Che cosa noi possiamo proporre?
Negli odierni servizi psichiatrici opera una generazione di professionisti che non solo non ha mai lavorato in manicomio, ma non ne ha alcuna conoscenza. Ai più anziani ed ai pochi tra i giovani che coltivano interessi per la storia della psichiatria è affidato il fondamentale ruolo non solo di testimonials culturalidella complessità dei passaggi dall’assistenza manicomiale alle declinazioni territoriali della cura ma, con le loro azioni, di promotori delle soluzioni ai nodi che qui abbiamo cercato di rappresentare.
Da parte nostra, promuovere l’evoluzione del Centro Studi in autentico servizio rivolto ad un pubblico ampio, in costante confronto di risorse ed obiettivi con le altre realtà del settore e con gli specialisti di discipline al confine con la psichiatria, è uno degli imperativi che dovranno guidare le strategie progettuali del Dipartimento di Salute Mentale negli anni a venire.
Nella realtà attuale, a parte utilizzi estemporanei del parco e la sistemazione degli archivi correnti dell’A.S.L. presso alcuni edifici, le uniche attività che si svolgono in quest’area sono quelle del Centro d’Incontro ed Attività Psicosociali “Il Germoglio”, inserite nelle funzioni del Dipartimento di Salute Mentale, e le iniziative estive avviate da alcune associazioni locali di volontariato: la rassegna di teatro La fabbrica delle idee, giunta per merito della costanza di Progetto Cantoregi alla ottava edizione, la kermesse annuale delle associazioni sportive.
Il problema di fondo è che le dimensioni della struttura, tali da andare oltre qualsiasi capacità locale di intervento, rendono estremamente difficile anche la sola individuazione di un progetto che produca una visione globale non solo del futuro del luogo, ma del futuro della città legato al luogo. La vastità dell’area, come emerge dalla planimetria, apre prospettive da vertigine: un’estensione vasta quanto l’abitato concentrico spalanca un vuoto nel suo cuore più profondo, con importanti ripercussioni sull’attuale assetto urbanistico. D’altronde, quando in una città c’è uno spazio vuoto da riempire, raggiungere l’obiettivo non è facile ed è oggetto di discussioni che si prolungano per anni: molte città del nostro Paese, a cominciare proprio da Torino, offrono situazioni per un aspetto o per l’altro paradigmatiche.
Che futuro avrà il parco, un tempo assai curato ed oggi spesso deserto e sofferente, che cosa ci sarà al posto degli squallidi edifici manicomiali? Di sicuro, un luogo mentale. Perché qualunque cosa si decida di metterci occuperà non solo lo spazio ormai vuoto nel cuore della città, ma anche quello corrispondente all’interno delle nostre teste, in analogia con il superamento del manicomio, autenticamente tale solo se avviene anche nelle nostre menti. Da sempre, i racconigesi sono abituati a girare attorno al muro di cinta dell’ex Neuro, percorrendo gli antichi borghi dei Cappuccini e di Porta Nuova (o di S. Rocco, patrono degli appestati), con la curiosità di scorgere i segnali provenienti di là, soddisfatta soltanto dai racconti dei numerosi concittadini per i quali quello era la fabbrica, il luogo di lavoro; ma anche con un certo disagio per quella presenza ingombrante, che così fortemente ha contribuito a designare il carattere recente della città, e per quei muri intrisi di una sofferenza che è necessario diluire, prima di qualunque programma di riutilizzo. Tra poco, i racconigesi potranno permettersi il lusso di attraversare l’area, e non solo per gli sporadici accessi all’arena estiva. Solo che per farlo, e bene, occorre da parte di tutti, cittadini ed amministratori, uno sforzo di immaginazione. Potrebbe cominciare ad essere sufficiente un utilizzo sano del parco. Denso com’è di alberi (circa 600, per una quarantina di specie ed essenze) giardini e di invitanti radure, con un intervento relativamente semplice di bonifica potrebbe diventare luogo ideale per mamme e bambini, area pubblica di relax – le panchine, un chiosco, un punto di distribuzione di qualcosa da leggere, magari un campo da tennis. Ma da noi le semplici aree verdi rischiano di non funzionare, esposte come sono al rischio – attuale, in verità – di diventare solo e semplice luogo di raccolta dell’emarginazione sociale. Occorre aggiungere le protezioni derivanti da una presenza istituzionale e da una dimensione culturale. Se è vero che la Racconigi del prossimo futuro ha l’intenzione di puntare una parte del suo rilancio sulla cultura, trainata dalla riscoperta della meravigliosa residenza sabauda, si potrebbero inventare atelier, spazi espositivi per artisti, luoghi visitabili, installazioni, strutture per spettacoli all’aperto, lavorando sull’identità culturale della città (l’epopea della seta, i Savoia, la funzione di servizio svolta dal manicomio) in modo da rendere l’area un valido complemento della Castello, anche in prospettiva turistica.
