era venuta a determinare dopo che A. aveva compiuto notevoli progressi sul piano dell’autonomia e dell’equilibrio affettivo.
Dai dati anamnestici emerge la presenza di un nucleo familiare contrassegnato da dinamiche molto intense e conflittuali. I genitori si sono separati quando A. aveva 13 mesi. Il padre lavorava nella ditta di orologi paterna, poi fallita, la madre esercita come insegnante.
A. è nato a termine da parto distocico. Ha pronunciato la prima parola a 9 mesi, quindi ha subito un arresto dell’eloquio fino a 3 anni. Ha conseguito la licenza della S. Media inf. ma sempre con ritardo sia nella lettura, sia nel ragionamento. Lo sviluppo psico-fisico è stato precoce, l’alimentazione è irregolare, molto abbondante e sregolata nei momenti critici. È un gran fumatore. Dopo la separazione dei genitori A. resta con il padre per 6 mesi, dopo di che viene ripreso dalla madre. Il rapporto con la madre, ricco di ambivalenze e reciproche aggressioni, caratterizzerà tutta l’infanzia di A. La madre sembra avere un atteggiamento rifiutante, a volte scaricando le sue tensioni personali su di lui. Sia all’asilo sia alle scuole elementari A. ha presentato grosse difficoltà di socializzazione, spesso era aggressivo con gli altri, non riusciva a comunicare, anche il suo rendimento era deficitario. Il periodo scolare è stato caratterizzato da una lunga serie di trasformazioni e abbandoni.
L’esordio psicopatologico conclamato è avvenuto nell’84, con una forte crisi di angoscia che ha determinato il primo ricovero.
In seguito, al rientro a casa, ha presentato un delirio strutturato, improntato a temi di persecuzione.
Per circa 2 anni e mezzo e stato seguito in psicoterapia. In questo periodo ha avuto parecchie crisi, alternando comportamenti aggressivi nei confronti della madre, a comportamenti regressivi, fino a raggiungere uno stato catatonico che ha determinato il ricovero.
È abbastanza chiaro che la separazione dalla prima struttura ha reificato il primo abbandono subito dalla madre, e le sue ambivalenze rispetto al cambiamento e ai possibili reinvestimenti (“ora che sono qui, che cosa mi succede? Morirò qui o farete qualcosa per me?”).
Molto preoccupati di queste sue espressioni di morte, pensiamo al ricovero per qualche giorno in ospedale. Prima di arrivare a questo, gli proponiamo ancora di effettuare terapia infusionale, per sottolineare i1 suo aspetto di sofferenza e il suo bisogno di essere contenuto.
Andiamo avanti un po’ in questo modo; A. sembra tranquillizzato dalla preoccupazione dello staff che si muove intorno a lui. Dopo alcuni giorni sospendiamo la tempia per infusione. Piano piano, con il passare del tempo, A. comincia ad inserirsi in Comunità, passando attraverso momenti di intensa angoscia in cui è delirante con temi di persecuzione, di minaccia, di veneficio, etc., ad altri in cui è molto affettivo, sembra molto contento di vedere facce conosciute ed amiche.
Negli ultimi tempi, pur persistendo le modalità e l’alternanza di fasi di umore diverso, si sono fatte strada anche modalità di comportamento più adulte. A. si permette di diventare aggressivo a livello verbale con gli operatori della struttura dove era prima (“Hanno deciso la mia morte, io che cosa devo fare?”) e di mostrare tutte le sue angosce rispetto al futuro (“Che cosa fate di me? Cosa decidete? Mi volete far morire qui allora?).
Di fronte a queste espressioni di rabbia si spaventa molto (“La prigione, la prigione, mi mandi in prigione”).
A. non riesce ad integrare rabbia e amore, quindi si spaventa molto di manifestare la sua rabbia verso le figure che gli sono più vicine affettivamente, allora si sente cattivo e chiede di essere mandato in prigione, oppure dice “Ho già disturbato tanto con questi colloqui, mi mandi in Ospedale cosi non dò più fastidio a nessuno”.
Il nostro sforzo è di immaginare quale possa essere un progetto psicoterapico adeguato per A., tenendo presente la sua storia caratterizzata da continue perdite, dalla mancanza di un rapporto stabile con una figura significativa che gli permettesse di sperimentare la fiducia necessaria per esprimere le sue emozioni.
Dopo un periodo in cui si sono alternati momenti di lucidità a profonde crisi caratterizzate da contenuti di pensiero deliranti, nell’88 A. viene accolto in una Comunità psichiatrica; qui A. mette in atto una serie di comportamenti atti a mettere alla prova le capacità contenitive della struttura.
