Nel libro “Comunità Natura, cultura… terapia” pubblicato dal Gruppo Redancia, gli autori di un capitolo sono Annibale Salsa, un antropologo che ha collaborato con il Gruppo in un momento importante, Andrea Contini all’epoca allievo e io, Beppe Berruti, che ho fornito la componente “psico”, in un discorso in cui come vedrete, la componente fondate è in realtà antropologica, ma che porta l’esperienza comunitaria verso una dimensione educativa.
Che esperienza è entrare ed appartenere ad una comunità?
La domanda è volutamente aperta, perché se da un lato la lettura dei diversi, tre più uno, modi di stare di stare in comunità terapeutica, apre molte riflessioni sulla nostra funzione di operatori di struttura, dall’altra ci potrebbe interrogare, e questo mi piacerebbe potesse aiutarci a fare questo scritto, su che cosa per noi oggi significa entrare, appartenere, lasciare, una comunità.
Per noi, esseri relazionali e sociali in un oggi in cui il dove e il quando, e il modo di essere in relazione è sempre più fluido e meno definito, forse la comunità terapeutica, intesa in questo modo, può aiutarci a trovare qualcosa, oltre che aiutarci a far fare un’esperienze positiva a chi vi entra dopo una vita di fallimenti.
Quindi il consiglio è quello di leggere questi modi togliendo il termine “terapeutica”, almeno in certi momenti, per aprire le porte della comunità (terapeutica) e crescere, dialogando insieme.
Prefazione al Capitolo 2: Quattro modi di abitare in comunità terapeutica
La storia delle istituzioni psichiatriche, non sempre luminosa, come ci mostra Peloso in un altro capitolo di questo libro, ci insegna che un trattamento residenziale deve andare al di là del concetto del luogo come contenitore e permettere una relazione con l’ospite più articolata. Per questo ci sembra preziosa l’indicazione di Petrella (1993), di partire da una semiologia dello spazio e del luogo, con l’obiettivo di arrivare a una rappresentazione dei significati e del senso dell’istituzione così come gli etnoantropologi costruiscono il modello culturale (Benedict, 1960). È anche vero che l’antropologia culturale moderna, come ogni altro campo del sape-re, è ricca di modelli diversi, che si prestano a usi diversi.
L’assunzione dello sguardo antropologico nello studio della comunità terapeutica richiede un grande sforzo di immedesimazione cognitiva ed emozionale. Un atteggiamento intenzionale (nel senso del «disporsi verso») che i saperi protocollari e le pratiche assistenziali conseguenti tralasciano per eccesso di generalizzazione.
Anzitutto vanno ricercate le ragioni di un bisogno di comunità che la società contemporanea registra in ambiti e settori diversi. Il rapporto individuo-comunità infatti deve essere posto al centro della nostra attenzione se vogliamo mettere in evidenza le motivazioni «culturali» di un ritorno alla dimensione transindividuale.
Alla base di queste aspettative e attese occorre registrare crescenti esigenze di compensazione protettiva nei confronti di un ambiente esterno percepito come ostile (non solo tra i pazienti psichiatrici, ma anche tra la gente cosiddetta «normale»). Le esperienze di comunità suscitano profonde aspettative tra gli individui parcellizzati del nostro tempo, generando profonde ansie di identificazione in mancanza di riferimenti certi e condivisibili. In una società caratterizzata da un alto indice di complessità e da un’elevata differenziazione funzionale, il rischio di perdersi, di non esser-ci, di venire annientati da quella «crisi della presenza» che Ernesto De Martino (1973) poneva alle origini della magia, ripropone la comunità come valore. Nelle società premoderne, infatti, il dispositivo comunitario funzionava come meccanismo di difesa sociale nei confronti di minacce esterne (forze della natura, spiriti maligni generatori di malattia e di morte ecc.) e agiva come una sorta di terapia della solidarietà nei confronti delle persone afflitte da stati morbosi. Prescrizioni rituali presiedevano e governavano i momenti della vita comunitaria, regolata da consolidati circuiti simbolici in cui ben poco veniva lasciato all’improvvisazione e l’individuo riceveva forti conferme identitarie. La separazione moderna tra scienza (tecnologia) e cultura, tra pratiche cognitive astratte e «mondo della vita», tra individuo e società ha finito per distruggere l’orizzonte comunitario quale importante agenzia di socializzazione e ammortizzatore del disagio sociale. La riscoperta della funzione terapeutica della comunità ripropone perciò meccanismi e dinamiche sociali propri delle società etnologiche, additando nuove modalità di percezione dello spazio, del tempo e della relazionalità. Lo sguardo antropologico consente pertanto di andare oltre la categorizzazione sociologica del fenomeno e di predisporre studiosi e/o operatori sociosanitari a «trascendere» la mera osservazione empirica (e nosografica). Ciò può favorire una migliore comprensione delle profonde ragioni di senso dell’attuale rivoluzione degli assetti identitari, sia individuali che collettivi.
