L’avevo incontrato, come altre volte nel corso degli anni, in via Sestri, il quartiere dove vivo e dove per molti anni avevo lavorato, dopo la settorizzazione del manicomio, prima e, la creazione dei servizi territoriali di Salute Mentale dopo.
Lavorare sul territorio dove vivi non è mai stata considerata un’opzione conveniente in questo campo, ma debbo riconoscere di non aver avuto mai problemi, né con i pazienti psichiatrici prima, né con in Tossicodipendenti quando, in seguito, passai ad occuparmi di quella area clinica. Anzi, ancora oggi, dopo quaranta anni, spesso mi trovo a fare dei follow up involontari muovendomi per il quartiere e, senza fare statistiche, quelli che ho l’opportunità di incontrare mi danno l’occasione di pensare che i servizi e, di conseguenza anche il mio lavoro a qualcosa sia servito. Allo stesso tempo mi chiedo dove saranno finiti quelli che invece non incontro più.
Giovanni, lo chiameremo così per dargli un nome, lo avevo incontrato in altre occasioni, ma questa volta era accompagnato da una figlia. Sapevo, da un precedente incontro che aveva due figli, ma non mi era mai capitato di incontrarlo insieme a uno di loro. Ci siamo dunque fermati sul marciapiede e salutati cordialmente, gli ho chiesto del suo lavoro che prosegue stabilmente, mi ha poi detto che la figlia diciottenne, studia e ho scoperto che frequenta la stessa scuola superiore che mio nipote sta per cominciare. Un colloquio apparentemente banale, se non fosse che mi trovavo di fronte uno dei ragazzi della foto, da me conosciuto quindicenne nel reparto 21, quello degli adolescenti, all’interno del Manicomio di Cogoleto. Guardavo la ragazza, una delle tante ragazze che circolano in via Sestri, assolutamente priva di alcuna “aura” di problematicità neppure indirettamente vissuta e pensavo ai precedenti colloqui e incontri casuali, quando lui, che ce l’aveva fatta, seppur con difficoltà dopo la nostra dimissione, mi aveva raccontato come nessuno dei suoi figli sapesse niente del suo passato manicomiale, conservato come un orribile segreto e come lui, divenuto padre responsabile, fosse preoccupato di quello che eventualmente potesse accadere loro in questa società, se avessero scelto strade sbagliate.
Già, lui ce l’aveva fatta, come pochi dei bambini o ex bambini da me conosciuti a Cogoleto, ma era qui, presente a testimoniare come fosse possibile uscire da quella piazza maleodorante di escrementi e urina dove venivano tenuti, vestiti tutti alla stessa maniera con le ruvide casacche manicomiali che servivano anche per bloccare le braccia e dove li avevo conosciuti nel 1975: i bambini, reparto 10, (poi trasformato nella comunità Gian Soldi in un futuro allora inimmaginabile), reparto 21 gli adolescenti.
Riflettevo che senza Basaglia, senza le lotte di quegli anni, senza la “Psichiatria democratica genovese”, quella originaria, di Ghirardelli, psichiatra e segretario, e quella importata successivamente a Genova, senza il CIS (Centro iniziative sociali), senza quella nuova giunta provinciale, che dopo tanti anni di indifferenza democristiana, aveva promosso un cambiamento, attivato dei concorsi, quella bella, serena ragazza diciottenne, non ci sarebbe stata e il padre chissà dove sarebbe oggi.
Guardando Giovanni, il padre, non potevo che ricordarlo invece in quell’altro contesto, insieme agli altri, in quell’inferno chiamato manicomio per l’invio nel quale medici pediatri firmavano le richieste di internamento di bambini “pericolosi a sé o agli altri”, che giungevano da tutta Italia e quelle di trasferimento da altre “istituzioni” locali come l’IPPAI, non sufficienti a contenere materiale umano lì depositato in attesa di una soluzione finale. Infatti i gironi infernali cominciavano già prima, (rileggere “I limoni dell’IPPAI” di Maria Grazia Daniele per rendersi conto).