In seguito, grazie anche alla presenza continua di un operatore, A. instaura una valida relazione con lo staff che gli ha permesso di ottenere miglioramenti sul piano della socializzazione e dell’attività lavorativa.
Dopo aver effettuato un certo percorso all’interno della Comunità, sembra essersi attualmente instaurata una situazione d’impasse, in cui da un lato A. sembra fare richieste concrete sul suo futuro, dall’altro sembra essersi sviluppata una grossa dipendenza dalla struttura, con il rischio di una cronicizzazione. A partire da questa base, gli operatori della Comunità hanno pensato a un inserimento in una Comunità più piccola, al fine di promuovere elementi di cambiamento.
Entra quindi nella nostra Comunità con il progetto di utilizzare nel migliore dei modi le sue capacità residue. Al momento dell’ingresso in Comunità si ricrea intorno ad A. un ambiente di tipo familiare. I fratelli (gli altri pazienti), la coppia genitoriale (i 2 terapeuti), gli altri operatori (parenti adulti assimilabili agli zii, figure affettive che rappresentano una sorta di distanza intermedia, a mio parere importantissima, tra le figure genitoriali e i fratelli).
Nel cambiamento A. ripropone le sue modalità di comportamento, espressione della sua ambivalenza. Mette alla prova la struttura.
È molto in ansia, alterna momenti in cui cerca rassicurazioni, con il continuo contatto fisico, ad altri in cui sembra continuare quell’atteggiamento ipomaniacale che aveva nell’altra Comunità (si cambia continuamente vestito etc.).
Subentra ben presto 1’angoscia della perdita, della separazione dall’altra Comunità in cui A. aveva realizzato investimenti affettivi grossi. A. cerca di negarla in tutti i modi (non nomina mai l’altra Comunità, dice “ho già lavorato tanto, chiedo un po’ di riposo”, parla sempre più spesso di morte, di bara).
Spaventa molto l’équipe, dicendo “…Altrimenti io qui vado in bara, vado in cimitero, e finisce così”.
Da un lato in una situazione comunitaria più familiare, c’è la possibilità di lavorare ulteriormente sulle maggiori capacità di autonomia e sulle richieste di evoluzione che erano venute fuori nell’altra Comunità. D’altro lato la tentazione è di provare una psicoterapia più strutturata, adesso che la situazione psicopatologica di A. sembra offrire più margine ad un intervento di questo tipo.
Da un lato quindi un intervento più paterno che accompagni A. verso un inserimento nella realtà esterna, dall’altro un intervento secondo il codice materno che gli conceda la regressione per poi superarla attraverso la relazione.
Io credo che questi due interventi non si escludano a vicenda e che la Comunità permetta di integrarli. Si rende così possibile l’intervento sull’intrapsichico attuato tramite la relazione psicoterapica, e un intervento maggiormente centrato sugli aspetti di realtà e sulle possibilità di adattamento al mondo esterno.
Abbiamo scelto in questo caso di attuare l’intervento psicoterapico in modo abbastanza inusuale.
L’aspetto più strutturato della psicoterapia è stato affidato a due terapeuti (un terapeuta maschio ed una terapeuta femmina), che vedono il paziente in coppia, effettuando due sedute alla settimana.
Contemporaneamente intorno ad A. si muovono gli altri operatori, stabilendo relazioni più o meno significative, a seconda dei ruoli e delle caratteristiche personali. Sembra particolarmente significativa per A. la presenza di un infermiere uomo, che lo accompagna, stimolandolo nella esecuzione di piccole mansioni pratiche.
Il modo di procedere in coppia è stato scelto con l’intento di ricostruire intorno ad A. una coppia genitoriale, cosa che nella sua storia non aveva mai avuto. Pur rendendoci conto dei rischi e delle controindicazioni che questo operare comporta, a nostro avviso in un paziente come A. che era già stato seguito in passato in psicoterapia, e che sembrava trovarsi al momento in una situazione d’impasse, ci sembrava opportuno inserire un elemento nuovo, di cambiamento:
questo elemento nuovo poteva essere rappresentato, secondo noi, dall’introduzione del 3°, direttamente in seduta.
