Vaso di Pandora

Hikikomori: da ritiro sociale a fenomeno psicopatologico

Capitolo 2

2.1 FENOMENI CORRELATI: LA CRISI DI UNA GENERAZIONE

Gli hikikomori sono espressione della crisi di una generazione che è stata definita come la generazione perduta, “ The lost generation” (Murakami, 2000; Ryall, 2003).

Questa società composta da un sistema compatto, che è riuscita ad accumulare ricchezza e a generare un’altissimo livello di efficienza, conteneva in sé i semi della propria distruzione. L’ossessione per il raggiungimento e il mantenimento dell’armonia di gruppo, attraverso le sollecitazioni a conformarsi, la forte resistenza opposta alle critiche, la repressione del dissenso e delle diversità e l’esigenza di tenere lontano tutto ciò che è estraneo, sono stati quei punti di forza che hanno poi costituito anche la debolezza di questo paese (Zielenziger, 2006). Questo sistema ha gravemente compresso l’individualità fino ad infantilizzare molti giovani giapponesi, privandoli della propria identità e allo stesso tempo ha sottratto loro la capacità di adeguarsi ai cambiamenti che l’inesorabile processo di globalizzazione ha portato con sé. Come evidenziato precedentemente il Giappone è stato in grado di appropriarsi dei processi della modernità e dell’industrializzazione senza però creare una coscienza critica, senza sviluppare l’individualità che avrebbe reso la propria popolazione maggiormente in grado di interagire con il resto del mondo, senza fornire ai propri giovani l’autonomia e   la flessibilità che rappresentano oggi strumenti indispensabili per sopravvivere.

Far funzionare la società in modo efficiente si è di fatto tradotto nella richiesta di una modalità automatica di comportamento, che implica anche il vestire i ragazzi con uniformi identiche, mandandoli in scuole identiche, a memorizzare le medesime nozioni. Sono stati così emarginati quei devianti la cui creatività e intelligenza avrebbero potuto costituire una risorsa nel momento del cambiamento (Zielenziger, 2006). Sono proprio loro ad esprimere oggi il malessere di cui è portatrice la società, la rinuncia alla propria autenticità ha portato nei casi più estremi a sviluppare un senso di inadeguatezza che si traduce in reazioni di rabbia, di violenza, di devianza fino all’implosione  e  alla  compromissione  dell’equilibrio  psicologico-affettivo. Gli  hikikomori,  gli Otaku, i Freeter e i Neet sono espressione del disagio di questa generazione e della rinuncia a conformarsi, ma anche della ricerca di strade alternative per sviluppare la propria individualità.

2.1.1. Neets, Freeters e Otaku.

Questa nuova generazione, cresciuta nella ricchezza, sembra ribellarsi allo stile di vita dei propri padri, portando disarmonia nella terra che venera l’armonia. I giovani vogliono cambiare il Giappone, o almeno avere il diritto di cercare nuovi modi di condurre la propria vita e di esprimere la propria individualità.

Gli hikikomori, che esprimono in maniera estrema il proprio malessere e l’incapacità di adeguarsi ad uno stile di vita che sopprime la loro autenticità, vengono spesso considerati malati e , quando ciò non avviene, sono visti dalla società come giovani viziati, parassiti, privi di senso del dovere che si rifiutano di lavorare e contribuire allo sviluppo economico del paese (Dziesinski, 2003); questo avviene anche per altre categorie di giovani, come i Neet e i Freeter che, attraverso scelte di vita anticonvenzionali, esprimono la loro critica ai ruoli sociali e sono portatori di una rivoluzione che spinge all’individualismo. Nati dopo il 1970 i membri di questa generazione sono 44 milioni, un terzo della popolazione (Larimer, 1999). I più anziani sono cresciuti durante gli anni della bolla economica e, diversamente dai loro genitori, hanno sempre vissuto nel benessere; hanno avuto tutto facilmente, non hanno conosciuto gli anni della guerra e i loro genitori hanno cercato di provvedere affinché avessero tutto ciò che a loro era mancato. Ma nonostante questo molti di loro esprimono un senso di vuoto e di mancanza, non riservano speranze nel futuro e sentono che il sogno di entrare a far parte di una grande azienda, in cui trascorrere tutta la vita per essere oberati di super –lavoro, non gli appartiene . Larimer riporta nel suo articolo sulla nuova generazione giapponese il pensiero di Hideo Takayama che studia la gioventù giapponese dal 1960 e ha condotto diversi focus group per discutere con i giovani dei loro sogni e delle loro paure (Larimer, 1999). Takayama rileva che mentre negli anni 60 se si chiedeva ai ragazzi che cosa desiderassero spesso le risposte includevano una televisione, un frigo, una lavatrice, nelle decadi successive le risposte alle stesse domande sono passate da esser incentrate su strumenti che soddisfacevano i bisogni della famiglia a oggetti che rispondono a bisogni individuali come un walkman, un nintendo o una mazza da baseball. Ma la condizione più preoccupante sembra essere quella di oggi, in cui Takeyama alla domanda relativa a cosa desiderassero i giovani ha ricevuto sempre più spesso come risposta “niente” (Larimer, 1999). In realtà questi giovani desiderano la libertà di perseguire la propria realizzazione e non riescono ad adattarsi ad un sistema repressivo che fin dalla scuola ha imposto loro regole affinché si conformassero al gruppo. Il comportamento inaspettato di coloro che si rifiutano di lavorare per una società che pone l’etica di gruppo al di sopra dell’individualità è ciò che allarma il Giappone; per molti di loro infatti diventare un “salaryman” rappresenta la “ peggiore cosa nel mondo”.( Larimer, 1999 ). Nelle ultime decadi sono insorti in Giappone nuovi fenomeni sociali , tra cui quelli dei Freter e dei Neet, che, come hikikomori, esprimono la propria ribellione attraverso il rifiuto di entrare a far parte della logica nazionale.