Quando giunsi a Cogoleto, giovane Neuropsichiatra Infantile in formazione, per un incarico a gettone non immaginavo cosa fosse un Manicomio, né come si potessero tenere dei bambini in quelle condizioni.
Il primo impatto mentre ero ancora seduto in attesa di prendere servizio davanti al Direttore facente funzioni, il prof. Menduni, era stato degno di un battesimo del fuoco in trincea: “hanno chiamato dal 19 che una ricoverata ha spaccato una bottiglia in testa ad un’altra degente, vada a ricucirla”. Quello fu il mio primo impatto con il manicomio di Cogoleto e, fortuna che frequentando il pronto soccorso del Gaslini avevo imparato a cucire, perché il mio primo intervento terapeutico da psichiatra fu “di tipo chirurgico”.
Tornando indietro dal padiglione con la mia 500, (il 19 era un reparto lontano dalla direzione e forse anche da Dio), il mio pensiero fu: “da domani, qui, non mi vedono più”, ma andò diversamente.
Infatti dal giorno dopo, insieme ad un collega di specialità, Euri Predonzani, cominciammo a cercare di impostare un qualche tipo di lavoro e attività che, l’anziano primario, unico medico in servizio in quei reparti, era ben contento di appaltarci con un disincanto totale.
Per me, giovane psichiatra attento in quell’epoca alle impostazioni della psicoterapia istituzionale psicoanalitica del 13 arrondissement di Parigi, frequentatore a Parigi e a Ginevra delle lezioni di Lebovici e Diatkine, stagista all’ “Hopital de jour pour enfants” del Centro Alfred Binet, (su cui avrei fatto la mia tesi di specialità a proposito di Psicosi infantili), ci doveva essere un modo per far uscire quei bambini, quei ragazzi da quell’incubo e tuttavia la contraddizione tra psicoterapia istituzionale e manicomio era totale e inconciliabile. I miei tentativi di entrare in relazione attraverso quelle attività come l’acqua, la sabbia, il disegno, che erano alla base del “fare con” a cui si ispirava la psicoterapia istituzionale francese naufragavano inevitabilmente tra crisi di agitazione, mutismo e autolesionismo. Gli schiaffi che si autosomministravano risuonavano come offese ad ogni tentativo terapeutico, le cicatrici incallite sulle mani morsicate dai bambini autistici si univano a azioni auto lesive ancora più eclatanti e feroci. Era facile durante i nostri tentativi sentirsi derisi dalla sfiducia di infermieri che ne avevano viste più di noi e da molto più tempo. Eppure non erano tutti indifferenti alla stessa maniera e lo avrebbero dimostrato con il tempo.
Al contrario della triste esperienza manicomiale, avevo avuto modo nello stesso anno di sperimentare una forma particolare di integrazione nelle colonie del Comune di Genova, per l’esattezza a Crocefieschi. Qui insieme agli altri bambini avevano trascorso 15 giorni di vacanze un nutrito gruppo di bambini psicotici di varia provenienza, ma tutti diagnosticati e seguiti dai servizi. Il caso volle che tra questi ci fosse un bambino tra i più piccoli di età che io stavo seguendo in psicoterapia nel centro di via dei Franzone, dove con L. Martin Cabrè e F. Munoz, due cari amici e colleghi psicologi venuti dalla Spagna con una borsa di studio avevamo avviato una esperienza di attività psicoterapeutica diurna con bambini, ispirata all’ “Unitè de Soir” e supervisionata dai direttori dell’Hopital de Jour del XIII°.
Io mi trovavo lì nella veste di medico della colonia ma il fatto di convivere giorno e notte con questi bambini assistendo a tutte le loro attività e interazioni, in particolare quelle del mio paziente, fu per la mia formazione un’occasione straordinaria. Si trattava di un bambino autistico che non parlava, che era facilmente assalito da crisi di angoscia durante le quali piangeva disperatamente, anche in seduta e che mostrava già un cospicuo callo sul dorso della mano per le morsicature.