Da un lato questo modo di operare pone un limite alla regressione del paziente, può alimentare fantasie persecutorie etc. D’altro canto io credo che se esiste un rapporto empatico tra i tre elementi della relazione, se in qualche modo gli inconsci sono in contatto, se esiste cioè la possibilità di chiedersi in ogni momento che cosa sta succedendo a livello emotivo non solo tra singolo terapeuta e paziente, ma anche tra i due terapeuti e tra la coppia dei terapeuti e il paziente, penso che questo possa portare ad un ulteriore cambiamento nella possibilità di rendere intellegibili e tollerabili nella relazione i nuclei psicotici che possono venire cosi condivisi e restituiti al paziente un po’ mitigati nella loro potenziale distruttività. Si crea così nella testa di ogni terapeuta uno spazio mentale in cui possono esistere l’altro membro della coppia e il paziente. Ad esemplificazione di ciò ricordo un periodo di particolare angoscia del paziente, in cui i due terapeuti continuavano a sognarsi reciprocamente. Dall’analisi di questi sogni è emerso come il paziente tendesse a legarli, a fonderli e a confonderli insieme.
Mano a mano che si andava creando nella testa dei terapeuti lo spazio mentale di cui sopra e le angosce del paziente trovavano un posto per essere contenute, si instaurava la possibilità della comunicazione, naturalmente con tutte le caratteristiche del linguaggio schizofrenico, però creatrice di interazioni, comprendente uno scambio di elementi affettivi e cognitivi tra il sistema del paziente e il sistema dei terapeuti, interazione a cui si può e si deve cercare di
dare un significato valido consensualmente, passando attraverso il ristabilirsi dei poli della comunicazione.
Mi sembra che si possa realizzare così quel modello attivo della terapia nel senso di CREMERIUS, THOMA, KHACHELE, modello che non sottolinea una dogmatica fedeltà alla regola, una rigida neutralità, ma piuttosto vede i due sistemi, quello del terapeuta e quello del paziente in una interazione creativa: questo può riattivare il sistema del paziente, bloccato ad un’autoreferenzialità quasi assoluta.
Un altro aspetto che mi sembra interessante è la ripercussione che questo modo di procedere (in coppia) può avere sul processo di formazione del simbolo e sull’acquisizione della creatività del pensiero simbolico. Non certo per approfondire il discorso, ma sulla base di un’associazione mentale, mi vengono in mente le parole di Meltzer: “Il simbolo può, ma non deve essere riempito di significato, e qualcosa che permette di pensare, è come un contenitore che permette di spaziare. La formazione dei simboli avviene sulla base di due oggetti, ognuno con un universo possibile di significati, uniti da relazioni reciproche che sono in grado di arricchire entrambi gli oggetti di nuovi significati: il simbolo nasce da una congiunzione che arricchisce (è per questo che Meltzer si richiama nell’esplicazione del processo della formazione del simbolo, all’oggetto combinato, così all’immagine interna di una coppia genitoriale capace di una relazione profonda).
A questo punto assistiamo così ad A. che chiede ai due terapeuti di accompagnarlo fuori, di stare con lui nel suo desiderio, unito ad intensissime angosce, di andare verso la realtà. A. chiede ai due terapeuti di accompagnarlo una volta a pranzare al ristorante, diventa curioso nei confronti delle persone e delle vite dei due terapeuti etc.
Siamo ben consapevoli delle molteplici letture che possono essere date a questi movimenti del paziente e che la storia di A. è caratterizzata da continue aperture e repentine chiusure, ritiri affettivi etc., tuttavia mi sembra che la presentazione del sistema terapeutico, l’apertura terapeutica in qualche modo abbia aperto una possibile strada per il cambiamento.

Riflessione sul gruppo di discussione all’interno di una Comunità Terapeutica per pazienti psichiatrici
1^ paziente: “Siamo tutti un po’ fiacchi, nessuno che parla”.
2^ paziente: “Per me è anche la pioggia, io è tutto il giorno che ho sonno”.
3^ paziente: “No, è che appena uno inizia a fare un discorso importante, c’è subito qualcuno che deve fare la battuta, o dire cose che non c’entrano niente”.
4^ paziente: (rientra dopo che si era allontanato dalla stanza alcuni minuti prima sbattendo la porta). “Scusate, ma non ce la facevo proprio prima, ero troppo incazzato, ora sono più calmo, posso parlare al gruppo”.
Terapeuta: (interviene facendo riferimento al tema di cui il gruppo aveva discusso poco prima). “Credo che quello che abbiamo detto prima sui sentimenti di rabbia, di aggressività, abbia toccato tutti intensamente, tanto che di fronte ad emozioni così forti sembra che non si possa più parlare e venga voglia di fuggire, o allontanandosi fisicamente, andandosene, cambiando discorso”.
Condurre un gruppo verbale in una Comunità per pazienti psicotici e borderline gravi pone una serie di problemi e interrogativi con i quali credo sia necessario confrontarsi.
