Vaso di Pandora

I seminari di Zollikon: incontri con Martin Heidegger

È superfluo ricordare il fondamentale debito della riforma psichiatrica con il pensiero fenomenologico – esistenziale. Come ben sappiamo vi si è ispirato, molto esplicitamente, Franco Basaglia. Ho avuto il privilegio di ascoltarlo tanti anni fa, in un intervento presso la Clinica Psichiatrica di Genova. In quella sede ha fra l’altro criticato terapie farmacologiche non sorrette da adeguata comprensione del vissuto del paziente. Alcuni ospiti – non appartenenti alla Clinica –  provocatoriamente gli chiedevano quale mai fosse secondo lui una terapia ammissibile: forse la psicanalisi?  Ha risposto di non essere psicanalista, e – simpaticamente – di aderire invece a quell’indirizzo in cui “non si capisce bene di cosa si parla”. 

Acqua passata: ma può ancora esser utile ripensare una delle fonti del cambiamento, i seminari di Zollikon: una serie di incontri tenuti negli anni 60 da Martin Heidegger nella sede offerta dall’amico Medard Boss, psichiatra psicanalista di formazione sia Freudiana che Junghiana, avvicinatosi poi al pensiero fenomenologico – esistenziale così da formulare una tecnica di intervento “contaminante” i due indirizzi: la Daseinanalyse. 

I seminari di Zollikon

Questi seminari, pubblicati poi in volume, documentano il momento in cui il filosofo tedesco si è interessato in modo diretto all’operare psichiatrico, anche tramiti collegamenti con persone come Karl Jaspers e Wilhelm Dilthey, situate nello spazio fra filosofia e psichiatria – psicologia.

Possiamo considerarli una sorta di manifesto ispirante il rinnovamento del  pensiero psichiatrico e della conseguente  prassi. 

Alcuni dei punti trattati, in una veloce carrellata. 

I rapporti fra mente e soma

Uno di essi è l’annoso problema dei rapporti fra mente e soma: “si può anche considerare l’uomo in modo scientifico-naturale come parte della natura. Solo, resta il problema se poi ne risulti ancora qualcosa di umano, che riguardi l’uomo in quanto uomo. Neanche si può suddividere l’uomo in un ambito che è natura e in uno, più centrale, che non è natura. Come si potrebbero conciliare due cose tanto eterogenee nonché farle agire una sull’altra? Piuttosto, il  cosiddetto elemento più centrale, non avvicinabile in modo scientifico-naturale, deve costituire l’essenza anche dell’ambito più periferico, cioè il soma dell’uomo. Il corpo umano vivente, dunque, non è un oggetto come tanti, e merita un approccio diverso da quello guidato dal concetto di verità scientificamente dimostrata. 

L’autore giunge a sottoporre a esame critico tale  concetto generale, anche nel suo campo privilegiato d’azione: nel classico procedimento di ricerca, si verifica la corrispondenza del risultato sperimentale con la teoria ma ciò non risulta necessariamente vero, anche perché tutto resta nell’ambito designato anticipatamente dalla teoria, e si basa su presupposti non dimostrabili. L’ente diviene, criticabilmente, investigato in quanto oggetto dal soggetto normativo, che cioè impone una  norma che è per sua natura arbitraria. 

Naturalmente, possiamo esser d’accordo o meno con tale impostazione; ma non si può dimenticare che, partendo da campi di ricerca e posizioni metodologiche molto diverse, anche la fisica quantistica e il principio di indeterminazione di Heisenberg hanno incrinato il classico concetto di verità scientifica.  

Il dilemma di Zollikon

L’autore anticipa lucidamente un dilemma che oggi si impone all’attenzione con l’AI: “Oggi sembra che le cose stiano in modo che la cibernetica divenga sempre più la scienza universale, e che la coscienza sia considerata come un fattore di disturbo”. Ciò fa parte della sua ben nota diffidenza per la tecnica: non la rifiuta per principio, ma invita a valutarne meccanismi, implicazioni, rischi: sempre più attuale il suo rilievo che la tecnologia tende a incorporare e usare pezzi di natura, e i rischi di invasività, incorporazione e strumentalizzazione di parti di essa: la tecnica sradica l’uomo dalla natura.

