Vaso di Pandora

Riflessioni sul femminicidio

In un recente numero de “Il Vaso di Pandora” Andrea Narracci, prendendo spunto da una trasmissione televisiva dedicata al “caso Delfino”, ha esposto alcune condivisibili riflessioni sulla narrazione corrente riguardante il cosiddetto “femminicidio”. In queste brevi note vorrei riprendere alcuni dei concetti espressi da Narracci, per cercare di allargare ulteriormente l’orizzonte riguardante questi temi.

La semplificazione da parte dei media

Bisogna riconoscere in via preliminare una certa tendenza, soprattutto da parte dei mass media, a semplificare fenomeni complessi (come  sono i femminicidi) con spiegazioni “generiche” inerenti ora l’omicida  (il “raptus”, un momento di “follia”)  ora aspetti socio-culturali (il “machismo” che ritiene la donna un “possesso”) che spesso fanno solo da sfondo a queste vicende; appare chiaro che in realtà stiano parlando di fenomeni plurideterminati, che come tali  meriterebbero certamente analisi più approfondite.

Intendo dire che accomunare fenomeni differenti sulla base unicamente di aspetti comportamentali (in questo caso l’omicidio di una donna) richiederebbe come minimo un accordo sulla definizione del fenomeno in questione (parliamo dell’uccisione  di qualsiasi donna?, solo di quelle compiute dal partner o ex partner? , da qualsiasi aggressore? etc) e soprattutto non rende evidentemente giustizia alla estrema varietà delle storie, dei percorsi personali ed in alcuni casi delle derive patologiche che sottendono a questi fenomeni. In questo senso sarebbe più appropriato parlare di diversi tipi di “femminicidio”, escludendo la possibilità che possa esserci una sola tipologia di tale  fenomeno.

La psicologia della vittima

Per esempio, come giustamente sottolinea Narracci nel suo articolo, tutti questi aspetti riguardano certo la psicologia dell’“l’omicida”, ma anche quella della “vittima”, il tipo di legame che li unisce e il ruolo di tutte le altre figure significative che completano la “scena del crimine”. D’altro canto di fronte a episodi di perseverante e talvolta inaudita violenza è difficile non pensare che esistano alla base di questi fenomeni motivazioni più profonde di semplici condizionamenti culturali.

Per cercare di comprendere, in un’ottica  clinica, questi avvenimenti appare quindi opportuno allargare l’orizzonte spostando l’attenzione dal “raptus” (concetto che per altro non trova spazio in nessun trattato di psicopatologia) alla vittima e a tutte le persone che a qualche titolo ruotano intorno a queste storie, cercando di ricostruire quindi scenari più ampi.

Il femminicidio di Giulia Cecchettin

Negli stessi giorni in cui è apparso l’articolo di Narracci hanno trovato spazio sui mass media ampi stralci dell’interrogatorio di Filippo Turetta alla prima udienza del procedimento a suo carico presso il Tribunale di Venezia per l’omicidio di Giulia Cecchettin. Si tratta come è noto di un recente femminicidio che per la sua efferatezza, per le caratteristiche dell’omicida e per l’atteggiamento composto dei familiari della vittima ha avuto ampia risonanza nei mesi scorsi nell’opinione pubblica.

Penso in particolare che abbia colpito il fatto che Turetta non corrisponda al prototipo del “mostro”, del “folle” e neppure della persona emarginata cresciuta in un contesto socioeconomico sfavorevole o violento. Viene piuttosto descritto come un normale giovane di 23 anni, di buona famiglia, senza precedenti antisociali: come si dice il “ragazzo della porta accanto”. Che un ragazzo apparentemente “normale” possa uccidere la fidanzata con 75 coltellate sembra mettere in discussione molti preconcetti e obbliga tutti a riflettere su concetti come “normalità” e “follia”. 

Le affermazioni di Filippo Turetta

Appare utile per il nostro ragionamento, pur nella frammentarietà delle informazioni riportate sui quotidiani o nella rete, riportare alcune delle affermazioni espresse da Turetta durante l’interrogatorio in aula; innanzi tutto è opportuno sottolineare che lo stesso afferma ad inizio interrogatorio, pur avendo già presentato una memoria difensiva, di “voler raccontare tutto quello che è successo” con intento “liberatorio”; Afferma di aver voluto uccidere Giulia perché “non voleva tornare con lui e per questo (lui) provava risentimento, rabbia, non lo so…”.   Esprime tutta l’ambivalenza del suo stato d’animo al momento del fatto dicendo che in questo ultimo appuntamento era sua intenzione “stare ancora un po’ insieme e farle del male..”, in una sorta di tragica fusione tra sentimenti di odio ed amore.

