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Adolescence: un viaggio incompleto nella mente degli adolescenti

La serie Netflix Adolescence, diretta da Philip Barantini, cerca di esplorare le dinamiche dell’adolescenza ma sembra non riuscire del tutto nel suo intento e lascia lo spettatore sospeso e insoddisfatto. Il lungo piano sequenza, già visto in Birdman, è un ottimo esercizio di stile, crea tensione e ci mette a fianco dei personaggi ma non è sufficiente a rendere la serie un’opera di formazione. 

Manca una vera immersione nei pensieri dei ragazzi: l’adolescenza non riguarda soltanto un periodo di transizione e ribellione declinata in salsa social, così come può sembrare se ci limitiamo alla superfice della serie.

Temi accennati e non trattati

Come se non sapessimo già che i ragazzi usano Instagram, TikTok e Snapchat, spesso con linguaggi in codice, la regia pecca di considerazione dello spettatore, relegandolo alla posizione di boomer. Non basta dire Emoji per farci calare nel mondo dei ragazzi e comprenderne il simbolismo. Anzi, le dinamiche adolescenziali rimangono talmente inespresse che si consolida la posizione e l’identificazione con un corpo docente inerme, manchevole di reale introspezione della complessa materia che dovrebbero analizzare per plasmare al meglio. 

La violenza scolastica resta grandemente impunita, rafforzando la coazione a ripetere. Anche la presenza in aula di un padre poliziotto non ferma gli atti di scherno nei confronti di suo figlio. Sentimento condiviso dal padre del protagonista, ferito, rotto, annientato e sconvolto da una realtà che si è frantumata davanti ai suoi occhi in una burrascosa mattina.

La psiche adolescenziale: un territorio inesplorato

Un chiaro esempio delle lacune della serie “Adolescence” si riscontra nell’episodio centrato sul colloquio tra Jamie e la terapeuta. Sono evidenziati solo frammentariamente i tratti della personalità del ragazzo: oscillazioni tra comportamenti positivi e scatti di aggressività, mascolinità scimmiottata e maschilismo. Tuttavia non è consentito al pubblico di penetrare nei suoi pensieri per comprendere le origini del suo disagio. 

Viene citato il fenomeno “manosphere” e la cultura “incel” con un approccio che, pur evocativo, rimane solo parzialmente esplorativo, lasciando all’audience tecnica il compito di approfondire. 

La figura di Andrew Tate, ex kickboxer e autoproclamato “re della mascolinità tossica“, diventa un simbolo della radicalizzazione digitale che coinvolge adolescenti isolati e vulnerabili. La serie mostra come ideologie misogine e concetti come il “red pill” o la regola dell’80-20, tipici di questa sottocultura, possano influenzare giovani in cerca di risposte alle loro insicurezze, tuttavia, anche in questo caso, restano solamente foglie sulla superficie dell’acqua.

Le troppe domande lasciate in sospeso in “Adolescence”

La serie sollevava interrogativi cruciali senza offrire alcuna risposta o chiave di lettura. Quale era la reale dinamica degli eventi? Quanto hanno inciso i social media nella commissione dei crimini? E soprattutto, sono sufficienti a comprendere gli agiti? Questi vuoti nella narrazione rendono difficile cogliere l’immagine psicologica e sociale nel suo complesso. 

Erik Erikson diceva che l’adolescenza è il momento in cui gli individui affrontano il conflitto tra identità e confusione di ruolo, e una serie che vuole raccontarla deve immergersi nei conflitti interiori dei ragazzi, senza paura di sembrare didascalico. Così facendo, avrebbe potuto offrire un contributo importante non solo agli adolescenti, ma anche ai genitori e ai professionisti che lavorano con loro.

Invece, ciò che rimane è una narrazione visivamente interessante ma emotivamente incompleta, che lascia lo spettatore con la sensazione di aver assistito a qualcosa che poteva essere grande, ma che non ha mai trovato il coraggio di andare fino in fondo.

