Vaso di Pandora

Formazione con Zapparoli – Parte 2

Nella seconda metà degli anni 90, il nostro gruppo ha avuto il privilegio di fare formazione con il prof. Zapparoli, il quale, attraverso incontri a Milano quindicinali, ci ha insegnato a modulare e ad interpretare clinicamente le nostre volenterose osservazioni. Allora le Comunità del gruppo Redancia erano ancora poche ed ospitavano pazienti perlopiù psicotici.

Per noi giovani forse più complessi dei “border”, meno immediati, più distanti, più delicati.

Chi ha partecipato a questi gruppi ricorda la fatica, l’impegno e la tensione che corollavano un viaggio che dopo l’incontro con il professore si trasformava in una liberatoria goliardia intorno ad una tavola.

Zapparoli mi ha insegnato le basi del lavoro comunitario, o meglio, mi ha aiutato a diventare un operatore di comunità, a dare un senso alle frasi che mi dicevano i pazienti ed a comprenderne il significato.

Ho ritrovato tra i miei file questo scritto, portato forse ad un convegno e forse pubblicato sulla nostra rivista cartacea. Mi pare attuale ciò che vi è scritto, mi pare applicabile il pensiero di Zapparoli non solo ai pazienti psicotici, bensì a tutti i pazienti che parlano il complesso linguaggio della sofferenza. Dal suo insegnamento trapela il rispetto per l’altrui persona. Rispetto che oggi spesso è dimenticato.

Si ritiene utile suddividere in due parti questa esposizione del modello di lavoro proposto dal Prof. Zapparoli, in quanto il materiale esposto rischia di apparire pesante al lettore ed altresì la nostra intenzione è fornire la possibilità di riflettere sui temi, valutare paragoni con l’attualità e naturalmente lasciando occasione per commentare e fornire altro materiale di riflessione.

Integrazione dell’equipe ed integrazione del paziente

L’intervento dovrà venire incontro ai bisogni del pz di dipendenza, ma anche favorire il soddisfacimento dei bisogni di controllo dell’ oggetto che viene negato quale fonte di bisogno. Soltanto l’equipe, nel suo insieme può affrontare tale contradditorietà fornendo risposte diverse, fra loro complementari che una sola persona non è in grado di dare contemporaneamente.

L’integrazione dei terapeuti è lo strumento per favorire l’integrazione interiore del pz. A patto che sia mantenuta, visto che il pz la sottopone a verifiche ed attacchi. I membri dell’equipe che palesino solidarietà reciproca da un lato forniscono al pz garanzie su cui fondare la fiducia, dall’altro vengono sentiti come pericolosi perché non controllabili.

Può riacquistare il controllo facendoli litigare, tentativo che ha successo in misura direttamente proporzionale al narcisismo degli operatori. Solo quando ogni operatore raggiunge la convinzione che il suo ruolo è pari agli altri e che la sua priorità non è assoluta, diventa possibile offrire allo schizofrenico un modello di identificazione riguardo all’accettazione del proprio limite ed al riconoscimento del valore dell’ altrui collaborazione.

È chiara la necessita di una comunicazione costante tra i vari membri dell’equipe e l’utilità della figura del coordinatore che sia in grado di mantenere una posizione neutrale, di accogliere e valutare i diversi elementi, sia nel pz che negli op, facilitando il superamento delle inevitabili difficoltà.

Secondo il modello di lavoro integrato, il punto di partenza è quindi costituito dal corretto rilevamento dei bisogni specifici dello psicotico, inteso nella sua unitarietà. Tale rilevamento va effettuato in base alle evidenze cliniche che emergono dalla storia del paziente, dalle sue precedenti esperienze di vita (comprese quelle terapeutiche) dal rapporto attuale con le persone significative del suo ambiente .

È necessario raccoglier i dati fenomenici e relazionali offerti dalla famiglia e dal contesto sociale di appartenenza, dati che appaiono spesso divergenti e contradditori. Anche gli operatori è facile che si attestino su posizioni emotive differenti. Ad esempio, di fronte ad un pz aggressivo, è facile che qualcuno provi paura ed altri tenerezza, sentendolo come “un bambino impaurito”.