Freeter è un’espressione giapponese per indicare quei ragazzi tra i 15 e 34 anni di età che non hanno un lavoro a tempo pieno e si accontentano di ciò che hanno, senza aspirare alla promozione sociale ed economica, in evidente contrasto con l’ideale economico nazionale (Mariscalco, 2008). Essi svolgono lavori saltuari, part-time, non per necessità ma per una scelta ponderata, esprimendo così la volontà di essere liberi di ribellarsi al lavoro di tipo gerarchico condotto dai loro padri. Il termine deriva dall’inglese “free” e dalla parola tedesca “arbeiter”, lavoratore, in giapponese vengono anche chiamati karyu shakai che letteralmente significa “crepa nella società” (Parry, 2006; Mariscalco, 2008; Ricci, 2008). Nel 2005 i freeter si aggiravano intorno a circa 4,5 milioni e si stima che continueranno ad aumentare fino a raggiungere i 10 milioni nel 2014 (Mariscalco, 2008). Essi non iniziano una carriera dopo la scuola o l’università, rifiutandosi di entrare nel circuito del sistema lavorativo a tempo pieno e, impossibilitati a costruire una famiglia propria, continuano a vivere con i  propri  genitori,  per  questa  ragione  vengono  definiti  “parasites  singles”  (Dziesinski,  2004). Rappresentano un popolo di ragazzi che si contrappone allo stile di vita imposto dalla cultura dell’impresa giapponese, che sceglie di coltivare i propri interessi e divertirsi invece di venire schiacciati dai meccanismi delle grandi compagnie e del posto fisso per tutta la vita come i propri padri. Il Japan Institute of Labour distingue tre tipologie di freeter: oltre a coloro che non hanno alternative e che a causa anche della crisi economica non sono riusciti a trovare un lavoro migliore, vi sono i moratorium, cioè coloro che sono in una fase di attesa, e coloro che perseguono i propri sogni, i quali deliberatamente scelgono di non unirsi al rat race nelle compagnie restrittive e conformiste, ma desiderano invece prendersi un periodo di tempo per godersi la vita o perché hanno un sogno specifico incompatibile con gli standard lavorativi giapponesi. (Mariscalco, 2008). L’insorgenza di questo fenomeno appare assolutamente in contrasto con hikikomori: essi non vivono il lavoro come priorità, si accontentano di ciò che hanno e di fare lavori di basso profilo che non richiedono competenze specifiche, sono lontani dalla mentalità dello stakanovismo giapponese, non vogliono che il lavoro rovini la loro vita privata e ascoltano i propri desideri (larimer, 1999). Il loro individualismo, il loro disincanto sono forse l’unica protesta alternativa e attiva all’apatia passiva degli hikikomori. Far funzionare la società in modo automatico ed uniforme ha emarginato quei “devianti” , come i freeter, la cui creatività e il cui intuito avrebbero potuto preparare il terreno per il cambiamento che il mondo sta imponendo al Giappone, richiedendo maggiore flessibilità e iniziativa. Per questa gioventù non c’è spazio in Giappone e invece di rinchiudersi nelle proprie case molti di loro emigrano o vivono ai margini della società accontentandosi di ciò che hanno e dipendendo dai propri genitori. Ne è un esempio lo scrittore Haruki Murakami che, nell’articolo di Carbone (2008), sostiene una gioventù libera dagli schemi a cui sia data la possibilità di esprimersi: “ Quando ero giovane, tutti i miei amici pensavano solo ad impiegarsi in qualche grande azienda o banca. Io non sono mai stato attratto da quella vita , ho cominciato a lavorare da solo, stentando, ma non demordendo. Oggi i freeter si moltiplicano, e sono certo che tra essi ci siano persone creative, che da questo mondo sotterraneo emergeranno i nuovi artisti. Se la società giapponese darà spazio a queste persone credo che diventerà una società migliore” (Carbone, 2008).

