Vaso di Pandora

Abitare la comunità: la comunità terapeutica come pelle

Abbiamo visto come la comunità terapeutica possa essere vissuta in quattro diversi modi e ci concentreremo ora sull’abitare la comunità terapeutica come pelle.

Siamo partiti dalla comunità come un non luogo. L’esperienza dei non luoghi, rappresentano occasioni di estraneità ai propri legami e alla propria storia e possono, quindi, essere attraenti. Dal punto di vista clinico il non luogo ha delle caratteristiche che possono essere attraenti ad esempio al paziente psicotico. Accettare di essere un non luogo significa tollerare il paradosso di una non-relazione in comunità, che si realizza attraverso la possibilità di limitare al massimo le emozioni fondamentali che si mettono in gioco. Tuttavia è proprio in questa situazione relazionale estrema che si può trovare quella funzione di «rianimazione» che la comunità terapeutica svolge spesso per gli ospiti in arrivo. Non va quindi sottovalutata la sua importanza.

La funzione della comunità come guscio è da intendersi quale protezione verso l’esterno, che consente di permanere in uno spazio che si mostra familiare, che si riconosce, che non inganna. Questo rappresenta l’essenza dell’abitare, del sentirsi a casa. Le mura della comunità terapeutica diventano così la soglia tra lo spazio sacro interno e lo spazio profano esterno. Questo è uno spazio senza regole, senza una cornice di senso nella quale orientarsi.

E poi c’è la pelle, che forse rappresenta al meglio l’dea più profonda e vera della comunità terapeutica. Viva, di confine e di dialogo, capace di ferirsi e di guarire, in costante dialogo con il dentro, in costante evoluzione, e con un fuori che richiede, in modo più o meno appropriato.

È forse questa la metafora più adatta per noi che lavoriamo in Comunità per pensare a quello che siamo e che vogliamo essere: vivi e aperti ma difesi, separati ma dialoganti, con tutte le parti di noi, che curiamo e siamo curati, vivi insomma!

La comunità terapeutica come pelle

Come abbiamo visto, la metafora del guscio ci ha portati verso immagini vegetali, oppure legate al mondo degli uccelli (il guscio di noce, l’uovo). Anche nel linguaggio comune però un guscio fuori posto o fuori tempo cessa di essere un fattore protettivo e diventa un ostacolo alla vita vera («si è chiuso in un guscio», Devo-to-Oli). Per alcuni ospiti delle comunità terapeutiche il guscio, se esasperato, diventa effettivamente un fattore di isolamento. Introdurre l’idea di pelle permette di fare un importante passo avanti nella nostra rappresentazione della comunità terapeutica. Da un lato il passaggio non sembra così ardito; ci sono significati in comune: la delimitazione, la protezione, il contenimento. Ma sembra cambiare radicalmente la qualità di queste caratteristiche, che diventano infinitamente più complesse; vi si aggiunge poi l’interazione con l’esterno.

Parlare della comunità terapeutica come di una pelle vuol dire affrontare un modo di vivere la comunità molto più vicino, per certi aspetti, alla fisiologia umana. Anzieu (1985) ha utilizzato la metafora della pelle per definire la relazione psicoanalitica e alcune caratteristiche della mente: esistono ragioni biologiche, fisiologiche, psicopatologiche e cliniche per pensare, in una prospettiva psicoanalitica, che la pelle sia un modello utile per entrare in relazione con la mente, per pensare. Per noi, «pelle» ha un significato leggermente diverso, più esplicitamente metaforico e vicino alla prospettiva di Petrella (1993) sull’uso e sull’importanza della struttura metaforica nel linguaggio parlato quotidiano, ma crediamo che siano comunque utili tutte le sue amplificazioni. Le associazioni alla comunità come pelle e come contenitore, nel senso di Anzieu, vengono facilmente.

La comunità terapeutica può cominciare a essere pelle proprio laddove si riconoscono i limiti del guscio, che funziona, almeno entro certi limiti, a prescindere dal cambiamento delle condizioni esterne, e che comunque è solo relativamente in grado di modificarsi rispetto a questi cambiamenti.