Quindi maternage o fermezza?

Raggiungere una comune chiave di lettura dei comportamenti e delle manifestazione psicopatologiche implica tempi di attesa e talvolta attriti fra i componenti dell’equipe. Ma soltanto così avviene il passaggio “dal mio al nostro pz” (Zapparoli 1994) cioè quella presa in carico collettiva indispensabile per mantenere una continuità nello svolgimento del programma terapeutico.

Una volta fatta una corretta focalizzazione dei bisogni specifici del pz, si presenta il non facile compito di “fornire la credenza” (Zapparoli 1987), cioè svolgere in modo semplice e diretto una funzione simile a quella che nel medioevo attuavano gli scalchi quando assaggiavano in presenza del loro padrone cibo e bevande precedentemente preparate per dimostrare che non erano avvelenate.

È necessario cioè garantire al pz l’accettazione dei propri bisogni purché si instauri fiducia. Questo cozza in particolare contro due pregiudizi ideologici della riabilitazione.

Il “ Lavoro”: produzione materiale o delirio?

Di solito al trattamento comunitario viene dato carattere emancipativo. Compito dell’equipe è invece difendere il pz da aspettative irrealistiche, da spinte verso l’autonomia premature o velleitarie. Spinte provenienti dalla famiglia o che il pz stesso si pone e con cui non si deve colludere.

Riteniamo importante ricordare le difficoltà dello psicotico nei confronti dell’attività lavorativa, difficoltà che non possono essere affrontate unicamente in termini di abilità da recuperare.

Esiste un significato specifico del lavoro come forma di emancipazione che entra in conflitto con il bisogno di mantenere una situazione di dipendenza. Bisogno che è necessario tenere presente. Per alcuni pz l’unica attività possibile è il delirio e una retribuzione (la pensione) che deve essere considerata come mezzo per mantenere tale produzione lavorativa. Altri, con un io residuale più funzionante, non sopportano un impegno continuo e remunerato, mentre sono in grado di svolgere in maniera apprezzabile compiti che, per il loro carattere saltuario e gratuito, li pongono al riparo da aspettative esagerate. Oppure, grazie ad un supporto che li esime da ogni responsabilità, possono socialmente esibire un biglietto da visita professionale che ha le caratteristiche dell’illusione.

Un’illusione per cui, è necessario nutrire rispetto, in quanto stato intermedio tra l’incapacità e la crescente capacità di riconoscere ed accettare la realtà. Altri ancora diventano lavoratori partime con un tempo occupato da attività reali ed un tempo che rimane ad appannaggio della produzione psicotica. Altri infine, quelli per cui è possibile una ulteriore evoluzione emancipativa, riescono a conquistare uno spazio più ampio nell’ambito lavorativo, ma sempre confrontandosi con i limiti imposti dal nucleo deficitario. Alla luce di tutto ciò, è indispensabile dare al termine “lavoro”, comunemente inteso come “attività umana diretta alla produzione di un bene”, il significato più ampio di “impiego di energie volte ad uno scopo determinato”.

In questa seconda accezione, tale scopo può configurarsi anche come attività fantastica, sia essa delirante o illusionale, senza precludere la possibilità di una reale attività lavorativa che permetta il reinserimento, magari parziale, all’interno del contesto produttivo.

Solo così potremmo dare “la credenza”, cioè acquisire quella fiducia del pz necessaria per superare le sue resistenze al cambiamento.

Diritto a delirare

Un altro concetto zapparoliano legato al “dare credenza” è la costituzione della “stanza del delirio”, ossia l’aprire uno spazio ambientale ed emotivo ove il paziente possa portare la sua parte matta. Ciò naturalmente comporta, per l’operatore che svolge tale funzione, rinunciare ai rassicuranti parametri dell’esame di realtà e confrontarsi con il timore di alimentare la patologia.

Avviene invece il contrario.

Trovata la sua “residenza emotiva” (Zapparoli 1992) il pz tende a manifestare alterazioni percettive e vissuti deliranti prevalentemente in tale contesto, tenendoli segreti all’esterno. Si configura cosi il passaggio da una follia pubblica ad una follia privata.

