C’è un video diventato virale: sui tetti di Beirut, un musicista con il sassofono continua a suonare mentre i ragazzi della festa filmano i missili che attraversano il cielo notturno, come fossero fuochi d’artificio. L’orchestra del Titanic che suona mentre la nave affonda. Due epoche diverse, stessa dissociazione dalla realtà.
@la.repubblica In Libano, nel villaggio di Kfar Yassine a nord di Beirut, un video mostra i missili iraniani diretti verso Israele solcare il cielo notturno durante una festa. Mentre la musica di un sassofono prosegue, i partecipanti osservano e filmano con i cellulari. A girare il video è stato uno di loro, Ramy Akl, che si è detto “scioccato”. #Iran #Israele #Libano ♬ suono originale – la.repubblica
Quella terrazza non mi è estranea. Nel 2016 ci sono stato anch’io, raggiungendo la mia ex compagna per un internato all’American University of Beirut Medical Center. Un’esperienza che mi ha segnato e che oggi, guardando quei video, assume un senso ancora più profondo.
Il campus americano di Beirut
Ricordo l’impatto visivo: il campus dell’ospedale era un’isola ipertecnologica in uno scenario post-apocalittico. Robot da Vinci per la chirurgia, risonanze magnetiche all’avanguardia, internet ovunque, palestre Technogym, piscine, spiaggia privata, erba verde perfettamente curata. Una bolla spazio-temporale dove tutto funzionava secondo standard occidentali.
Ma bastava uscire dal campus per essere catapultati in un’altra dimensione: Porsche parcheggiate sotto grattacieli sventrati dai bombardamenti del 1982, con gli ultimi piani ancora abitati e arredati, come denti rotti in una bocca che sorride. Una città dove lusso e distruzione convivono in un equilibrio surreale.
L’infiltrazione nel collegio femminile
La mia ex, con la disinvoltura di chi considera normale l’abnorme, aveva deciso che avrei dormito con lei nel lettino singolo del collegio femminile cattolico. I militari con gli MK-46 fuori dall’edificio non mi rassicuravano: ero praticamente l’unico uomo dentro la struttura, e il mio nome, Davide, di certo non mi avrebbe aiutato.
Sembrava un film di spionaggio: dovevo evitare la sorveglianza delle suore, nascondermi nei corridoi, aspettare l’ascensore libero per raggiungere la cameretta al terzo piano. Lei trovava tutto questo normale, quasi divertente. Non aveva visto la guerra, ma era cresciuta in un regime e quando emergere è questione di vita, impari a trovare soluzioni, non a inventarti problemi. O almeno, così mi piace pensare a quelle scelte.
Lo spirito libanese
Nonostante i 15 anni di guerra civile, i 150 mila morti e le sue cicatrici ancora evidenti, lo spirito libanese resta caldo, accogliente, allegro. Ogni rooftop è pieno di musica e persone che si divertono, apparentemente spensierate, in un clima di accettazione: non tutto è sotto il nostro controllo, ma la vita e la festa devono andare avanti. Non si percepisce odio per il nemico, piuttosto la sensazione di un logoramento che stringe i fianchi, da cui emergere con una leggerezza necessaria. I tempi però cambiano e l’avvento del digitale sta colpendo tutti, non certo con le bombe, ma con dei fini meccanismi psicologici che stanno prendendo il controllo della nostra psiche.
La grande onda digitale
Stiamo assistendo a una nuova forma di dissociazione: non più solo difesa individuale, ma performance collettiva per un pubblico globale. I ragazzi mettono in scena la loro realtà complessa invece di viverla.
Nell’era pre-social la dissociazione era temporanea: ti disconnettevi durante la crisi, poi elaboravi. Ora è permanente, perché la crisi diventa continuamente contenuto. Siamo in un costante iperarousal. I giovani vivono simultaneamente la realtà e la performance stessa della realtà: una competenza straordinaria, ma devastante per l’elaborazione del trauma.
Cosa succede quando la sofferenza autentica deve competere con la sua versione spettacolarizzata? Il rischio è che questa dissociazione digitale ci allontani dalla possibilità di sentire ed elaborare il dolore. Che dietro ogni schermo non resti più nessuno in grado di piangere davvero. Che l’alessitimia diventi un disturbo di tratto e non più di stato.
Oggi, guardando quei video, vedo me stesso: un occidentale catapultato in una realtà troppo intensa per essere metabolizzata, che si protegge trasformando l’esperienza in narrazione. Forse il vero cambiamento è proprio questo: la necessità di documentare e condividere la dissociazione. Come se l’esperienza non fosse reale finché non diviene contenuto digitale.
Il ragazzo di Beirut con il sassofono continua a suonare mentre il mondo intorno si sgretola. Non sappiamo se sia coraggio o incoscienza, arte o alienazione. Sappiamo solo che è profondamente, tragicamente umano.