Vi ho incontrate per parlare del mio ultimo romanzo, “Vite attese”. Avete accettato la proposta di R., volontaria, di quelle che ci credono, di dedicare il vostro gruppo lettura al mio scritto. Molte di voi, mi hanno letta e questo mi emoziona, sempre.
In una mattina di gennaio, in una stanza del reparto femminile di un carcere, avete posizionato le sedie a formare un cerchio e a me avete destinato la più comoda, il trono l’avete chiamata.
Ho scritto carcere, sì, e non casa di reclusione come sarebbe stato corretto, casa di reclusione: due parole che per me mal si accostano.
Perché ho presentato “Vite attese” in carcere
Il tempo di presentarmi, di raccontare un po’ del libro e un primo attacco e poi subito un altro: come si fa a proporre un libro con così tanta sofferenza, qui dentro? Ma come le è venuto in mente di farci leggere di una che tenta di farsi fuori, a noi, che siamo qua? E poi, diciamocelo, la protagonista del suo libro, ma che razza di terapeuta è!? Quella sta male più di quelli che dovrebbe curare. Siete tutte così: più folli dei folli.
Vi ringrazio per questo attacco. Perché dietro a ogni pregiudizio, c’è la difficoltà di avvicinare; dietro a un pensiero così superficiale e stereotipato, c’è la paura di farsi toccare da un incontro. Vi ho risposto che molti fuori, pensano di voi che siete solo delle delinquenti, che quando dite di soffrire, in realtà tentate unicamente di ottenere qualcosa. Manipolatrici. Che anche a me era capitato di pensarlo, prima di entrare qui dentro e prima di vedere le vostre facce, d’incontrare i vostri sguardi, di ascoltare le vostre parole, di sentire i rumori con cui, ogni giorno, siete costrette ad avere a che fare, prima di conoscervi.
Vi ringrazio per questo attacco, perché ci ha permesso di incontrarci.
Il desiderio di maternità delle detenute
Claudia, la protagonista del romanzo, vorrebbe un figlio, e per questo desiderio è pronta a tutto. Ma non riesce, perché piena di un dolore antico, che non le permette di fare spazio. Due di voi hanno vissuto qualcosa di simile: M., mi hai detto di aver deciso di adottare, mi sono chiesta perché cavolo questa Claudia non ha adottato un figlio, lei che ha più strumenti di quelli che avevo io, quando mi sono decisa a prendere in affidamento un bambino. E sa, poi ne ho avuto uno mio, che mi somiglia meno dell’altro. E poi tu, D., che mi hai raccontato che per un problema di salute, a 17 anni, ti hanno detto che non avresti mai avuto un figlio. Ne hai avuti tre, grazie alla fede. Una è piccolina e viene a trovarti, e somiglia al padre, anche negli atteggiamenti, senza che lo abbia mai conosciuto. In totale sono cinque figli, fuori. Voi dentro e loro fuori. Sento una fitta di dolore, non so se allo stomaco, non mi fa respirare.
S. ha preso nota di alcune frasi, una in particolare, vuole che le spieghi meglio, a pag. 60 legge: Ho fortemente voluto che le porte della clinica si aprissero per coinvolgere chi pensa di non c’entrare con ciò che fa stare male, come se il dolore mentale fosse solo di chi ce l’ha. Senza mai pensare che chi ne soffre, lo fa anche per gli altri. Inconsapevolmente, porta il peso per tutti.
Il rapporto con le famiglie
Vi ho parlato del mio lavoro in comunità, dei gruppi multifamiliari, che in una famiglia, se qualcuno sta male, tutti devono essere coinvolti nel processo di cura. Perché tutti c’entrano, anche chi c’era prima: siamo stati figli, prima di essere genitori. E lo sono stati anche i nostri genitori, figli. Pesi che si passano da una generazione all’altra. Finché qualcuno, con tutto il dolore che ne deriva, si ammala e crea l’opportunità di fermarsi per cercare di comprendere cosa non va e cosa non è andato.
Mi avete parlato dei vostri pesi, delle vostre famiglie, delle vostre sofferenze. Che anche un reato è come una crisi, che può avvenire per dolore, per esasperazione, perché si sta male. E che questo non significa non volersi prendere la responsabilità di ciò che si è fatto.
Vi ho chiesto se in carcere sono previsti momenti di riflessione che coinvolgono anche i familiari, se si viene aiutati a comprendere anche con loro cosa è accaduto. Niente, mi avete risposto. Loro vengono soltanto a trovarci, nei casi più fortunati.
Ed è a questo punto che tu, R., mi hai detto che ogni volta che parlavi del mio romanzo, sbagliavi il titolo, Vite sospese e non Vite attese. E non a caso. Perché quando hai letto il libro, hai rivissuto cose tue, perché quando non riuscivi ad avere un figlio e lo volevi, ti è sembrato di aver messo in sospeso la vita.
Da vite attese a vite sospese
Lo stesso mi dite di voi, qua dentro. Sono vite sospese, le nostre. Perché ci sono poche risorse di cura, di dialogo, di ascolto. Perché l’ascolto qua dentro, muove diffidenza. Si fatica ad affidarsi, quando non si capisce se quello che si dirà, verrà utilizzato per decidere quello che sarà.
Abbiamo fatto merenda insieme, abbiamo iniziato a darci del tu. Mi avete fatto un regalo che producete voi. L’avete incartato con la copertina del periodico di informazione delle detenute e dei detenuti. Quanta cura che avete avuto, vi ringrazio molto.
Spero che da sospese, le vostre vite possano riprendere il loro corso. Mi auguro che dal luogo in cui vi ho conosciuto possiate prendere qualcosa di buono, oltre a sentire che vi ha tolto tutto. Mi auguro che quella vita che tanto attendete, possiate viverla presto. Prendetevi cura di voi come avete fatto con me e con il mio romanzo e vi auguro di raccogliere molte, moltissime, margherite bianche.
Il racconto di Silvia su “Vite attese” e il suo incontro con le detenute è toccante e offre una prospettiva rara sulla realtà carceraria, spesso dimenticata o stereotipata. Come psichiatra, non posso che riflettere sull’importanza del dialogo e dell’ascolto in contesti così complessi, dove la sofferenza si intreccia con il desiderio di riscatto e la difficoltà di trovare un senso al proprio vissuto.
Le vite delle detenute, descritte come “sospese”, evidenziano una condizione di limbo esistenziale che non riguarda solo la privazione della libertà fisica, ma anche quella emotiva e relazionale.
Il tema del desiderio di maternità, così centrale nel romanzo e nelle esperienze condivise dalle detenute, è emblematico della complessità delle emozioni umane. La maternità non è solo un fatto biologico, ma un simbolo di speranza, continuità e possibilità di cambiamento. Eppure, per molte donne in carcere, questo desiderio si scontra con la realtà della separazione dai figli e con il senso di colpa che ne deriva. È un dolore che meriterebbe maggiore attenzione da parte delle istituzioni e degli operatori.
Infine, l’idea che il dolore mentale non sia mai solo individuale, ma porti con sé il peso delle relazioni e delle generazioni precedenti, è una verità profonda che emerge anche nel lavoro clinico. Le sofferenze delle detenute non sono isolate: sono intrecciate con le storie familiari, con traumi irrisolti e con dinamiche sociali spesso invisibili. Dare spazio a queste narrazioni significa offrire una possibilità di comprensione e forse anche di guarigione.