Il terapeuta deve essere capace di restare in contatto con l’io psicotico del pz secondo modalità attive, non semplicemente da spettatore. Cioè accettare l’inglobamento nel delirio che lo rende “persecutore”, saper utilizzare il linguaggio psicotico, mantenendolo in un ambito di gioco, che rappresenta una iniziale possibilità di elaborazione del delirio stesso.

Naturalmente non tutti i casi sono uguali. Alcuni pz possono essere “svegliati “ dal delirio (Zapparoli 1967) seppure in grado diverso, ottenendo un ampliamento delle residue aree funzionanti, un relativo adattamento alla realtà oppure arrivando a sostanziali modificazioni della parte psicotica. Altri invece mantengono le manifestazioni patologiche e possono essere soltanto accettati nel loro “diritto a delirare”.

Reazioni emotive controtransferali

Non e’ sempre facile utilizzare le reazioni emotive che tale pz suscita nei terapeuti. In particolare, secondo Zapparoli (1979), sono due le emozioni caratteristiche del rapporto con lo psicotico: la paura e la noia. Esse orientano a riconoscere se le richieste emancipative corrispondono ad effettive capacità o abbiano un pericoloso carattere velleitario. Sono emozioni che il pz trasmette mediante un meccanismo di identificazione proiettiva, ciò che mette dentro agli altri perché possano provare ciò che lui stesso prova.

La paura indotta da comportamenti aggressivi segnala al terapeuta che lo psicotico stesso deve difendersi da situazioni ed oggetti percepiti come paurosi: spinte irrealistiche verso un’autonomia incompatibile con il bisogno simbiotico; parti troppo vive degli operatori che devono essere soffocate; assenza emotiva di figure significative che non permette al pz di sentirsi vitale; privazione di uno spazio in cui poter “fare il matto”.

Premessa necessaria perché il terapeuta possa utilizzare il suo vissuto è però che la paura non venga negata, tenuta “segreta”, ma riconosciuta, elaborata con il pz. Questo è possibile solo se non ci sono eccessive preoccupazioni per l’incolumità personale. In caso contrario il terapeuta deve esplicitare tali preoccupazioni, dire allo psicotico: se diventi troppo minaccioso non sono più in grado di aiutarti, diventa necessario il tuo trasferimento in ambiente idoneo a contenere quell’aggressività che mi spaventa.

La noia

Anche la noia è un segnale importante come risposta indotta nel terapeuta dal pz, che lo esclude o lo rende impotente. Tale risposta, ed in questo caso ha una connotazione evolutiva, è conseguente al disinvestimento emotivo che il pz attua nei confronti del terapeuta per emanciparsi, riuscire a fare da se. Ma in altri casi il disinvestimento oggettuale si configura come difesa dal panico che intraprendere attività autonome genera nel pz. Egli vuole restare nel suo stato di fusionalità in quanto il progetto di una indipendenza, pur desiderata, non è sostenuto da forze adeguate.

Le richieste impossibili

Ci soffermiamo un attimo sulla sensazione di impotenza che gli schizofrenici, soprattutto i più gravi, suscitano nel terapeuta.

Zapparoli parla della condizione emotiva che insorge di fronte alle “richieste impossibili” (1987), quando non si può dare una riposta diretta ne non dare una risposta, se non determinando nel pz una reazione oppositiva o accentuando una sua insistenza.

Sono richieste che vanno dalla condivisione di progetti distruttivi fino a proposte erotiche che coinvolgono sul piano personale. Oppure richieste che si configurano come domande ambivalenti (emanciparsi e rimanere dipendenti). Sono richieste impossibili perché il pz con esse comunica il suo sentirsi in una situazione impossibile. Possiamo aiutarlo solo decifrando tale situazione, comprendendo che violenza e sessualità sono finalizzate a ben altri scopi rispetto a quelli normali, utilizzando il nostro vissuto di impotenza come elemento che rinvia alle difficoltà del pz di trovare uno sbocco al problema della fusione simbolica.

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