Niente di tutto ciò avvenne in quei quindici giorni mentre risultava evidente come lui utilizzasse l’intermediazione dei compagni per comunicare direttamente le sue necessità e come partecipasse delle attività di gioco gruppali che le monitrici organizzavano. Con mia grande meraviglia il bambino che non aveva mai parlato, alla fine dei 15 giorni cantava le canzoncine come i suoi compagni, riuscendo a pronunciare parole attraverso le canzoncine.
Mi sono sempre chiesto come tutto ciò potesse avvenire così semplicemente davanti ai miei occhi. In quell’epoca l’inserimento degli handicappati (allora si chiamavano così) a scuola era fortemente dibattuto e poco chiaro anche il meccanismo attraverso il quale le potenzialità di un’integrazione potessero risultare più efficaci di una scolarizzazione specializzata. Sembrava solo il frutto di una definizione ideologica dei tecnici e della politica. Chi era a favore enfatizzava la ricchezza dei comportamenti acquisita dalle interazioni con gli altri compagni rispetto alla povertà ripetitiva delle interazioni limitate solo a contesti frequentati da bambini portatori di gravi difficoltà. I critici dicevano: non è sufficiente l’imitazione dei sani per riabilitare questi bambini. Ci vogliono scuole speciali e, perché no, istituti speciali.
Forse solo oggi un approfondimento alla luce delle neuroscienze e dello studio dei neuroni a specchio potrebbe dare un senso nuovo a quello che allora veniva banalmente definito “imitazione” e potrebbe aiutare a capire meglio i risultati e le possibilità di un cambiamento positivo all’interno di un contesto comunicativo di integrazione sufficientemente buono.
Anche Guido, all’Ospedale di Cogoleto era diagnosticato come autistico e le sberle sulla faccia, i morsi e il callo sul dorso della mano e la mancanza di linguaggio descrivevano la situazione. E’ pur vero che le diagnosi scritte sulle cartelle, insieme alla foto del paziente, spesso rappresentavano realtà che non era chiaro quanto avessero preceduto o seguito l’istituzionalizzazione. Questo era vero per i bambini, ma più ancora per gli adulti che si trovavano lì da più tempo. Da una ricerca che io feci in quel periodo sull’archivio delle cartelle risultavano ricoverati ancora 100 pazienti adulti entrati in manicomio da bambini.
Eppure già nel 1970 un avvocato genovese aveva fatto conoscere all’amministrazione provinciale la grave situazione dei bambini ricoverati, impegnandosi personalmente a trasportare tutti i giorni 4 ragazzi degenti, già dichiarati pericolosi, dal Manicomio ad alcuni istituti scolastici genovesi, riuscendo a dimostrare l’inumanità e l’assurdità del ricovero.
Le ragioni per entrare in manicomio erano varie, ma spesso legate più che a patologie a problemi sociali o familiari. C’era quindi chi, come la madre benestante che veniva da Roma una volta al mese, figlia di un generale, aveva nascosto e sepolto il proprio bambino a Cogoleto, perché nessuno sapesse che aveva un figlio gravemente insufficiente mentale e c’era chi come Guido, prima ancora di essere diagnosticato, aveva due genitori poveri che dovendo andare in Belgio a lavorare dal Veneto l’avevano lasciato lì per venire poi a riprenderselo. Per un po’ di tempo avevano scritto lettere e chiesto notizie, ma non erano mai tornati. Così raccontava la cartella clinica per chi avesse voluto leggerla.
Se d’altra parte questi erano i problemi con i bambini, con gli adolescenti quello che il manicomio proponeva era una ghettizzazione e lo svilupparsi di situazioni di vero e proprio abuso sessuale a cui i pazienti potevano partecipare a seconda dei casi come protagonisti o come vittime, con la connivenza di qualcuno degli infermieri peggiori. Tra gli infermieri c’erano brave persone che si sarebbero impegnte nell’epoca del cambiamento possibile, molti indifferenti e qualche farabutto, ma nessuno, che io sappia, fu mai diagnosticato dentro il manicomio.