La relazione tra Giulia e Filippo sfociata in femminicidio

È utile ricordare che nella storia della loro relazione non si fa menzione di tradimenti, gelosia o di altre relazioni sentimentali; all’apparenza ci sarebbe solo l’incapacità di Turetta di accettare l’interruzione del rapporto con Giulia, la quale afferma di non sopportare più una relazione così esclusiva, soffocante e vorrebbe trasferirsi per studiare in altra città. Quando all’imputato viene contestata la premeditazione, che sembrerebbe confermata dagli oggetti trovati nella sua auto (coltelli, scotch, forbici, teli, etc) e dai siti della rete da lui visitati i giorni prima dell’omicidio, Turetta riconosce di aver preparato una lista di oggetti utili per il suo intento criminale e che “ipotizzare questa lista lo tranquillizzava…”; incalzato dall’accusa riconosce di essere stato “troppo dipendente, ossessivo nei confronti della ragazza…. 

Lei era meravigliosa, splendida veramente e tante altre cose belle”. Durante tutto l’interrogatorio Turetta non nomina mai Giulia per nome; a tal proposito dice: “alcune volte la nomino, altre non riesco. Non so perché, non ce la faccio proprio”. Non è dato di capire dalle parole di Turetta che cosa pensasse realmente Giulia e per quale motivo abbia accettato un ultimo incontro; è possibile immaginare che ci fosse in lei il desiderio di spiegare a Filippo per un’ultima volta i motivi della sua scelta, cercando di fargli accettare con ragionevolezza ciò che Filippo non voleva o forse non poteva accettare. Di certo la sua scelta si rivelerà fatale.

L’Otello di Shakespeare

Queste affermazioni mi hanno fatto tornare in mente la vicenda di un altro “femminicida” molto famoso: l’Otello di W. Shakespeare. La vicenda di Otello penso sia talmente nota che non necessiti di essere ricordata.  Come tutti i capolavori artistici anche la tragedia di Otello ci sconvolge  obbligandoci a confrontarci le sue (e le nostre…) passioni e ci lascia in sospeso tra molti possibili chiavi di lettura.

Solitamente la storia di Otello viene considerata il prototipo del delitto passionale, un caso di gelosia patologica in cui  l’incapacità  di tollerare l’onta di  un tradimento e la difficoltà a gestire  la propria frustrazione e la rabbia portano il protagonista ad uccidere; Esiste però a mio avviso una ulteriore chiave di lettura, forse meno evidente, che può aiutarci a definire meglio il “femminicidio” di Otello.  In un passo della tragedia, dopo che Otello si è convinto del tradimento di Desdemona, parlando tra sé e sé dice:

“Mi avesse voluto il cielo provare

Con ogni specie di tribolazioni,

rovesciandomi sulla nuda testa

ogni sorta di piaghe ed ignominie

m’avessero affossato nel bisogno

fino al collo e rinchiuso in una cella

insieme con l’estreme mie speranze,

sarei pur riuscito a rinvenire

in qualche ascoso lembo del mio essere

ancora un filo di rassegnazione;

Ma proprio là dov’ ho ammassato il cuore

Come un granaio, su cui debbo vivere

Se voglio sopportar ancora la vita;

là dov’è la sorgente onde il mio fiume

si deve alimentare o si dissecca,

esserne discacciato

o rimanervi come dentro un pozzo

in cui s’annidano a prolificare

schifosi, immondi rospi…..”

Il femminicidio di Desdemona

In questo passo  comprendiamo che per Otello Desdemona non è solo la persona amata, non è solo la “sgualdrina” che l’ha tradito, ma è anche una sorta di “funzione” descritta in maniera metaforica come un “granaio” dove trova nutrimento, una sorgente dove assetare la sua anima che altrimenti si  “disseca” ; Otello sembrerebbe avere bisogno di questo “luogo” per permettere alla sua anima di vivere e “sopportare la vita” fatta di “tribolazioni”; Otello quindi comandante severo, guerriero sanguinario e crudele nella vita pubblica, sembrerebbe aver posto in  Desdemona (figura idealizzata) in maniera proiettiva le fonti vitali della sua anima, tutto ciò che gli permette di sentirsi vivo e lo mette in condizioni di tollerare una vita di “tribolazioni”.

