Punto di partenza del nostro operato furono le considerazioni di Domenico Luciani, direttore della Fondazione Benetton Studi e Ricerche, che, nell’annunciare i risultati dell’inchiesta condotta sui manicomi italiani alla metà degli anni novanta, esponeva convinzioni che ci sentivamo di condividere:
“Gli ospedali psichiatrici (manufatti, spazi, siti) sono, a tutta evidenza, beni culturali ambientali. Una minoranza, una piccola minoranza (operatori, psichiatri, pazienti), conosce da vicino (da dentro) la storia dell’istituzione e le vicende umane che hanno abitato questi siti. Questa piccola minoranza ha ancora un ruolo di protagonista nella terza riforma. Non si può infatti affermare che nelle strutture politiche e gestionali responsabili, così come nel senso comune, vi sia adeguata consapevolezza del valore di memoria (sedimento e testimonianza storica) contenuto in questi luoghi. Essi rappresentano ancora oggi qualcosa d’altro dalle città in cui sono stati istituiti; i rapporti con le più ampie comunità esterne sono come sospesi. All’interno non c’è stata e non c’è (da parte di chi ha operato e vissuto la sperimentazione degli ultimi vent’anni) sensibilità adeguata per le cose, per i manufatti, per i giardini, per gli spazi aperti. Non c’è stata e non c’è cura convinta dei patrimoni culturali (ambientali, artistici, archivistici, biblioteconomici, museali) che pure in quei luoghi sono contenuti. Nell’inchiesta che stiamo svolgendo, almeno il 50 per cento dei casi, ci assicurano della presenza dei beni documentari e librari, più del 70 per cento ci segnalano spazi aperti di pregio (parchi, giardini, aziende agrarie e/o villaggi di lavoro). All’esterno non c’è stata, e non c’è, un’iniziativa adeguata. Questi luoghi non sono entrati nel catalogo dei beni meritevoli di impegno pubblico per la salvaguardia e la valorizzazione”[2].
Appena conclusa la fase progettuale che riguardava la sistemazione alternativa degli ex degenti, raccogliemmo gli stimoli provenienti da questa riflessione, rivolgendo la nostra attenzione ai beni archivistici ed agli oggetti così come essi emergevano dagli spazi svuotati di ogni precedente umana presenza. La prima iniziativa riguardò l’allestimento di una mostra fotografica che ritraeva quei luoghi ora deserti, e che prese il titolo La fine del Titanic, ad indicare nello stesso tempo l’immersione dei suoi autori nel ventre del “residuo manicomiale”, termine utilizzato dagli atti legislativi dell’epoca, ed una similitudine tra il gioiello della tecnica di Belle Epoque e l’istituzione psichiatrica, ingigantita nell’arco di quello stessa fase storica di splendore della ragione[3].Il programma della mostra esprimeva l’intenzione principale dei suoi autori: evitare di porsi come spettatori commossi o critici spietati della fine di questa nave. Perciò le immagini che ritraevano lo stato attuale dell’area furono associate ai versi di poeti che conobbero il manicomio sulla loro pelle, come Pound, Campana, Merini, Brodskij, Sexton, oppure, come Achmatova, Celan, Cvetaeva, Rosselli, soffrirono gravi problemi di salute psichica, o, infine, come Pessoa, flirtarono a lungo con le stravaganze della follia. Attraverso la scelta di una conversazione con i poeti, ora sommessa, ora ironica, divertita o malinconica, come curatori della mostra intendemmo diluire l’atmosfera di dolore di cui ancora oggi sono intrisi gli edifici ed il parco, nella convinzione che solo i linguaggi che nascono da atti creativi siano portatori di nuove risposte originali, inedite, inconsuete, ma ancorate alla realtà, nelle quali il dolore si acquieta e si ritira sullo sfondo. La stessa convinzione che coniugava obiettivi di riabilitazione psichiatrica e di promozione culturale attraverso un insieme di iniziative riunite sotto il titolo “La fabbrica delle idee”, al cui interno dedicavamo un ruolo preminente alla istituzione di un Centro Studi focalizzato sui rapporti tra la psichiatria e le discipline storiche, antropologiche, giuridiche, artistiche, anche allo scopo di proporre il possibile avvio di un progetto di riutilizzo dell’area ex ospedale psichiatrico.
Il Centro Studi mosse dalla volontà di rendere concreto un auspicio da molti condiviso: il riordinamento e la valorizzazione delle fonti documentarie relative all’ex ospedale psichiatrico, di notevole interesse storico ma penalizzate dalla conservazione presso un ente che, avendo finalità di tutt’altra natura, e sottoposto alla pressione dell’urgenza di altri provvedimenti di carattere gestionale, incontrava gravi difficoltà ad occuparsene. Il rischio di dispersione riguardava la biblioteca scientifica, dove non mancano edizioni rare, prime edizioni di particolare pregio e presenze per nulla ovvie e scontate, al momento almeno del loro ingresso, l’archivio delle cartelle cliniche, fino ad allora meticolosamente custodite dalla prima all’ultima, i registri dei ricoveri, degli interventi di psicochirurgia, delle delibere, i fascicoli del personale e gli atti di natura amministrativa, gli arredi e le apparecchiature sanitarie, il mobilio spesso pregiato degli uffici.