Vaso di Pandora

Abitare la comunità: la comunità terapeutica come non luogo

Come già narrato, il libro “Comunità Natura, cultura… terapia” spiega dei tre modi (più uno) di vivere e di utilizzare la comunità terapeutica molto diversi tra loro. Ad ognuno di questi modi è stato dato un nome e si è cercato di costruire una descrizione adeguata del mondo emotivo e del campo che rappresentano. La forma di esposizione scelta, ha una forte connotazione metaforica in quanto si ritiene che la clinica abbia bisogno di storie, sebbene speciali. Il primo modo di cui ci occuperemo, è la comunità terapeutica come non luogo.

Che cosa è un non luogo? Dove lo incontriamo?

Questo primo modo di stare in comunità ci può aiutare a vedere come una categoria antropologica  così minacciosa e diffusa possa in realtà essere una esperienza utile, se vissuta in modo consapevole e costruttivo, anche per tutti noi, e come la comunità terapeutica non è un luogo chiuso e più o meno isolato in cui si proteggono e isolano persone che non riescono a stare nel mondo fuori, ma un caso particolare del nostro vivere insieme con cui dialogare.

Più specificamente questa parte del capitolo mostra in modo anche un po’ paradossale, che la comunità terapeutica, qualunque cosa oggi questo termine significhi (ma anche questo è un argomento che meriterebbe…) diventa un’esperienza vitale di relazione (o di non relazione) per chi viene ospitato e per chi ospita.

La comunità terapeutica come non luogo

Per quanto possa apparire strano, se seguiamo le indicazioni di Marc Augé nel chiederci un posto che luogo è, scopriremo che non sembra esserci così tanta differenza tra l’uso dei luoghi e delle persone che fa un barbone che ha freddo in città e quello che ne fa un professionista in viaggio, in un aeroporto o in autostrada. Cambia la qualità dei bisogni da soddisfare, cambiano soprattutto gli obiettivi, ma nella relazione attuale non c’è poi tutta questa differenza. Per entrambi il luogo dove sono, che è comunque provvisorio, è un luogo di non-relazione, di non-attaccamento, uguale a ogni altro luogo in grado di soddisfare gli stessi bisogni; entrambi passano per questi luoghi cercando di lasciare di sé il meno possibile di tracce.

Scopriremo anche che l’esperienza dei non-luoghi, queste occasioni di estraneità ai propri legami e alla propria storia, può essere attraente. Ci riferiamo a quella curiosa esperienza di libertà, esotismo e solitudine, nel complesso completamente fuori luogo, che offrono gli autogrill o i duty free negli aeroporti.

Tutto questo discorso significa che l’esperienza dei non-luoghi non è forse così incomprensibile o particolare. Certamente, se finisce per essere l’unica modalità di relazione la vita può diventare molto scomoda e soprattutto limitante.

Se torniamo alla clinica, dobbiamo riferirci all’area della psicosi e del rapporto della psicosi con il luogo.

La relazione dello psicotico con un luogo può essere abbastanza particolare: l’errare, inteso come vagare, è parte fondante dell’archetipo del folle, in era premanicomiale; i matti, per volere o per forza, vagavano da un paese all’altro, lungo i fiumi e le strade. La loro rappresentazione è oggi ancora presente nel matto dei taroc-chi. Fatto sta che il folle viandante fa ancora parte del nostro immaginario, ma anche della nostra esperienza quotidiana, con i barboni e tutta quella marginalità in cui si cela molta psicosi.

Su un altro piano e con altro linguaggio, hanno parlato di qualcosa di analogo, tra gli altri, e forse meglio di altri, Bion (1962b) e Zapparoli (1979), i quali hanno descritto una caratteristica del pensiero psicotico che consiste nel considerare l’altro come non vivente. Questo significa trasformare la relazione emotiva con l’oggetto in una relazione fredda e univoca. Succede con le persone e più in generale con gli oggetti significativi, e quindi anche con i luoghi dove si vive e si abita. Un esempio di questo atteggiamento può essere considerato il vagabondaggio e il barbonaggio degli psicotici, che può implicare di fatto un’utilizzazione molto abile delle diverse agenzie, dagli ospedali alle forze dell’ordine. In questi casi gli altri vengono utilizzati all’interno di una relazione da cui sono esclusi proprio gli aspetti vitali e caldi, che vengono anzi negati come parte della relazione.