Un’altra tentazione, ovvia, è quella di recuperare una parte dell’area per dedicarla al ricordo di ciò che è stata. D’altronde, funziona così in tutto il mondo: appena si azzera un settore produttivo, sparisce una fabbrica – fosse anche delle idee, come la nostra – si chiude un angolo del passato e spunta un museo, in modo che i siti precedenti si trasformano repentinamente in luoghi di memoria. Nel nostro caso è necessario però evitare il rischio di cedere al fascino sinistro di un museo degli orrori, o di compiere l’operazione di ri-costruzione della memoria psichiatrica sotto il segno di una specie di necrofilica o edulcorata nostalgia, o della rievocazione apotropaica del “mostro”, finalizzata al suo – si pensa, definitivo – esorcismo. Diciamo questo nella consapevolezza che il manicomio rimane realtà immanente e facilmente riproducibile, anche se in forme rinnovate: rimane crocicchio da attraversare dentro le nostre teste e pratiche, imprescindibile lettura della scienza psichiatrica. Non si tratta semplicemente di decidere di prendere le distanze: si correrebbe il rischio di cadere nello stesso atteggiamento degli psichiatri positivisti di fine ottocento, che liquidavano come irrazionali e barbare le pratiche dei loro predecessori prima e durante l’epoca di Pinel, incapaci di percepire la violenza e l’empirismo di cui era intrisa la loro filantropica “tecnica manicomiale”, e che tuttora, occultati dalla ratio di un nuovo progetto scientifico, possono riemergere in modi rinnovati.
Ma i musei e le iniziative culturali non bastano. L’area è enorme e la sua ridestinazione d’uso significa, di fatto, ripensare il futuro di Racconigi: qualunque soluzione venisse adottata, questa inciderebbe in modo rilevante sugli assetti (urbanistici, sociali, culturali, economici, occupazionali) della città. Forse occorre pensare ad un cocktail: un terzo per migliorare la città esistente, per risarcire Racconigi che, per un secolo e mezzo, si è dovuta identificare con il luogo di segregazione della follia, della diversità e del disagio, la città dei matti buona per suscitare buffi equivoci o la facile ilarità dei paesi vicini; un terzo per sollecitare e rispondere al mercato, all’esigenza di una città più qualificata ed aperta, che non costringa i suoi abitanti ad estenuanti pendolarismi per il lavoro e per lo svago e sviluppi invece il ruolo strategico, assegnatole dalla geografia politica, di cerniera fra due province di una regione importante per il sistema Europa; un terzo, infine, per ospitare ciò che non si conosce ancora, ciò che proietterà la città nel futuro. Bisogna rovistare nelle pieghe future della storia, appena si manifestano come increspature, spiare le tendenze dei luoghi a noi più vicini e lontani. Assumere ancora una volta, come in passato, un interesse per il nuovo e verso la scoperta di orizzonti possibili: in passato furono, prima, quelli protoindustriali, con il ciclo della seta, e poi la cura della salute mentale, ed ai contemporanei sembrarono follie. In altre parole: un cocktail di idee per una nuova città, solidale, affezionata alle radici della propria identità culturale, ma intenzionata a perseguire vere prospettive di crescita economica.