Certamente le differenze tra le comunità etnologiche tradizionali e le nuove comunità terapeutiche sono rilevanti, come si avrà modo di mostrare. Resta tuttavia da rilevare l’esistenza di un filo rosso che riunisce passato e presente all’insegna di una riumanizza-zione delle pratiche di guarigione e di cura.
Questo contesto antropologico diventa particolarmente importante in un contesto di assistenza psichiatrica come quello italiano, che presenta alcune caratteristiche peculiari, legate probabilmente al processo di deistituzionalizzazione radicale del nostro sistema psichiatrico. È successo da noi che i principi e i valori della comunità terapeutica sono stati applicati a patologie in parte diverse e in un certo senso più gravi di quelle per le quali il movimento delle comunità terapeutiche si è evoluto nel corso di questi cinquant’anni e che sono rappresentate attualmente dai disturbi gravi di personalità. Questo fa sì che i valori e i principi comunitari assumano aspetti specifici che hanno bisogno di un contesto più ampio in cui trovare senso e funzione. È dunque importante approfondire e conoscere meglio il setting comunitario, le sue ideologie e le sue tecniche.
L’evoluzione teorica più interessante in campo psicoanalitico per quanto riguarda le istituzioni psichiatriche è probabilmente rappresentata dal modello del campo istituzionale (Correale, 1991) di cui lo stesso Correale ci presenta in questo libro gli sviluppi più attuali. Noi cercheremo di sviluppare qui una prospettiva complementare.
Petrella (1993) ha delineato, oltre al significato e all’importanza di una prospettiva antropologica per lo psichiatra, alcune questioni e problemi; ci sembra che il modello della surmodernità risolva uno dei problemi posti: quello della possibilità di uno sguardo antropologico vicino.
A nostro avviso la riflessione di Marc Augé (1992) relativamente all’antropologia dei luoghi e alla surmodernità è particolarmente pertinente. Il concetto di surmodernità può essere molto utile a una riflessione sul disturbo psichico o persino sulla possibilità di una salute mentale in un mondo surmoderno governato dalla paradossale situazione di eccesso e contrazione di tempo e spazio e dove la soggettività cambia di significato. Le tre categorie di Augé – identità, relazione e storia – si propongono come parametri per descrivere i modi in cui un’istituzione in quanto luogo si pone in relazione con ogni ospite. Possiamo però anche dire, e cercheremo di mostrarlo, che dal nostro punto di vista queste possono essere viste non solo come categorie dell’appartenenza a un luogo, ma anche come cornice di pensiero ed emotiva in cui si inserisce l’intervento comunitario quale esperienza finalizzata allo sviluppo psichico, relazionale ed emotivo.
Nei valori della comunità terapeutica è implicito un aspetto paradossale che nasce dalla coesistenza di due anime (definibili anche come modelli culturali) che ogni comunità terapeutica possiede e che può essere schematizzata nei due luoghi di riferimento, entrambi realizzati in modo incompleto: essere una casa transitoria oppure essere un ospedale dove si abita. Una parte importante del significato terapeutico della comunità nasce, ci sembra, dal suo essere legata proprio alla capacità di accettare questa tensione senza la necessità di risolverla in un senso o nell’altro, vivendola come poli nel «campo» della relazione terapeutica, che acquista così due punti di riferimento culturali, e anche emotivi, nei quali disporre la conflittualità individuale e di gruppo. La prospettiva sur-moderna può consentirci di leggere in modo specifico e flessibile questo campo, rappresentandolo come luogo e permettendoci di rappresentarne alcune qualità, nel presente e nel gruppo, e quindi di costruire relazioni più sensibili ai bisogni specifici dell’ospite, così come sono stati definiti da Zapparoli (Zapparoli e altri, 1988).
A loro volta, questi due modelli hanno sullo sfondo il significato della comunità terapeutica come luogo.