Oppure, la genialità registica è stata proprio quella di lanciare un sasso nello stagno, rompere la quiete e portarci qui ad approfondire il sottobosco delle dinamiche adolescenziali. 

Lascia a voi la prosecuzione…

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Commenti su "Adolescence: un viaggio incompleto nella mente degli adolescenti"

  1. Sono d’accordo con l’autore: anche io riflettendo sulla serie ho sentito il bisogno di approfondire un aspetto che veniva solo accennato, ovvero quello della teoria incel. Mi sono reso conto confrontandomi con chi ha guardato la serie che parecchi temi sono rimasti inespressi oppure sono stati accennati così fugacemente che le persone non si sono rese conto di che cosa ci potesse esser dietro le azioni del giovane protagonista. Aggiungo inoltre che la parte del colloquio valutativo con la psicologa mi è sembrata molto forzata e poco approfondita, con modalità anche abbastanza discutibili. Chiaramente nessuno si aspettava un docufilm su come si svolge una CTU o una CTP, tuttavia come giustamente dice l’autore è mancata quell’occasione per approfondire i contenuti al di là della manifestazione comportamentale.

    Rispondi
    • È davvero un piacere trovare questa comunione di opinioni e interessi, dalla quale annunciamo in anteprima che, con Giuseppe, stiamo organizzando un corso FAD a Maggio proprio per approfondire queste tematiche. Parleremo di Incel, Redpill, social network e nuove tecnologie.

      Rispondi
  2. Questa serie , come altre in passato, ripenso a 13, o al più recente film”il ragazzo dai pantaloni rosa” , generano, a mio modo di vedere, ancora più nebbia nell’immaginario di adolescenti e genitori. Nello specifico, il ruolo della madre del ragazzo (figura femminile) che non ha “quasi voce”, uno stereotipo antico della coppia di genitori che “pensano di aver fatto tutte le cose per bene” con il loro figlio.
    Nel silenzio del ragazzo, ci vedo non soltanto chiusura..ma anche paura di giudizio, di non deludere e di non sgretolare l’immagine dei genitori.
    Molto spesso sento adolescenti che non riescono a parlare con i genitori per timore di ferirli.
    In un ultimo, personalmente, non sempre hanno la funzione di prevenzione su possibili fragilità dei ragazzi, ma iperboli di allarme e paura, che chiudono ancora di più famiglie e ragazzi.
    La co-comunicazione tra ragazzi e adulti, conoscere insieme la rete, le emozioni, la chiarificazione di situazioni e sentimenti, eliminerebbe quel” non detto” che spaventa e rende soli.
    L’adolescenza viene trasformata, e mi preoccupa, come una patologia non come una normale fase fisologica di crescita, della quale non si può, passatemi il termine “patologizzare” tutto.
    Grazie riflettero’ ancora su questo.
    Carola Battaglia
    CTR Il Porto di Attracco

    Rispondi
    • Carola, sono completamente d’accordo con te: Adolescence finisce davvero per mettere solo fumo negli occhi. Quel ruolo quasi muto della madre ribadisce uno stereotipo vecchio, di genitori convinti di aver fatto tutto “per bene” ma che in realtà non sanno ascoltare.

      Il silenzio del protagonista non è solo chiusura, ma paura di deludere, timore di giudizio: moltissimi adolescenti non parlano con i genitori per non ferirli. E poi l’iperbole dell’allarme costante non aiuta a prevenire davvero fragilità, anzi rinforza ansia e senso di solitudine. Pensiamo al fenomeno Blue Whales.

      Questa serie è manchevole della rappresentazione della comunicazione autentica, genitori e ragazzi che esplorano insieme emozioni e sentimenti senza censure, così da sciogliere il “non detto” e provare a capire come vivere l’adolescenza per quello che è: una fase di crescita, non una malattia.

      Grazie per aver portato l’attenzione su questi punti.

      Rispondi

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