Ne è fondamento il pensiero calcolante, razionale: interessante il ricordare che la parola “ragione” ha una origine, appunto, ragionieristica ed è pertanto connessa alla spinta al profitto. La rivoluzione francese ha inventato la “dea ragione”, e ciò può avere avuto che fare con  il contemporaneo emergere della borghesia produttiva e del suo crescente affidarsi alla tecnica. Questa infatti produce ed accumula. 

E questo ci riconduce al nostro specifico campo di interesse, la psichiatria. Le istituzioni nei quali essa si è sviluppata – dapprima asili indifferenziati, poi manicomi – hanno accolto persone la cui incapacità di “ragionare” li squalificava come soggetti produttori. A questo proposito, va notato che Franco Basaglia ha verosimilmente tratto spunto dalla definizione heideggeriana di persona: è un “esserci”, un esser nel mondo. Quindi non possiamo prendercene cura se la isoliamo dal suo mondo. 

Il discorso riguarda anche la c. d. piccola psichiatria, quella non soggetta a interventi residenziali – istituzionali. In essa ha ampio spazio un approccio “razionale”, fatto di classificazioni e di interventi miranti alla rimozione del sintomo. 

La corrente filosofica del pragmatismo

Questo insieme di problemi si attualizza oggi in modo più pressante e ineludibile, ben più di quanto non fosse 60 anni fa. Tendiamo a ritenere “vero” ciò che è efficace: equazione spinta all’estremo nella corrente filosofica del pragmatismo. Assistiamo inquieti al costante progressivo incorporare pezzi di natura, e allo snaturarsi di attività “irrazionali” come la poesia e l’arte: sempre più spesso definiamo “arte” ciò che è accolto dal mercato.  

Altro aspetto inquietante dello sviluppo tecnico: siamo giunti a chiederci se certe macchine possano, oggi o in futuro, esser portatrici di coscienza, e quindi in che cosa questa si differenzi dalla mera consapevolezza dei propri vissuti: problema dunque non recente ma che oggi si impone. Molto opportunamente, Martin Heidegger aveva invitato a “vedere come sta la cosa con la motivazione”. E di fatto, forse si può ritenere che ciò che differenzia la coscienza umana, in quanto autocoscienza, dalla mera consapevolezza dei dati propria del computer è proprio la motivazione, l’intenzionalità (collegata, è evidente, con l’affettività). Anni fa Stanley Kubrick  attribuiva intenzionalità al computer Hal che, frustrato e intimorito, voleva danneggiare l’equipaggio. Speriamo sbagliasse… 

Se il metodo scientifico, malgrado le sue limitazioni, vanta comunque grosse realizzazioni nel trattare le cose inanimate, ben più complesso e meno fruttuoso è il suo rapporto con lo psichico. Su ciò, Heidegger non giunge a condanna totale e in qualche modo lascia il problema aperto: critica Freud per aver tentato, specie all’inizio, una elaborazione del dato mentale con metodiche scientifico-naturali, ma la sua condanna non è senza appello.

Il concetto di esser-ci

Torna ripetutamente, nell’opera di Heidegger, il concetto di esser-ci, o meglio di essere nel mondo. Ma ciò non va inteso come collocazione statica, bensì come luogo di relazionalità: “l’esistere umano nel suo fondamento essenziale non è mai solo un oggetto semplicemente presente nel mondo… l’uomo in quanto essere costantemente aperto…”  E ciò non può prescindere dalla dimensione corporea, quella del corpo vivente. Aspetto essenziale, la sensibilità al dolore: infatti lo stress è costitutivo dell’esistenza umana, caratterizzata dall’”esser gettato”, in particolare nello scorrere del tempo vissuto, aspetto centrale della esistenza umana, – io ora, l’allora e il poi – non coincidente con il tempo dell’orologio.

Le considerazioni qui riprese possono oggi apparirci ormai scontate almeno in parte. Tuttavia, credo non sia male riprenderle in considerazione, per ricordarci – magari anche criticamente quando è il caso – da dove proveniamo.