L’esperienza dunque delle attività terapeutiche istituzionali, mutuate da quanto visto nelle strutture parigine di avanguardia, all’interno di una istituzione immodificata sembravano proprio non funzionare ai fini di un cambiamento che invece si verificò nel momento in cui si cominciarono ad abbattere i muri di pietra e quelli simbolici. I bambini cominciarono a poter uscire in gita, ad andare al mare e, di conseguenza, ad essere vestiti da bambini e non più da piccoli matti, cominciarono ad andare in piscina e a dimostrare le potenzialità di cambiamento sul piano fisiologico e comportamentale anche al sottoscritto preoccupato nel momento che entrava nell’acqua con loro, dal momento che non erano abituati a trattenere i propri bisogni corporali.
Non mi capitò mai con loro quello che avevo temuto dal primo momento che potesse accadere mentre eravamo immersi nell’acqua.
Tutto ciò rappresentò per me l’inizio di un modo nuovo, anche sul piano epistemologico, attraverso il quale guardare le terapie, dove il posto centrale era occupato dalla “forza del contesto“.
Nel frattempo molte cose erano cambiate dall’epoca del libro bianco della CGIL sui manicomi a Genova.
Si erano aperte le prime case famiglia negli appartamenti che prima erano in dotazione dei medici dell’OP e delle loro famiglie e i bambini avevano potuto conoscere la neve ospitati nelle colonie invernali del comune di Genova insieme agli altri bambini.
Qui la percezione del cambiamento avvenuto era totale perché nessuno avrebbe potuto riconoscere tra i bambini della foto chi veniva dal manicomio e chi dalle cosiddette famiglie “normali”.
Anche nella mia vita avvenne un cambiamento e dovendo partire per adempiere ai doveri di un tardivo e sofferto servizio militare dovetti interrompere la mia esperienza.
Fu con mia grande sorpresa che un giorno, uno dei giorni trascorsi presso la scuola allievi carabinieri di Fossano come ufficiale medico, mi avvertirono che alla porta della carraia, guardata a vista, si era radunato un manipolo di bambini e ragazzi accompagnati da un adulto, l’infermiere Lanfranconi, per fare visita al loro medico, il Dott. Semboloni.
Li accolsi nel mio alloggio, offrii loro quello che potevo e avevo in quel momento, delle bibite, forse qualche dolce. Quando se ne andarono pretesero di lavare loro i piatti e i bicchieri, come avevano appreso in manicomio.
Grazie Piergiorgio è un ricordo importantissimo per noi che lo abbiamo vissuto ma sopratutto per i giovani che lo potranno leggere! Qualche volta la storia si può ripetere seppure in forme diverse, magari mascherata da esigenze finanziarie!
Una testimonianza preziosissima.
Ho 24 anni e non avevo sinceramente nessuna idea che negli ex manicomi fossero internati anche bambini… ancora più agghiacciante
Complimenti per il suo lavoro e la sua umanità che non si è arresa dottore
Leggo solo ora questa bella testimonianza. Io nel 1975 facevo un tirocinio con assistente sociale a Cogoleto e scoprii con orrore la presenza del reparto 10. Con il sostegno dell’allora assessore Michele Fossa riuscimmo a inserire una decina di quei bimbi e bimbe nelle colonie invernali di Chiavari. Tra quei piccoli c’erano due bambine, Laura e Bianca, pesantemente compromesse, che io e Graziella Belotti seguimmo assiduamente. Devo dire che l’esperienza d’integrazione non fu tutta rose e fiori…… Tra quei minori c’era chi completamente deprivato da sempre era impossibilitato a mettersi in relazione. Anita Chieppa.
Ho ricevuto da mia figlia (che frequenta il TFA) questo breve articolo e ciò ha risvegliato alla mia mente un episodio accadutomi nel 1968 quando, appena diplomata assistente sanitaria, fui assunta temporaneamente all’IPPAI in sostituzione di una collega in gravidanza. Ricordo che mi recai presso l’ospedale psichiatrico di Cogoleto, forse per controllare un inserimento. Ero fresca di studi e priva di esperienza ma l’impressione che ebbi vedendo bimbi e adolescenti in quel contesto mi creò un forte disagio. Al rientro in ufficio ne parlai con l’allora direttrice dott.ssa Bori, non ricordo il suo commento.
Ripensare a quell’esperienza, ancora oggi mi procura una forte sofferenza.