Siamo convinti che una prospettiva antropologica del «luogo comunità» può aiutarci a sviluppare un contesto teorico e cultura-le, forse sarebbe meglio dire un «ecosistema» di pensiero, che tenga conto dei valori collettivi con cui si confronta e a cui in fondo appartiene, e nel quale possano realizzarsi pienamente le funzioni terapeutiche e trasformative della comunità. Queste consistono fondamentalmente nella possibilità di rivisitare e rivivere individualmente e in gruppo certe esperienze, fallimentari, della propria storia, ma anche nella possibilità di rifare i conti con certi valori generali della società che si realizzano in legami, relazioni e abitudini. Questi valori, che per definizione sono il campo della crisi tra il caratteropatico (ma anche lo psicotico) e la società, si realizzano in nuovi legami, relazioni e abitudini che ripetono quelli passati, in comunità terapeutica, ma dove possono aprirsi soluzioni nuove, in genere attraverso conflitti e crisi.
Questo tema della ripetizione, che è di chiara impronta psico-analitica, ci rimanda al tema del «ricordare, ripetere e rielabora-re» e, alla fine, al rapporto tra artificialità e naturalità della situazione comunitaria. Non affronteremo qui direttamente questo argomento, che è invece trattato da Giusto e da Conforto.
La naturalità della situazione comunitaria trova la sua radice ultima e il suo riferimento nel modello culturale della famiglia. Come nella famiglia reale e come nella famiglia interna che tutti ci portiamo dentro, le vicissitudini affettive ed emotive del gruppo possono essere lette a partire dai punti di riferimento forniti da un modello basato su alcune emozioni umane fondamentali. Bion
(1961) ha fornito strumenti importanti per la possibilità di leggere la vita dei gruppi e delle istituzioni a partire dalle vicissitudini di alcune passioni fondamentali e dei legami che esse generano, e che sono l’odio (H), l’amore (L) e la conoscenza (K).
Nella prospettiva bioniana questi tre elementi sono gli elementi fondamentali della vita psichica degli individui in relazione con gli altri e sono alla base dei legami sia con la realtà che con il pensiero, inteso come pensiero emotivo (Bion, 1962a). Nella realizzazione comunitaria questo modello trova un suo inserimento naturale nel modello del campo istituzionale descritto da Correale (1991).
L’esperienza clinica fa pensare che in realtà la vita istituzionale sia più complessa, e che sarebbe probabilmente utile una geometria (Bodei, 1991; Pandolfi, 1991), o un’algebra, delle passioni a partire da più elementi. Tuttavia è un compito che non vogliamo affrontare qui, e del resto l’ipotesi bioniana rappresenta comunque un utile strumento di osservazione e di lavoro, secondo l’osservazione dello stesso Bion (1962a). Se questa prospettiva può essere applicata a ogni istituzione (come in effetti viene fatto), qual è, sotto questo profilo, la peculiarità che una comunità terapeutica dovrebbe possedere? Proprio in riferimento al fatto che la famiglia rappresenta il modello culturale, una comunità terapeutica dovrebbe avere, a nostro avviso, la caratteristica di non essere specializzata nel gestire una di queste emozioni, come avviene in altre istituzioni specializzate: la comunità terapeutica ha come suo aspetto specifico il porsi in modo flessibile e sensibile rispetto ai bisogni del gruppo e dell’individuo, in funzione del cambiamento, così come la famiglia si modella nell’interazione con i figli in funzione dello sviluppo dei figli. È vero però che qui non si tratta di favorire una naturale evoluzione, ma piuttosto di correggere un percorso a partire da una situazione di fallimento, al contrario che nello sviluppo del bambino. Il confronto tra il bambino e lo psicotico ha i suoi rischi e le sue difficoltà (Campoli, Luoni e Meterangelis, 1999), che vanno però affrontati a partire dalla considerazione che l’ospite della comunità terapeutica parte da una situazione di sfiducia di base che ha origine nell’esperienza di un fallimento decisivo.
Per questo genere di fallimenti, nella società non ci sono molte altre occasioni, ma piuttosto istituzioni specializzate, ambienti che coltivano l’una o l’altra di queste passioni e fondamentalmente con obiettivi sociali, più o meno utili, piuttosto che di evoluzione individuale: il carcere, il manicomio, ma anche la Chiesa e l’Eser-cito. La comunità terapeutica sembra invece poter avere in sé questa opportunità, di poter offrire, in modo modulato, un percorso verso il recupero di una naturalità e un’armonia di queste passio-ni, offrendo all’ospite un’occasione nuova.
Ma se uno dei modelli culturali della comunità terapeutica è quello della famiglia, non bisogna dimenticare che la comunità terapeutica è anche un luogo di cura, e che quindi fa riferimento anche al modello medico-terapeutico, tanto più presente quanto più sono presenti patologie psicotiche. Questa contrapposizione crea una tensione che ogni comunità terapeutica affronta a modo suo, e che rappresenta non solo un problema ma anche un elemento fondamentale della cura, come abbiamo visto. Può essere interessante prendere brevemente in considerazione il confronto con l’ospeda-le, come modello culturale, rispetto al campo delle passioni come l’abbiamo inteso qui.