Quando questo è un atteggiamento consolidato e strutturato della persona, è evidente che un’istituzione non rappresenta una proposta accettabile. Capita però anche che questo atteggiamento non sia uno stile di vita (in questo caso la permanenza in comunità terapeutica non ha senso), ma piuttosto un’esigenza difensiva specifica in un contesto relazionale meno estremo. In questi casi la richiesta specifica che l’ospite fa alla comunità terapeutica è quella di comportarsi come il pronto soccorso di un grande ospedale, un autogrill autostradale, oppure una stazione della metropolitana.

La comunità terapeutica deve comportarsi così per evitare la stimolazione che deriva dal contatto; resta, virtuale, il desiderio o il ricordo di una relazione più calda. Un tale ospite si comporterà in modo provocatorio e aggressivo se stimolato, per ridurre l’oggetto di fronte a lui nuovamente alla stregua di oggetto inanimato (Zapparoli, 1979). In questo caso però il discorso è diverso, nonostante le apparenze: la persona fa in realtà una richiesta specifica, affettiva e relazionale, ed esprime un bisogno di rispetto della propria angoscia, il cui riconoscimento è essenziale per l’apertura di una relazione.

Per una comunità terapeutica questa trasformazione non è facile, perché è contraria al suo mandato istituzionale, ed evoca i peggiori fantasmi manicomiali. In più, si ha la sensazione sgradevole di essere oggetto di un atteggiamento «predatorio» che sembra avere la caratteristica di essere senza limite temporale, ed evoca un senso di infinito poco rassicurante. Questo significa per la comunità terapeutica negarsi come residenza emotiva (Zapparoli, 1992; Antonel-1o, Berruti e altri, 1995), in definitiva diventare un «non-luogo».

Il non-luogo, così come lo descrive Augé, ha caratteristiche che possono essere attraenti per lo psicotico in vari modi, meglio se indicati in qualche modo dall’ospite stesso: a volte sarà necessaria un’enfasi particolare sul regolamento o sugli aspetti tecnici del trattamento. Altre volte, al contrario, sarà necessario permettere all’ospite di evitare la necessità del contatto che la scansione quotidiana e settimanale degli avvenimenti imporrebbe. Più in generale, lo si ottiene consentendo all’ospite di percepire la comunità meno come una casa e una famiglia, che come un’istituzione più rigida (per esempio una caserma o un ospedale). A nostro avviso, due sono i punti da sottolineare: il primo è istituzionale, e fa riferimento al conflitto di fondo interno alla comunità terapeutica: casa o ospedale? Da questo punto di vista si può sostenere che la comunità terapeutica come non-luogo enfatizza certi aspetti dell’ospedale come luogo della tecnica in cui la regressione e la dipendenza non vengono riconosciute come termini della relazione ma piuttosto come fattori utili per la prestazione tecnica (aumento della compliance). In questo senso abbiamo qualche ragione per ritenere che l’ospedale di oggi (che diventa sempre più grande e sovraterritoriale) si presti abbastanza a essere usato come un non-luogo. Il secondo punto è relazionale, e fa riferimento al concetto di oggetto inanimato di Zapparoli. La possibilità di considerare la comunità terapeutica come un non-luogo appartiene più frequentemente alla prima fase del trattamento, e si pone in alternativa alla possibilità di stabilire una residenza emotiva (Zapparoli, 1992; Antonello, Berruti e altri, 1995). Può essere molto importante per l’ospite avere inizialmente questa alternativa.

Si può dire che accettare di essere un non-luogo significa tollerare il paradosso di una non-relazione in comunità, che si realizza attraverso la possibilità di limitare al massimo le emozioni fondamentali che si mettono in gioco.

Tuttavia è proprio in questa situazione relazionale estrema che si può trovare quella funzione di «rianimazione» che la comunità terapeutica svolge spesso per gli ospiti in arrivo. Non va quindi sottovalutata la sua importanza.

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Commenti su "Abitare la comunità: la comunità terapeutica come non luogo"

  1. Concordo. Questo mi sembra un caso particolare del problema centrale generale del rapporto con lo psicotico, quello della distanza ottimale: compromesso fra bisogno del rapporto e paura di esso. Senza ignorare il peso dei bisogni del terapeuta.

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