In  tempi più recenti si è inserito nella società giapponese il termine Neet, che definisce una tipologia di giovani spesso accomunati agli hikikomori, ma che se ne differenziano per caratteristiche fondamentali. Con il termine Neet (Not in Employment, Education or Training) vengono definiti quei ragazzi che rifiutano il sistema sociale non facendo niente (ricci, 2008). I media si riferiscono ai Neet come “ giovani che non lavorano” o “ giovani che si rifiutano di lavorare”. Genda (2007), uno   dei maggiori esperti di Neet, economista e autore dei libro   Nĭto (2005), rifiuta queste definizioni sostenendo che i Neet in realtà non lavorano non perché non gli piaccia lavorare ma perché non possono in quanto non ripongono speranze nel futuro e nel lavoro (Genda, 2007).

Secondo Genda (2007) questo fenomeno non sarebbe emerso se la società giapponese non fosse così competitiva. I giovani giapponesi sono costantemente spronati in maniera ossessiva, sia a scuola che a casa, al fine di trovare un’occupazione  che diventi la cosa più importante della loro vita. Sono così sottoposti a tremende pressioni che possono sfociare in tendenze ossessivo- compulsive e spingere i ragazzi a non misurarsi con il mondo del lavoro (Genda, 2007). I Neet inizialmente spiegano il loro comportamento sostenendo che le interazioni con gli altri sono troppo stressanti ma  ad  un  certo punto smettono di  cercare le  ragioni del  proprio comportamento e accettano la propria condizione sprofondando in uno stato di inerzia (Ricci, 2008). The Ministry of Health, Labour and Welfare ha condotto una ricerca sull’attuale condizione dei Neet da cui è emerso che circa il 40% ha sofferto in passato di “ syndrome of school refusal”; molti Neet esprimono difficoltà a comunicare con gli altri e circa il 50%  è stato vittima di bullismo, si è ritirato totalmente dalla società per un periodo della sua vita o ha ricevuto un trattamento medico per disturbi psichiatrici o psicosomatici (Parry, 2006).   Il fenomeno è pertanto controverso e sotto questa etichetta possono ricadere anche gli hikikomori o coloro che a causa di qualche patologia specifica non sono in grado di lavorare. Anche se le due categorie sono sfumate, la principale differenza tra il fenomeno hikikomori e Neet risiede nel fatto che mentre il primo riflette una problematica primariamente psicologica, il termine Neet è nato per definire una condizione essenzialmente economica e sociale. La figura del Neet, secondo Genda (2007) e Saito (2003), non ha alla base una problematica relazionale, mentre si evidenzia in maniera chiara la radice psichica di hikikomori  in vista anche di un trattamento che non comprenda solo una riabilitazione sociale e lavorativa, ma che comporti un intervento primariamente psicologico (Genda, 2007; Saito, 2003). Il fenomeno dei Neet , configurandosi come una crisi amotivazionale legata certamente agli alti standard sociali, prende la forma di una ribellione più attiva, contrapponendosi al ritiro sociale in hikikomori. Lo stesso principio di non-omologazione che è alla base del comportamento rinunciatario dei Neet si ritrova anche nei Freeter, i quali scelgono consapevolmente di non aderire agli standard nazionali di successo e superlavoro, per questo entrambi vengono fortemente criticati dai mass media e dall’opinione pubblica (Carbone, 2008). Il fenomeno dei Neet, benché presenti alcune affinità fenomenologiche con hikikomori, sembrerebbe inserirsi a metà strada tra la scelta deliberata e consapevole dei Freeter  e una condizione determinata da una problematica psico- sociale.

Un altro fenomeno espressione del disagio della generazione dei giovani giapponesi è costituito dai così detti otaku. Essi si distinguono dai Freeter   e dai Neet perché non rappresentano il rifiuto all’accettazione dei ruoli sociali predestinati, ma hanno in comune con hikikomori la tendenza ossessiva, una difficoltà relazionale di base e l’alienazione dalle normali forme di comunicazione e di interazione con gli altri (Adams, 2004).