L’ospedale è naturalmente un luogo complesso da questo punto di vista, e ha una sua storia di cambiamenti ed evoluzioni. L’aspetto attualmente evidente è il prevalere dilagante della tecnica, che fa dell’ospedale fondamentalmente un’istituzione dedita alla conoscenza più che all’accoglienza, un luogo essenzialmente di diagnosi e terapia. (Si potrebbe dire, inoltre, che la conoscenza è sempre stata delegata ai medici, e solo oggi si cerca di invertire la tendenza.) Oltre a ciò – ma attualmente è meno visibile – resta la dimensione della regressione, del ritorno alla dipendenza che rimanda alla cura materna, ma in modo poco consapevole e con uno spazio sempre più ristretto, più come un fattore di supporto alla tecnica che come una dimensione dell’esperienza di malattia. L’ospedale quindi è più rigido della comunità, perché è un’istituzione con una finalità precisa, la riparazione.
Ci preme invece osservare che se la comunità terapeutica fa riferimento a due modelli culturali, quello della famiglia e quello dell’o-spedale, naturalmente la loro coesistenza non significa che sono simmetrici. In realtà, mentre l’ospedale è un punto di riferimento che sarebbe ingenuo e pericoloso negare, ma che va visto in funzione del suo superamento, il modello della famiglia e della casa può rappresentare il punto di riferimento centrale dell’ideologia terapeutica della comunità. La comunità offre la possibilità di apprendere nella condivisione all’interno di un gruppo (operatori e ospiti) che interagisce con un obiettivo di evoluzione psichica, secondo un modello che è stato definito living learning. Questo principio ha un suo richiamo fondamentale nel modello della famiglia e quindi un potente rimando al modello culturale della casa.
All’interno di un intervento che si pone gli obiettivi di una comunità terapeutica, il luogo, ovviamente inteso come ambiente vissuto, è un fattore terapeutico importante. Il luogo e l’abitarvi, che ne rappresenta la funzione, hanno almeno due ruoli che potremmo definire di interfaccia. La prima è un’interfaccia fisica, di separazione tra il paziente e il mondo esterno; la seconda è un’interfaccia culturale e relazionale, che si pone come intermediaria nel conflitto tra i valori collettivi della comunità cui appartiene e cui appartengono i suoi ospiti, i suoi stessi operatori. La fluidità di questa interfaccia e la capacità da parte della comunità terapeutica di tollerare i conflitti e di mediarli sembrano rappresentare un fattore importante per il significato stesso della comunità terapeutica.
Si potrebbe anche dire che la comunità terapeutica ha svolto proprio la funzione di proporre un conflitto nuovo alla società intera nel momento in cui si è posta come strumento per una nuova strategia per la cura del disturbo psichico, al centro della questione del rapporto tra il dentro e il fuori delle istituzioni psichiatri-che, che è una questione non solo di potere o di emarginazione, ma anche di confronto di valori e modelli culturali collettivi e individuali.
Ci sembra che questo discorso abbia delle ricadute cliniche abbastanza precise, che consistono nella possibilità di riconoscere sul piano clinico i diversi modi di vivere che il modello culturale di riferimento delle comunità terapeutiche offre a ogni ospite e, vice-versa, che ogni ospite offre alla comunità terapeutica. Questi modi rappresentano anche la forma della trama relazionale che risulta dal mettere in relazione i bisogni dell’ospite con la proposta della comunità terapeutica relativamente all’abitare: trama relazionale che fa da sfondo alla messa in gioco dei legami e delle passioni nel campo emotivo comunitario.
La fenomenologia di questi luoghi vissuti in comunità terapeutica è tutta da scrivere. Noi proporremo, tra gli infiniti possibili modi di abitare in comunità terapeutica, tre diverse situazioni che sono sufficientemente generalizzabili e che sono, ci sembra, riferibili a ciascuna delle tre categorie di Augé. Aggiungeremo a questi la possibilità che la comunità terapeutica stessa si proponga in certi momenti come un non-luogo.
Ognuno di questi «tipi» è una possibilità di utilizzare la comunità come luogo dove si abita. Ognuno pone una questione specifica relativa ai conflitti e ai bisogni dell’ospite che utilizza quella specifica modalità di abitare e quindi di entrare in relazione con la comunità terapeutica. Vediamoli brevemente.