Innanzitutto penso che bisogna evitare il rischio di considerare un gruppo di discussione come qualcosa che si dà per scontato, magari giustificato unicamente dal contesto in cui ci si trova ad operare. Ritengo necessario pensare bene su che cosa significa fare una proposta di questo genere, a che tipo di gruppo ci si riferisca e che tipo di progetto si abbia in testa, dopodiché si potranno più o meno definire una o più tecniche di conduzione del gruppo.
Naturalmente questo non vuol dire che poi non ci si debba dimenticare di tutto ciò quando si entra in seduta, lasciandosi guidare dal gruppo, ma credo che senza un progetto chiaro in testa, sia poi difficile formulare un contratto con i pazienti, pur con tutte le variazioni e le limitazioni di contratto e di setting che una situazione di tipo comunitario impone.
Siamo partiti inizialmente col fare la proposta a tutti i pazienti, in modo da formare un gruppo aperto, con l’idea che il gruppo si sarebbe poi autoselezionato sulla base della motivazione dei singoli.
L’idea iniziale era quella di creare uno spazio in cui ciascun paziente potesse esprimere il più liberamente possibile e confrontare con gli altri le proprie paure, aspettative, desideri, rispetto allo stare in Comunità. I1 gruppo si riuniva una volta alla settimana, ciascun incontro era della durata di 1 h. I conduttori erano 2: un medico psichiatra e una psicologa. L’obiettivo iniziale era proprio quello di definire uno spazio, un contesto fisico e mentale, (nella testa dei terapeuti e dei pazienti) di ascolto reciproco.
L’intervento dei terapeuti era quindi, in un certo senso, limitato a definire, con la loro presenza, i confini mentali di questo spazio.
Erano abbastanza lontane da noi aspirazioni di tipo psicoterapico in senso stretto, che avrebbero comportato tra l’altro un setting e una preparazione tecnica diversa.
Ovviamente le dinamiche di gruppo erano visibili fin dall’inizio, ma i terapeuti non le interpretavano, concentrando 1’attenzione sulla definizione dello spazio di cui sopra, con l’intento di realizzare sempre di più uno spazio condiviso, uno spazio relazionale.
Partendo da queste premesse, ho potuto osservare che il gruppo man mano si è andato formando spontaneamente, fino ad arrivare a definire un gruppo di 7-8 persone, (pur rimanendo un gruppo aperto), che ha una sua fisionomia e che è alla ricerca di una sua identità gruppale.
Mi sembra interessante riflettere sul fatto che il formarsi del gruppo è andato di pari passo con il formarsi nella mente dei terapeuti di un’immagine gruppale, di uno spazio mentale in cui il gruppo esisteva come entità.
A questo processo di gestazione del gruppo corrispondeva un mutamento nelle modalità degli interventi dei terapeuti: all’inizio molto frequenti, quasi mossi dall’ansia di dare dei confini, una forma a qualcosa che non ne aveva, poi, man mano che il gruppo “cresceva”, più rari; si cerca di favorire il più possibile la comunicazione tra i pazienti, si tollera maggiormente la frustrazione di non dare risposte, di restare a volte in silenzio, di non saturare con componenti razionali le valenze inconsce del gruppo.
A questo punto io credo che qualunque argomento venga proposto dai suoi componenti, il gruppo parla comunque di sé diventa quasi inevitabile leggere anche in termini di dinamiche di gruppo qualunque evento accada.
Io credo che il fattore terapeutico di questo percorso consista nel fatto che, crescendo insieme terapeuti e pazienti, si cerca di dare forma a frammenti di pensiero, si tenta di dare un senso, un’esistenza alla non esistenza realizzata da uno spazio e da un incontro validati consensualmente.

Pierfabrizio Cerro: psichiatra
Anna Diroccia: psicologa
Il gruppo di discussione in Comunità

L’attenzione al gruppo rappresenta uno dei cardini su cui si basa la terapia di Comunità. I1 gruppo di discussione ha la peculiarità, rispetto agli altri gruppi, di centrare l’attenzione sul gruppo stesso.
Rispetto ai gruppi terapeutici non verbali dove esiste un mediatore (es: corporeo per la psicomotricità, produzione artistica per l’arteterapia), nel gruppo verbale sono i vissuti emotivi relativi allo stare in gruppo a creare il tessuto e lo strumento di lavoro.
L’obiettivo che ci poniamo è quello di introdurre la parola come mediatore simbolico delle fantasie ed emozioni vissute dal gruppo.
Siamo consapevoli che se questo è l’obiettivo dei terapeuti ciò non significa che sia anche la motivazione che spinge i pazienti a partecipare al gruppo.
Noi pensiamo che per i pazienti il gruppo rappresenti uno spazio intermedio, protetto, che si colloca tra il gruppo più allargato di persone che vivono in Comunità, più disgregato e quindi più angosciante, e lo spazio della terapia individuale più protetto e contenitivo.