Gli otaku sono giovani che si isolano dal mondo, trascorrendo le loro giornate completamente assorbiti nelle anime, nei manga o nei video game.

Il termine otaku si è diffuso agli inizi degli anni ‘80 per indicare un nuovo gruppo di adolescenti e ventenni che condividono con altri un’ossessione per qualcosa. Il termine connota persone non interessate all’altro o alla sua vita privata ma che condividono con lui solamente un interesse comune (Adams, 2004). L’oggetto dell’ossessione può essere il più svariato, da un personaggio famoso, ad una rock star morta, da una serie televisiva ai cartoni animati o ai fumetti manga. Questi adolescenti hanno come scopo principale quello di imparare a memoria in modo ossessivo tutte le date e i particolari relativi al loro oggetto di interesse. Essere un otaku è però qualcosa di diverso da avere un’estrema ossessione. Sia che il loro interesse riguardi un campo particolare, come i manga, i cartoni, i computer, sia che sia inerente ad un campo più specifico e ristretto, come i tratti caratteristici di ogni pokemon, tutti gli otaku lottano per memorizzare   ogni più piccolo e insignificante dettaglio della loro ossessione. Sebbene gli otaku si identifichino come persone che condividono  una  medesima  ossessione,  questo  legame  è  in  realtà  solamente  superficiale.  La maggior parte degli otaku non si incontrano mai direttamente, ma comunicano solamente attraverso internet, essi sono effettivamente incapaci di raggiungere l’intimità di un’ autentica interazione umana (Adams, 2004). Gli otaku costruiscono una barriera protettiva intorno a sé  che rafforzano per mezzo della propria ossessione.

La comunicazione tra otaku che condividono il medesimo oggetto di interesse avviene attraverso le chat, in interazioni prive di contatto faccia a faccia, protetti dietro i monitor dei propri computer nelle loro case. Come detto precedentemente gli otaku passano il loro tempo ad analizzare e memorizzare ogni dettaglio riguardante la propria ossessione; l’azione di memorizzare  è in sé un atto di perseveranza e di conformità al sistema educativo in cui sono cresciuti (Adams, 2004). Questo gruppo di giovani appare essere espressione di una devianza post-moderna ma in realtà è profondamente tradizionale nelle sue manifestazioni e nei suoi comportamenti. Da questo punto di vista essi rappresentano una forma di ribellione paradossalmente conformistica. Ai ragazzi a scuola non viene insegnato a pensare ma ad accumulare un’immensa quantità di informazioni che possono essere ripetute a comando ma non interiorizzate né collegate. Imparare a memoria nel sistema scolastico   giapponese   rappresenta   l’ennesima   lezione   di   dipendenza,   mentre   il   pensare implicherebbe un atto di autonomia. L’apprendimento a memoria è soggetto a intensi esami che mirano a valutare non le capacità individuali o il pensiero critico, ma solamente la possibilità di entrare a far parte della società   conformandosi al sistema. Gli otaku sono un prodotto di quel sistema sia scolastico che sociale che mira a produrre individui in grado di obbedire all’autorità e di conformarsi  al  gruppo,  di  cui  gli  stessi  hikikomori  sono  vittima  (Adams,  2004).  Come  gli hikikomori essi   si sentono incapaci di instaurare relazioni umane profonde e presentano deficit nelle competenze sociali. L’ ossessione se da un lato rappresenta l’unico legame con il mondo esterno dall’altro lato promuove il mantenimento dell’isolamento e sclerotizza le interazioni con gli altri,  le  quali  restano  limitate  alla  condivisione del  medesimo  oggetto  di  interesse  attraverso internet.

Gli otaku, così come gli hikikomori, vengono considerati individui “strani” e vengono evitati e giudicati negativamente dall’opinino pubblica. In seguito ad alcuni episodi di violenza compiuti da adolescenti otaku e hikikomori (Adams, 2004; Lewis, 2004; Larimer, 2000), questi due gruppi sono stati etichettati come mostri e, nonostante il numero di crimini violenti non sia aumentato drasticamente negli ultimi anni, i media hanno ora dei soggetti devianti da accusare quando questo avviene. In realtà questi casi sono stati sporadici e solitamente sia gli otaku che gli hikikomori sono soggetti inibiti e isolati, non portati a compiere atti violenti se non in casi estremi, così come avviene nel resto della popolazione “sana”. Eppure il timore e il giudizio negativo verso questi giovani si sono velocemente diffusi tra l’opinione pubblica.

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