La pelle è l’organo del mantenimento dell’omeostasi, attraverso l’adattamento e la relazione con le variabili condizioni esterne.

Difende l’organismo con l’adattamento e lo scambio, e non con l’isolamento.

Ma per l’interfaccia, per il confronto con l’esterno da sé, servono permeabilità e strumenti per ricevere e dare informazioni, a cominciare dalla percezione dello spazio (Lotman e Ospenskij, 1973; Petrella, 1993).

Nella comunità terapeutica come pelle lo spazio è vissuto in modo diverso: nella generale divisione interno/esterno in contrapposizione alla radicale separazione del guscio che facilita la creazione di uno spazio «sacro, sicuro e mitico all’interno, che supporta la coesione di un Sé fragile» (Contini), qui abbiamo la possibilità di entrare in contatto con la realtà concreta esterna, e quindi una funzione di intermediazione che ha le caratteristiche di supporto sensoriale, delimitante e difensivo. L’esterno non è virtuale, e almeno idealmente deve innescarsi un meccanismo per il quale l’interno deve progressivamente diventare l’interno a sé, con un processo che richiede di fatto un’efficace capacità illusionale o la capacità di attivare una funzione di tipo transizionale e di gioco. Il «Là fuori» è il luogo dove si andrà, e la sua esistenza nell’orizzonte esistenziale dell’ospite crea una tensione che diventa il campo della relazione. C’è uno spazio interno (Tigenwelt) in relazione con uno spazio esterno (Mitwelt/Umwelt), c’è un abitare che è meno «per sempre» e assume caratteristiche più vicine alla transitorietà, alla cura, e in questo senso è più conflittuale. In ogni caso, è uno spazio «dentro» con un «fuori» fatto di servizi, opportunità e difficoltà; la sacralità del guscio diventa meno concreta e più funzionale al confronto con l’esterno.

Qui entra in gioco la comunità terapeutica come «luogo antropologico» nel suo aspetto di apertura sia verso l’esterno sia verso l’interno nella relazione con gli altri. La comunità ha la funzione, in questo caso, di porsi come intermediario della relazione del soggetto con il mondo (percezione, delimitazione, difesa). Abitare in comunità terapeutica in questo modo significa abitare all’interno di uno spazio che si modella e si pone in modo intermediario tra l’ordine psicotico del mondo e la realtà. Qui i contorni del dentro e del fuori vanno riconosciuti dentro la comunità terapeutica, tra la comunità terapeutica e il suo fuori, ma anche tra sé stessi e l’altro nella relazione, nell’appartenenza alla comunità terapeutica ma in relazione con un fuori e nell’adesso, così come il presente è in relazione con un futuro. Anche il tempo assume un aspetto più contrattuale ed è quindi evolutivo. La relazione porta con sé l’intermediarietà, la transizione, il confronto e il limite anche temporale. Il tempo qui, per definizione, non è per sempre, anche se si tratta di un’intermediarietà senza fine (Antonello, Berruti e altri, 1995). Diventano allora importanti i confini, i limiti, con tutto quello che significano nella relazione individuale e di gruppo.

Stiamo evidentemente cercando di rappresentarci la possibilità del cambiamento. In una situazione complessa come quella della comunità terapeutica la metafora della pelle può aiutarci a rappresentarci l’area del cambiamento attraverso un modo di realizzare la relazione, così come il guscio ci permette di rappresentarci la difesa e il sostegno dell’identità.

Sul piano clinico la funzione pelle corrisponde in termini psicologici alla funzione transizionale della terapia, che nasce dalla condivisione di una speranza, quella di un’evoluzione e di un cambiamento. Nasce quindi in una situazione di amore e di gioco, così come lo intendeva Winnicott (Gioco e realtà), su cui si basa l’alleanza terapeutica, e corrisponde a un elemento illusionale, che permette un contatto sopportabile con la realtà esterna (Zapparoli, 1992).