Il narcisismo patologico e il femminicidio

In questa ottica Desdemona non sembrerebbe più essere una persona in carne e ossa ma il “contenitore” di aspetti del sé di Otello in un legame che, in una ottica psicodinamica, potremmo definire di narcisistico patologico. Rinunciare a Desdemona vorrebbe dire rinunciare non ad una persona in carne e ossa ma ad una parte di sé (per altro la sua parte migliore…) dove sembra trovar spazio in maniera simbolica la sorgente vitale che dà nutrimento alla sua anima. In questa ottica il tradimento di Desdemona non è solo un’offesa per l’amor proprio di Otello, ma diventa una profonda ferita narcisistica; il solo pensiero del tradimento “inquina” definitivamente questa sorgente trasformandola in un “pozzo schifoso abitato di orrendi rospi”. Anche Otello, che ha già deciso di verdicarsi con l’amata (premeditazione…?), esprime nell’atto di uccidere Desdemona tutta l’ambivalenza di passioni che lo attraversano:

Sii cosi quando sei morta

E io t’uccido, e seguito ad amarti.

Un altro (bacio) e questo è l’ultimo

ma sì fatale fu tanta dolcezza

(la bacia ancora)

Non è certo un “raptus” che spinge Otello ad uccidere l’amata, ma il doloroso epilogo del suo travaglio passionale. La morte di Desdemona non è solo la “giusta” vendetta e neppure la fine della loro relazione   ma forse l’unica soluzione per protrarre il loro legame patologico “congelando” simbolicamente per sempre l’amata nel suo ruolo (sii cosi quando sei morta..), continuando a far  convivere in Otello passioni antitetiche (io t’uccido e seguito ad amarti)

La rappresentazione del 1887 di Giuseppe Verdi

Nel 1887 Giuseppe Verdi mette in scena al teatro alla Scala di Milano “Otello” su libretto di Arrigo Boito ispirato alla omonima tragedia di Shakespeare. Il monologo di Otello sopra citato nel libretto di Boito per esigenze sceniche viene ridotto di lunghezza, ma in esso se possibile il ruolo di Desdemona come proiezione di parti scisse di Otello viene ulteriormente enfatizzato:

Ma o pianto, o duol! M’han rapito il miraggio

Dov’io giulivo, l’anima acqueto.

Spento è quel sol, quel sorriso, quel raggio

Che mi fa vivo, che mi fa lieto!

La forza evocativa della musica

Verdi da par suo arricchisce questo passaggio con la forza evocativa della musica che nella prima parte descrive le tribolazioni dell’animo di Otello con gruppi di quartine progressivamente discendenti verso toni cupi (verso l’abisso) affidate agli strumenti più gravi dell’orchestra (violoncelli, bassi e fagotti) che quasi simulano l’affanno del povero Moro di Venezia;  quando però si passa alla figura di Desdemona gli “affanni” scompaiono e l’orchestra intona con un passaggio mirabile  una melodia “solare”  (Spento è quel sol…)  in direzione ascendente (quel raggio che mi fa vivo…) salvo ricadere poco dopo nella disperazione più cupa.

Di fronte ai tormenti di Otello Desdemona cosa fa..? Desdemona “la perfezione in carne ed ossa” come la definisce Cassio non fa molto  per evitare la tragedia; certo rigetta sdegnata le accuse di Otello, proclama a gran voce la sua innocenza, si confida con Emilia  (sua dama di compagnia e moglie di Iago) cercandone conforto ma  continua, fedele al suo ruolo di sposa idealizzata, ad essere come “lui la vuole”, innamorata di un amore puro e assoluto, convinta che questo basti per risolvere tutto. Arriva a negare anche a sè stessa la possibilità per una donna di provare desideri sessuali; infatti con apparente ingenuità chiede ad Emilia:

Emilia credi tu in coscienza

Che al mondo veramente ci sian donne

Capaci d’ingannare i loro mariti

In cosi sconcia e volgare maniera?                        

Sarà Emilia (moglie di Iago e sua dama di compagnia) a ricordarle, con un esemplare sorta di test di realtà che:

Sappiano i mariti che le mogli

hanno gli stessi sensi come loro

che come loro hanno occhi per vedere,

naso per odorare, ed un palato

per distinguere il dolce dall’amaro

Ma non abbiamo noi gli stessi impulsi,

lo stesso desiderio di svagarci

la stessa umana lor fragilità?