Quindi uno spazio intermedio tra mondo esterno ed interno in cui i confini sono definiti e garantiti dalla presenza dei terapeuti. Ci sono alcuni aspetti formali su cui occorre soffermarci.
Il contratto si basa su un’alleanza tra parti sane che si esplicita nella consegna di parlare delle proprie emozioni con l’intenzione di dare un senso che venga trovato dal e nel gruppo.
Pensiamo che per ogni paziente l’adesione al gruppo riproponga la stessa modalità con cui egli vive il progetto di stare in Comunità.
Per esempio per alcuni pazienti sembra che partecipare ad attività terapeutiche rappresenti un’implicita consegna della propria follia ai terapeuti nella magica aspettativa che i problemi vengano risolti: in questa ottica a più attività si partecipa maggiore è la probabilità che qualcuno cancelli la sofferenza.
Il setting è caratterizzato da: a) una stanza (delle attività comuni); b) un numero di pazienti non definito (gruppo aperto); c) due terapeuti; d) una durata di 45’; e) n° 1 seduta settimanale.
a) La stanza dove si svolgono le sedute è comune a tutte le attività di gruppo. Non solo, questa stanza è usata anche per funzioni domestiche della Comunità. Per questo motivo la seduta è, a volte, interrotta dal passaggio di persone esterne al gruppo. Inoltre sono esposte le produzioni relative al gruppo di arteterapia (un paziente che ha partecipato ad alcune sedute distruggeva sistematicamente qualche lavoro).
b) All’inizio il gruppo era aperto a tutti e la partecipazione alle prime sedute era piuttosto numerosa essendo maggiormente connotato come momento assemblearistico in cui poter usufruire di uno spazio di maggiore vicinanza con i terapeuti. In questa fase la partecipazione di molti pazienti era caratterizzata
da un forte bisogno di essere al centro dell’attenzione e di focalizzare l’interesse dei terapeuti e del gruppo su di loro. Man mano che i conduttori frustravano questo bisogno cercando di riportare tutto al gruppo, le persone si sono autoselezionate. Si è assistito al formarsi di un gruppo in cui ognuno presentava la parte apparentemente più sana di sé. La parte sofferente di loro rimaneva sempre fuori dal gruppo mentre all’interno veniva o negata o espulsa con movimenti di fuga.
Proprio per evitare la creazione di un gruppo basato sulla fuga dalle emozioni e quindi sulla staticità abbiamo inserito persone la cui struttura psicopatologica ponesse l’attenzione sulla sofferenza espressa con la depressione e con il delirio.
Mentre precedentemente il gruppo era vissuto come “sano”, “isola dalla follia”, successivamente l’introduzione della sofferenza psichica ha portato a movimenti aggressivi e/o depressivi nei confronti dei contenuti folli espressi. Si osserva che chi sta male viene attaccato e svalutato e, nel contempo, alcune persone si allontanano come se si volesse preservare a tutti i costi la “salute” del gruppo. In questo senso il nostro tentativo è quello di allargare i confini dello spazio mentale del gruppo e, quindi, di contenere anche le parti più distruttive introducendo il pensiero e la parola come mediatori.
Noi riteniamo che la capacità terapeutica del gruppo evolva di pari passo con la creazione e la crescita nei conduttori di uno spazio mentale in cui il gruppo è contenuto. In questo modo diventa sempre più possibile interpretare i movimenti del gruppo nei confronti dei due terapeuti che talvolta vengono vissuti come troppo deboli per reggerne la potenza distruttiva.
Pensiamo che ogni persona debba compiere un cammino particolare all’interno del gruppo; contemporaneamente noi non ci sentiamo di escludere quelle persone che si stanno avvicinando al gruppo a piccoli passi, pur non riuscendo a reggerlo totalmente.
c) È un fattore importante che la coppia sia formata da due persone di sesso diverso perché questo obbliga fin dall’inizio a mettersi di fronte al maschile e al femminile, quindi, alla triangolazione: ciò impedisce di ricreare un rapporto fusionale, simbiotico.
Abbiamo riscontrato che il presentare la coppia ha un impatto diverso secondo la patologia dei pazienti. Infatti su pazienti con disturbi della personalità tipo borderline, in cui la gestione dell’aggressività è un problema fondamentale, la presenza fisica del terzo diventa 1’unico garante rispetto alla gestione di una distanza di sicurezza di fronte all’altro, che ripropone il problema della distanza-vicinanza dalla madre. Per lo psicotico la coppia è uno stimolo molto angosciante (simbiosi) o inesistente (chiusura narcisistica autismo); in entrambi i casi manca uno spazio mentale che renda possibile la gestione delle emozioni connesse ad una relazione evolutiva; per il paziente borderline lo spazio mentale c’è in qualche forma, ma non è maturata la capacità di gestione della distanza rispetto all’oggetto.