Innanzitutto la comunità terapeutica può con efficacia essere anche un non-luogo, che corrisponde a una situazione clinica nella quale la richiesta è quella di un tipo di relazione che rispetti il bisogno dell’ospite di non essere troppo stimolato. Vedremo che questa situazione non è facile per una comunità terapeutica, che deve così accettare un’apparente «non-relazione».
L’utilizzazione della comunità terapeutica come guscio si pone all’interno di un problema fondamentale dell’esperienza psicotica: la perdita di coesione dell’identità. Questa si verifica in una particolare situazione relazionale, che ha a che fare soprattutto con il problema del recupero e del mantenimento dell’ordine e con la difesa dell’identità soggettiva e della coesione di un Sé fragile e costantemente in pericolo. Il guscio come isolamento da un lato, e come protezione di una possibilità dall’altro.
Dire che la comunità terapeutica è una pelle serve invece a rappresentare un’utilizzazione della comunità terapeutica come mediatrice di una relazione complessa e duttile, organo di senso e di protezione dalla realtà esterna in una fase di transizione e di prospettiva di evoluzione, oltre che contenitore per mettere alla prova forme nuove di relazione con il mondo. La comunità terapeuti-ca, quando è pelle, realizza in pratica una funzione transizionale nel processo di cambiamento.
Infine, la capacità di integrare le esperienze portate dagli ospiti e di restituirle rappresenta l’elemento storico. La funzione storica della comunità terapeutica è duplice. Da un lato è per la comunità terapeutica stessa un elemento di crescita e di continuità, basato sulla sua capacità di apprendere dall’esperienza, elemento che rappresenta per la comunità terapeutica una necessità vitale. Dall’altro la capacità di accogliere e integrare le esperienze altrui consente una restituzione di storia e di senso all’ospite, e permette forse, qualche volta, anche una riscrittura del proprio percorso con la possibilità di recuperare un senso di continuità e di valore della propria storia, in genere fallimentare.
E chiaro che la patologia che porta all’esperienza di comunità terapeutica conferisce significati diversi a questi diversi modi di abitare.
Nei disturbi della personalità i primi aspetti assumono un valore molto limitato, e probabilmente non ha senso parlare di non-
luogo o di guscio per persone il cui problema è al contrario quello di un eccesso di coinvolgimento nella relazione.
Restano invece, e anzi vedrebbero aumentata la loro importanza, gli altri due aspetti, che coinvolgono in modo più diretto gli aspetti relazionali.
Il tema che ci siamo posti è ampio, nonostante il tentativo di limitarlo. Il nostro desiderio è che il lettore possa trovare in questo capitolo qualche nuovo strumento per capire di più e imparare meglio dai nostri veri maestri, che come sempre sono i nostri pazienti.
La comunità terapeutica è una tipica situazione complessa. Lo è culturalmente, per ciò che rappresenta per la società. Lo è terapeuticamente, perché pone questioni tecniche e di efficacia tutt’altro che risolte. Lo è naturalmente, come qualsiasi gruppo di persone che decidono di condividere per un certo periodo aspetti importanti della propria vita.
Abbiamo comunque bisogno di rappresentarci in qualche modo tutta questa complessità; possiamo farlo attraverso delle storie, o comunque accedendo a una dimensione narrativa e metaforica, seguendo l’insegnamento di Bateson in Mente e natura (1979).
È in realtà quello che abbiamo cercato di fare quando abbiamo pensato a questi quattro modi di vivere la comunità terapeutica come luogo in cui si abita. Abbiamo cercato di tracciare un percorso attraverso due aree teoriche che consideriamo importanti.
La prima è il modello teorico-clinico di riferimento delineato da Conforto, Giusto e Pisseri nell’Introduzione a questo volume. La seconda è il contesto culturale e antropologico nel quale secondo noi la comunità terapeutica può essere letta con utilità: quello di un luogo/non-luogo in un quadro generale di surmodernità.
Abbiamo anche visto che da un punto di vista «strutturalista» la comunità terapeutica in sé stessa può facilmente essere riferita ad almeno due modelli culturali fondamentali dell’universo antropologico: la famiglia e l’ospedale.
È importante qui sottolineare un ultimo punto. Anche se abbiamo messo a fuoco separatamente i tre punti di Augé, identità, relazione e storia, speriamo sia chiaro al lettore che ciò che fa di un posto un luogo è l’insieme dei tre aspetti, e ciò che ne fa «quel luogo» sono le sue qualità; è con queste specificità che la comunità terapeutica si pone come soggetto di relazione con l’ospite.