L’introduzione di questo elemento di speranza e di transizione ridefinisce completamente la relazione con la comunità terapeutica; anche paure e angosce si ridefiniscono sulla base di questa forma di relazione. Sul piano riabilitativo, qui si pone la questione dell’adeguata stimolazione. Come al solito, però, gli stessi aspetti che in psicoterapia assumono caratteristiche astratte e verbali, nel lavoro di comunità vanno identificati e riconosciuti nella concretezza del lavoro, e quindi, per quanto ci riguarda, nella quotidianità della comunità terapeutica come luogo di relazioni condivise, dove è riconosciuta l’identità del soggetto (le comunità terapeutiche sono piccole e tutti si conoscono), ma anche la consuetudine delle relazioni. La comunità terapeutica è un luogo di relazione all’interno e con l’esterno.

Se passiamo al significato che la funzione pelle ha per la comunità terapeutica nel suo insieme, dobbiamo osservare che questa funzione è fondamentale per ogni comunità, perché è attraverso la sua pelle che avviene il confronto con l’esterno e si mantiene l’omeostasi, essenziale per ogni essere vivente, che è qui sostenuta in un sistema aperto e non chiuso come il guscio.

Quando parliamo di omeostasi facciamo riferimento alla capacità della pelle di garantire stabilità in un ambiente variabile, e quindi di fornire il terreno fondamentale sul quale avviene lo scambio, e i cui strumenti sono poi le funzioni sensoriali della pelle stessa. Questa rappresentazione metaforica ci serve per dire che la comunità terapeutica può svolgere la stessa funzione di supporto all’ospite ed essere lo strumento con cui le emozioni e la vita mentale dell’ospite e della comunità terapeutica stessa vengono mantenute in un equilibrio dinamico e non più statico, sulla base del quale si può tentare una relazione con l’esterno, il mondo fuori, relazione sempre mediata ma meno angosciante. Questa posizione rappresenta, in una tale prospettiva, la base per l’evoluzione, e assomiglia abbastanza alla valenza relazionale dell’abitare per Marc Augé.

Siamo nell’area della funzione intermediaria (Antonello, Berruti e altri, 1995), che rappresenta uno sviluppo del modello dell’area transizionale di Winnicott (1953), un po’ croce e delizia di ogni istituzione psichiatrica: un obiettivo ideale, e quindi qualcosa su cui è tacile ingannarsi. Vuol dire però anche – e ancora una volta siamo a Winnicott (Gioco e realtà) – mettere e mettersi in gioco. Vuol dire che passioni, legami e stili di vita di tutti, operatori e ospiti, entrano in campo e diventano lo strumento principale di cura.

Essere pelle vuol dire non essere chiusi. Vuol dire lavorare per lo scambio e per l’evoluzione.

Vivere la comunità terapeutica come pelle è un modo di curare molto più vicino ai valori per i quali le comunità terapeutiche sono nate, in contrapposizione con la chiusura dell’ospedale psichiatrico. Corrisponde maggiormente anche alla richiesta della committenza, almeno quella della relazione di presentazione.

Ancora una volta vanno segnalati i pericoli a cui si espone la comunità terapeutica aperta allo scambio. Abbiamo segnalato altrove (Antonello, Berruti e Giusto, 1998) i rischi e le opportunità per una comunità terapeutica aperta piuttosto che chiusa. Qui non possiamo che ribadirli: se la comunità terapeutica deve essere una pelle che respira e scambia con l’esterno passioni e legami, i suoi valori fondamentali sono la vitalità, la flessibilità, la capacità di apertura e la possibilità di crescere e di arricchirsi al passo con il mondo circostante. Il rischio è rappresentato dal contesto culturale, «l’aria che si respira», che può decretare di fatto la morte della comunità terapeutica per semplificazione, tecnicismo e altro. Un pericolo che ci sembra, se non proprio vicino, almeno all’orizzonte. La comunità terapeutica di cui stiamo parlando rappresenta valori precisi e un sistema complesso che va rispettato, per sopravvivere restando sé stessa. Non può accettare una logica manicomiale, né scendere a compromessi con essa. Eppure porsi come pelle psichica con il proprio ospite, vuol dire inevitabilmente assumere su di sé questo conflitto.

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