In questo senso la presentazione di una coppia ha valenze terapeutiche diverse. Al paziente viene presentato un modello relazionale diverso dal suo, che si pone in modo dialogico ed interattivo, di fronte al quale dovrebbe essere costretto a trovare una nuova modalità di comunicazione. Questo funzionerà tanto più i terapeuti riusciranno a comunicare tra di loro rimandando un modello di integrazione.
In questa ottica femminile-maschile pensiamo che la diversità dei ruoli istituzionali (medico-psicologo) vada in questa direzione, in quanto la figura dello psicologo è maggiormente rivolta al pensare, alla riflessione, al contenimento delle angosce (istanza materna),mentre quella del medico è rivolta all’agire ed è più normativa (istanza paterna). Al contempo siamo consapevoli che essere in due a condurre un gruppo rappresenti una difesa di fronte alle emozioni ansiogene legate alla gestione delle angosce di frammentazione e di perdita dell’identità (nel nostro caso di curante).
Infine pensiamo che l’essere in due favorisca la depressione di fronte al sentimento di onnipotenza terapeutica.

Roberta Antonello: psichiatra
Sandra Vasè: psicologa
Comunità Alloggio Redancia 1

Redancia 1 nasce come una comunità alloggio e si definisce tale per le caratteristiche sia strutturali che di organizzazione che ne determinano il contesto.
Innanzi tutto il livello di protezione, contenimento, sicurezza di solito richiesto per pazienti affetti da una patologia psichica grave non è fornito dalla struttura: è un normale appartamento, meglio due appartamenti sovrapposti costituenti un’unica villetta senza nessun accorgimento “sicuro”; i vetri non di sicurezza, le porte degli armadi senza chiavi, il libero accesso a tutte le stanze, alla cucina, al cibo, alle risorse (eccezione lo stanzino dei farmaci) rendono la
struttura un’abitazione degli utenti senza caratteristiche sanitarie.
Esiste una stanza per il medico e per i colloqui (segreteria ecc.) ma l’arredamento (praticamente solo una scrivania con telefono, fax ed armadio con letto a scomparsa) la rende poco diversa dal contesto. I pazienti, che si preparavano ad uscire da una situazione sanitaria, hanno scelto questa abitazione e ne hanno preso possesso partecipando attivamente a scelte di tipo organizzativo sull’arredamento, sull’utilizzo degli spazi: dalla distribuzione delle stanze in base alle affinità trovate nella struttura precedente, alla divisione dei due saloni uno in cucina e sala da pranzo, e l’altro in salotto per momenti “comunitari” e di ricreazione; collaborando attivamente a lavori di strutturazione costituendosi già in un gruppo prima dell’ingresso effettivo. In attesa delle autorizzazioni hanno passato giornate nell’abitazione futura preparandosi i primi pasti, aiutando e consigliando nei lavori. Si sottolinea questo perché non è poi mai avvenuto, nell’anno successivo all’apertura, un attacco alla struttura, nessun mobile distrutto o semplicemente piatto rotto, fatto certo abbastanza significativo rispetto a condotte di attacco ben abituali nelle strutture precedenti. Il contenimento di questi acting sembra in rapporto al senso di appartenenza, non ad un regolamento nè all’esistenza di barriere. L’appartamento “contiene” e “protegge” nella misura in cui il paziente lo ha scelto e lo sente suo come luogo di vita e di terapia.
La corretta accoglienza è dunque un punto fondamentale e continuativo nei nuovi ingressi; il nuovo prende conoscenza, si ferma a un pasto, viene messo in discussione dal gruppo storico, viene ben accettato, messo alla prova, sceglie e viene scelto. Gli operatori devono sensibilmente rispondere a tutte le paure espresse dal gruppo e dal nuovo, e facilitate 1’ingresso solo nel momento opportuno, senza d’altronde essere immobilizzati dai timori. Qui non si può sbagliare, il fallimento di un ingresso ha un peso ed un costo molto superiore a quello che si sperimenta nei reparti e nelle precedenti strutture (ovviamente anche lì esistente, ma spesso non percepito in modo cosi drammatico), senza farsi bloccare da un immobilismo difensivo: la ritrosia alla dimissione, il timore del cambiamento devono altrettanto sensatamente essere valutati per non cadere in un immobilismo antiterapeutico.