La necessità di pensiero della comunità psichiatrica

Questo anche perché la comunità psichiatrica ha più che mai necessità di pensiero. Ha vissuto, e vive tuttora, una sostanziale ambiguità: vuole inserirsi nel campo medico, superando la condizione di inferiorità teorica e operativa cui a lungo è stata condannata; mantenendo però la propria specificità teorica e pratica che ben difficilmente le consente di considerarsi una prassi legata a una scienza naturale come le altre. Compito non semplice che però, e proprio per questo, invita a un impegno di riflessione e di cambiamento, a non  adagiarsi in una prassi consolidata e rassicurante.

Non si può omettere un accenno a un punto delicato: l’accusa ad Heidegger di simpatie per il nazismo, manifestate nella sua posizione di titolare di Cattedra, ciò che gli è costata una successiva epurazione. Dai dati a disposizione, pare lecito pensare non si sia trattato di convinta adesione ma di un barcamenarsi nei confronti di un potere assoluto e feroce.  Forse a una grande mente non si può chiedere anche eroismo.  

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Commenti su "I seminari di Zollikon: incontri con Martin Heidegger"

  1. Questo articolo denso e interessante del Dott. Pisseri giunge per me come una manifestazione di “sincronicità” junghiana, dato che proprio in queste ultime settimane mi sono ritrovato a riflettere e provare a scrivere di cose che hanno nel discorso filosofico di Heidegger un campo speculativo impossibile da eludere (non necessariamente per aderirvi). Questo però è decisamente poco interessante.
    Quello che mi preme soprattutto dire è però che saluto con un senso di conforto la circostanza per cui può apparire un articolo che – in tempi di “funzionalismo” imperante che impone alla psichiatria, per superare un complesso ancillare rispetto ad altre, ritenute più “solide”, discipline mediche, di risolversi esclusivamente nel suo côté biologico-clinico – osi affacciarsi su un altrove dei paradigmi dominanti.
    Questo altrove non è, come più spesso accade, il semplice riferimento alla cosiddetta “psicopatologia di ispirazione fenomenologica”, ma più radicalmente la filosofia fenomenologica tour court.
    Riferirsi direttamente a Heidegger piuttosto che alle sue “traduzioni” o mediazioni psicopatologiche già date, pur notevoli come per esempio quelle che fanno capo a Ludwig Binswanger, è dal mio punto di vista coraggioso e in un certo senso dovuto, in quanto alla psichiatria (sempre a mio modo di vedere) incombe il compito di incarnare nell’ambito della Medicina il ruolo che la meccanica quantistica – nominata peraltro nell’articolo -, con le sue fluttuazioni indeterministiche e i superamenti dei dualismi quale quello onda-particella, ha svolto nell’ambito della Fisica, dal Novecento in poi.

    Numerosi sono gli inneschi e le associazioni
    di pensiero accesi dall’articolo. Ne accenno solo uno.
    Il tema del dualismo mente (o psiche o cervello, a seconda di quanto si propenda verso un polo psicologico o somatologico) – corpo, che resiste al di là dei superamenti che al momento rimangono petizioni di principio più che profondo cambiamento epistemologico (Semir Zeki sottolinea come semplicemente si passi dalla “mitologia” della mente alla “mitologia” del cervello), tocca particolarmente la fenomenologia del mio campo di lavoro da alcuni anni, ovvero quello dei Disturbi Alimentari.
    E così il tema della Tecnica decifrata nei termini dello sfruttamento (e appunto “incorporamento” che non è embodiement ma annessione) del mondo come fondo (Bestand) infinitamente disponibile. Questo visione richiama l’istanza di padroneggiamento onnipotente del corpo delle Anoressie “trionfanti”.
    In queste manifestazioni, che secondo me non sono semplici aberrazioni naturalistiche della relazione individuale al corpo, ma eventi che portano a emersione trame latenti diffuse, sembra tramontare il corpo come “traccia visibile dell’altro” (espressione severiniana), ridotto, come si argomenta bene nell’articolo, a mero dispositivo, oggetto qualunque tra gli oggetti del mondo.

    Ma tanto altro si potrebbe dire a ruota di questo fecondo articolo.

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