Le bugie dei bambini hanno da sempre rappresentato una tematica di interesse per la psicologia infantile, soprattutto per il risvolto che possono avere nello sviluppo morale individuale.
In particolare, un autore che ha approfondito lo studio di questa tematica è stato Jean Piaget (1932), proponendosi di indagare non solo come si evolve nel tempo il concetto di bugia, ma anche il giudizio che i bambini ne danno. Per poter indagare il concetto di bugia nei bambini, lo studioso raccontava a bambini di diversa età delle storie simili, ma con esiti diversi, chiedendo poi un giudizio al bambino. Ad esempio, in una storia, un passante chiedeva delle informazioni ad un ragazzo: nel primo caso il protagonista dava intenzionalmente delle informazioni sbagliate al passante, senza però avere delle conseguenze negative; nel secondo caso invece il ragazzo dava in buona fede delle indicazioni sbagliate, che portavano però ad un esito negativo. Il bambino doveva giudicare quale situazione fosse più grave e in quale caso il ragazzo avesse avuto un comportamento sbagliato.
Lo studio di Jean Piaget sulle bugie dei bambini
Secondo le ricerche e le interviste condotte dallo studioso, i bambini più piccoli non comprendono appieno il concetto di bugia e la considerano semplicemente una “parola cattiva” o una colpa commessa attraverso il linguaggio; sarà solo intorno al terzo-quarto anno di vita che inizierà a delinearsi la concezione di bugia come affermazione falsa, tuttavia, a questa età i bambini considerano bugia anche un errore involontario. Infatti, i bambini ritenevano che anche l’informazione sbagliata data in buona fede potesse essere considerata una bugia e la giudicavano come moralmente più grave, in quanto aveva portato a delle conseguenze negative per il passante. Questo tipo di risposte, frequente nei bambini più piccoli, assume come criterio di giudizio il risultato materiale dell’azione (realismo morale). Ad un terzo livello, intorno al sesto-settimo anno di vita, si delinea invece il concetto di intenzionalità, che viene considerata come l’aspetto fondamentale della bugia.
In questo caso i bambini iniziano a considerare come più grave il gesto intenzionale del ragazzo che aveva dato l’informazione sbagliata al passante, pur non portando ad alcuna conseguenza negativa.
Gli studi di Sodian del 1991
Il tema della bugia è tornato alla ribalta più recentemente negli studi di Sodian (1991) che ha utilizzato la medesima tecnica di indagine, basata sulla narrazione di storie. In questo caso un bambino portava alla madre un disegno fatto da un compagno e si dichiarava come autore dello stesso. Nel primo caso il bambino lasciava che la madre credesse alle sue parole (condizione di imbroglio), mentre nel secondo caso il bambino, scherzando, indicava il reale autore del disegno (condizione di scherzo).
Questa ricerca riprende sostanzialmente quanto già evidenziato da Piaget: i bambini più piccoli non sapevano distinguere la bugia dallo scherzo e non riuscivano a dare un appropriato giudizio morale, mentre tali capacità sono presenti in misura sempre maggiore a partire dal sesto-settimo anno di vita del bambino. Queste ricerche successive hanno integrato quindi le prime scoperte sulle bugie infantili, mostrando come la competenza pratica preceda molto spesso quella concettuale: i bambini sono infatti in grado di dire le bugie anche da molto piccoli, ma solamente più tardi ne riusciranno realmente a comprendere la natura.
Complimenti Silvia. Articolo interessante. Mi chiedevo l’origine di cambio di paradigma dalla bugia analogica “buona” organica, legittima, funzionale, al processo in atto delle bugie digitali , fake news trasversali per età e per sensi ( mentono le immagini, le parole, gli odori ecc.) . Grazie, Luca