La messa al bando di condotte devianti non può essere una prescrizione, l’operatore riuscirà ad operarla efficacemente solo quando il gruppo avrà maturato il senso della propria scelta di cura in quel luogo. Occorre pazienza ed attenzione, non allarmismo, ma neppure negazione: terapie rifiutate, condotte alcoliche, sabotaggi feriscono gli operatori ma distruggono i1 paziente, e trovano una soluzione costruttiva solo nel momento in cui, invece che punire, se ne accolgono gli aspetti di pazienza e delicatezza che permettano la verbalizzazione e la presa di coscienza del significato dei comportamenti agiti. Non esistono colpe, esiste un problema.
L’organizzazione della vita, del quotidiano non può essere studiata a tavolino e regolamentata; averlo necessariamente fatto all’inizio ha comportato la capacità di cambiare il tavolino in incontro dialettico coi pazienti, formale ed informale, un momento di riflessione che ha favorito il crescere ed il definirsi nel suo sperimentarsi. Le riunioni del mattino che sembravano cosi indispensabili, che sono state perfino prescritte in momenti di ansia, sembrano oggi una ridicola
pretesa. La riunione settimanale tra i pazienti e lo staff curante è un tale concentrato di comunicazioni, emozioni, messaggi, richieste, gratificazioni, “polso” della situazione per tutti che non è pensabile di saltarla neppure il giorno di Natale. Non viene in mente a nessuno, pazienti e curanti. Gli operatori hanno imparato che la loro funzione più importante è: “avere le antenne”, ascoltare, allearsi alle parti più mature e meno distruttive, sapere mettere in gioco quello che avevano scelto; i pazienti fanno di terapeutico riabilitativo solo quello che hanno compreso nel suo significato. Quello che diviene importante è non il rispondere al proprio desiderio ansioso di riempire ogni spazio vuoto del paziente, ma il tollerare il vuoto espresso dal silenzio o abilmente nascosto da progetti irrealizzabili.
Il gruppo ha evidenziato una straordinaria ed inaspettata capacità di autocurarsi e correggersi: ad esempio all’inizio alcuni svolgevano attività superiori ad altri (cucinare), dopo un po’ si sentivano al tempo stesso vittime ed eroi, paranoici ed esaltati, da soli hanno tumultuosamente deciso (nel corso di una riunione), di fronte ad un silente staff, di togliersi dalla cucina e di fare dei turni di aiuto al personale uguali per tutti, gestiti da loro e tollerati variamente nelle eccezioni da loro stessi. La capacita dello staff è stata quella di non intervenire, consigliare, deprimersi per il ritorno indietro (era bello pensare che cucinassero da soli, che si scegliessero il menù ecc.): anche questo non è da poco e non è facile. I1 gruppo ha evidenziato una straordinaria tolleranza verso le persone che sentiva malate, in cui si riconosceva; in parallelo lo staff ha dovuto intervenire per separare chi sentiva non tollerare negli altri le parti di sé che più non tollerava per evitare attacchi sadici, emarginazione, espulsioni. Siccome dati di realtà potevano sempre confermare il “cattivo” comportamento di qualcuno di nuovo, lo staff ha dovuto sviluppare doti di pazienza e capacità di lettura, oltre che imparare a gestire le situazioni tramite correttivi estemporanei (l’infermiere per allentare la tensione senza cadere in atteggiamenti di tipo pedagogico manda a fare una commissione o si porta via uno per degli acquisti ecc.).
Il gruppo ha sempre espresso tensione inaspettata verso 1’evoluzione, necessita di movimento anche se con timore, necessita di sentirsi migliorare e questo ha provocato movimenti di intolleranza e sadismo verso i pazienti più disturbati o più “immaturi” o quanto meno percepiti immobili. L’attenzione dello staff è stata di nuovo rivolta contro il pericolo di seguire la realtà (un paziente può essere effettivamente immobile, pelandrone, infantile) richiamando all’ordine il malcapitato, ma sorreggendolo verso il fare accettare al gruppo la propria stanchezza, depressione, differenziandola dalla disperazione, cogliendo al tempo stesso le spinte costruttive che emergevano dal gruppo come opposizione alla regressione.
È anche successo che membri dello staff fossero attaccati per questo: di fronte alle accuse all’educatore di non essere sufficientemente direttivo, al medico di essere troppo sdrammatizzante, è stato compito dei responsabili non cadere nella trappola dell’individuazione del colpevole al posto della decifrazione del problema espresso.
È in un contesto di questo tipo che il paziente può compiere un processo evolutivo attraverso il suo crescere nel gruppo e rispetto al gruppo.