La visione idealizzata dell’amore

Le parole di Emilia cercano di spingere Desdemona ad abbandonare questa visione idealizzata dell’amore (e di sé), visione quasi angelica, priva di desideri e quindi priva di corporeità, per cercare di riportarla, come donna e come persona, nel mondo reale fatto di passioni e desideri quindi anche di corpi.

Desdemona però sembra non capire i commenti di Emilia; avverte il pericolo rappresentato dalla rabbia montante di Otello, lo legge nei suoi occhi, dice di “sentirlo” (cfr. atto quinto scena II) ma in realtà non fa nulla per evitarlo.  Non reagisce, non chiede davvero aiuto, non cerca una via di fuga; ignora i segnali di pericolo (evidenti a noi lettori…) ma si immola come un agnello sacrificale, sottostando sino all’ultimo ai desideri del suo “signore” e la tragedia si compie.

La vicenda di Otello e l’opera di Verdi ci permettono di comprendere con la forza suggestiva del racconto sentieri che possono condurre ad alcuni tipi di femminicidio. L’incapacità di tollerare la separazione, l’orgoglio dell’omicida ferito dal tradimento (o dall’idea del tradimento), la visione dell’amata come proprio “possesso”, ma anche la profonda ferita narcisistica figlia di una relazione patologia che unisce carnefice e vittima in un legame di reciproca dipendenza che sembra escludere la possibilità di una separazione a cui viene preferita la morte. 

Conclusioni sul femminicidio

In conclusione penso che tutti coloro che a qualsiasi titolo siano interessati a questi temi debbano evitare semplificazioni o rassicuranti riduzionismi, ma debbano essere consapevoli della complessità di questi fenomeni; a maggior ragione in una ottica clinica   chi opera nel campo della Salute Mentale dovrebbe essere maggiormente motivato a comprendere tale complessità e chiedersi come e quando sia possibile mettere in campo specifici interventi.

La storia di Otello sopra brevemente ricordata può aiutarci, attraverso la forza evocativa del racconto, ad immedesimarci nei personaggi di quella tragedia, aiutandoci a capire i loro vissuti e le loro motivazioni. Tutto questo, come abbiamo cercato di spiegare, può anche illuminare con interessanti similitudini anche recenti fatti di cronaca.

Certo tutto ciò non ci permette di dire di essere in grado di comprendere ogni tipo di femminicidio; appare chiaro che possano esistere molte altre cause che possono sottendere a situazioni analoghe.  Solo proseguendo nello studio approfondito del fenomeno possiamo pensare di affinare la nostra capacità di comprensione di eventi complessi, per cercare in ogni singolo caso di ricostruire la trama delle peculiarità che lo differenziano da casi apparentemente simili.  Su questa base è possibile scongiurare il rischio di interventi generici ed aspecifici e cercare di mettere in campo azioni mirate di prevenzione e di terapia.

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Commenti su "Riflessioni sul femminicidio"

  1. Condivido pienamente ( mi pare di averne già parlato) l’invito a definire meglio il concetto di femminicidio, restringendolo all’uccisione della partner o ex partner che attui o minacci abbandono o infedeltà: se le motivazioni sono altre (rapina? vendetta per torti di altra natura? autodifesa?) l’atto perde la sua specificità: è un omicidio come tanti, come faceva un tempo notare Romolo Rossi.
    Quanto al vero femminicidio, concordo anche sul più che probabile emergere di tratti di narcisismo patologico, che rendono la compagna non solo un oggetto ma la matrice di un oggetto – sè. Qui l’acting mi pare abbia luogo nel vuoto di pensiero evidenziato dalle impacciate e confuse dichiarazioni di certi femminicidi.
    Ma proprio l’esempio di Otello mostra la necessità di considerare anche la dimensione storico – sociale. Fino a un anno fa era incontestato non solo il diritto ma l’obbligo del maschio di esercitare una funzione direttiva, di garante dell”ordine sociale, anche con la pena di morte: funzione riconosciuta in parte perfino dal codice con il “delitto d’onore”. Otello si dispera veramente non dopo il femminicidio, ma dopo avere scoperto di avere ucciso a torto una innocente. E un personaggio di Pirandello, dopo avere a lungo tollerato l’infedeltà della moglie, la uccide a sangue freddo quando essa diviene di dominio pubblico, vincolandolo all’obbligo “morale” e sociale di una reazione femminicida. Credo che qualcosa di questa concezione rimanga, più o meno inespresso, nel subconscio di certi maschi.

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