Ancora oggi, nel corso di un gruppo multifamiliare, risuonava la eco dell’intervento di Dario D’Ambrosi al festival di Sanremo. Complimenti e giudizi positivi del tipo: “finalmente qualcuno che si occupa dei malati mentali, che ci mette la creatività…”.
Ci saranno in me moti di invidia? Avrei voluto essere io a calcare il palco dell’Ariston invece del mio compagno di scuola che, a 19 anni era là, con la sua chitarra ed una brutta canzone finita nel dimenticatoio. Chissà.
Il Teatro Patologico di Dario D’Ambrosi
Faccio salute mentale da 40 anni e a me l’idea del Teatro Patologico non mi aveva mai convinto. Poi ho avuto diversi report personali di pazienti che si erano sentiti a disagio, troppo spinti, trattati con durezza. Poi ho avuto le mie perplessità cliniche, questa idea di fare un grande miscuglio di disabilità, di mettere tutti insieme e trattare la salute mentale come un deficit cognitivo. E infine la grande mirabolante apparizione all’Ariston.
Viene da chiedersi: ma come avrà fatto? Si va all’Ariston solo perché si è amici di Pieraccioni, come ha detto Carlo Conti. Ma ci saranno dei valutatori? Di certo il progetto D’Ambrosi è sostenuto da illustri partner istituzionali. Non è mio compito indagare su chi, perché e che risultati produce.
Magari può essere interesse di un giornalismo d’inchiesta. Ma la idea che “se sta bene un disabile sta bene la mamma, il papà, il condominio, il quartiere, la comunità”, cito a braccio senza avere riguardato l’intervento, è esattamente il contrario di quello che molti di noi osservano. Almeno nel campo della salute mentale. E secondo me anche della disabilità cognitiva.
Vediamo tanti pazienti stare meglio e non trovare alcuna corrispondenza con la famiglia e il mondo circostante. Anzi, mi sembra, che proprio per questo molti pazienti ricadano. Loro cambiano ed intorno non cambia un bel nulla.
ORTAET
Allora direi che il progetto ORTAET, come l’ho ribattezzato affettuosamente, per diventare Teatro Sano dovrebbe prevedere che per fare stare bene un disabile, bisogna fare stare bene la mamma, il papà, il condominio, il quartiere… Bisogna avere una società che cura e si cura, servizi pubblici efficienti, abitazioni supportate, inclusione sociale e lavoro. Altrimenti si resta incastrati nel patologico. Pulisce i sensi di colpa di tanti, scatena la gioia della solidarietà spiccia e becera. Ma sempre di patologia si tratta. E allora il luogo dove parlarne non è il teatro e tanto meno l’Ariston.