Alcuni problemi
L’alloggio non prevede, per come è appunto vissuto dagli ospiti, uno spazio per lo staff. A distanza di un anno ci siamo sentiti complessivamente più rilassati, meno spaventati da incursioni di bambini o dalla sensazione di invadere case altrui. Esempio: quando ci fermiamo nello studio, se non siamo in colloquio, ogni momento arriva o uno o l’altro con domande più o meno pretestuose. Il disagio è anche nostro, ed è indispensabile trovare quindi uno spazio esterno alla casa per una continua periodica riflessione ed integrazione.
I ruoli devono essere flessibili. L’infermiera psichiatrica, pilastro dell’istituzione, per affrontare tutta una serie di compiti che vanno ben al di là del mansionario, non deve avere solo la gratificazione economica, ma una costante motivazione, alimentata solo dalle capacità di valutare il suo lavoro, supportarlo, integrarlo, valorizzarlo, riconoscerlo. Questo ha inoltre permesso all’infermiere di svolgere funzioni materno-casalinghe (cucinare, lavare, pulire, stirare) e mantenere una forte credibilità professionale. I pazienti maschi hanno
mostrato, in tutto questo anno, una fiducia nella professionalità espressa non solo nelle richieste di aiuto ma nelle capacità. E gli psichiatri e psicologi hanno imparato a non intrudere e a frenare il loro desiderio di controllo, mantenendo tuttavia una capacità di percezione. Lo psichiatra e lo psicologo hanno poi sviluppato una maggiore capacità di rispetto verso le proprie diverse funzioni: la gerarchia ne è uscita fortunatamente sconfitta ed il gruppo curante, formato
da persone per carattere, formazione, ruolo, ha sviluppato una capacità di stare insieme bene, con reciproca simpatia e rispetto, trasformando in divertenti le riunioni di lavoro a volte, all’inizio, resoconti pesanti e poco creativi oltre che noiosi.
Lo staff ha imparato a confermarsi spontaneamente, senza resoconti e consegne, in una reciproca fiducia. L’infermiera ha potuto fare anche interventi d’urgenza con la sufficiente tranquillità che sarebbe stata approvata. Acting, sbagli, azioni impulsive sono state fatte da tutti, ma da tutti poi tollerate e comprese senza risposte autoritarie, regolamentanti, gerarchizzanti. Pazienti con possibilità di acting gravi suscitano nel medico responsabile livelli di ansia che possono essere canalizzati in ordini, prescrizioni, controlli. La condivisione della responsabilità, cioè la sensazione che tutto lo staff condivida l’ansia, la preoccupazione, sollevano il medico dal pericolo del controllo e della colpevolizzazione, mentre i1 gruppo si sente complessivamente gratificato e cresciuto nelle sue capacità terapeutiche ed il paziente si contiene. Questo è avvenuto più volte nel corso dell’anno con un solo ricorso ad un trasferimento temporaneo in una struttura ospedaliera.
Il gruppo terapeutico infine deve essere sufficientemente preparato a non lasciarsi fuorviare dalle richieste esterne (famiglia, società, amministratori), che spesso non vogliono altro che cose concrete e vedibili; non è facile lasciarli aspettare e insieme capire le loro giustificate preoccupazioni. L’intervento sul nucleo famigliare, sul contesto presente e futuro del paziente ha richiesto di nuovo grandi capacità di tolleranza agli attacchi, letti come giustificati segni di impotenza e disperazione, quando non sentimenti di colpa
esasperati da precedenti interventi.

CONCLUSIONI

Non è semplice comporre un tema a più mani; l’aver intrapreso questo compito, mi sembra sostanzialmente giustificato dall’esigenza di verificare i punti di contatto e di divergenza di diversi operatori che decidono di condividere il compito di prendersi cura dci pazienti psichiatrici all’interno di una comunità terapeutica; inoltre la domanda che mi ponevo era relativa alla capacità dei singoli terapeuti di uscire dall’individualità e dal modello ambulatoriale dcl rapporto duale paziente terapeuta, per calarsi in una dimensione gruppale,
dalla quale però non essere dipendenti.
È un contributo che intende esporre gli autori come campione esperienziale, per cui le comunicazioni sono volutamente, per la maggior parte, esposte integralmente con le inevitabili sovrapposizioni e ripetizioni che sottolineano le convergenze ed evidenziano quindi anche i punti di disaccordo e le aspettative ideali dci singoli in un’ottica che a mio avviso propone un metodo che è quello della circolarità della comunicazione, della ricerca della dovuta onestà intellettuale e della possibilità quindi di ripensare, in un divenire costante, l’attività di relazione coi pazienti e tra gli operatori finalizzata al compito di prendersi cura dell’ospite.

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