Vaso di Pandora

Abitare la comunità: la comunità terapeutica come entità storica

Identità, relazione, storia…

Stiamo arrivando alla fine del nostro percorso: l’invito è a leggere questa ultima parte di questo capitolo del libro: “Comunità Natura, cultura… terapia” che, a distanza di tanti anni, mi pare possa dire a chi lavora nelle strutture intermedie, qualcosa di utile per saper pensare la Comunità.

Il senso profondo di questa ultima parte credo sia sapere, sentire, che la Comunità in realtà non è un luogo, ma un soggetto, così come un corpo vivente non è uno spazio occupato ma un essere con una sua identità, un suo stare in relazione, una sua storia che si arricchisce con gli anni e come un corpo vivente e fatto di organi, che sono chi la vive e la nutre, da una parte o dall’altra.

Così, il prendersi cura, diventa poi l’elemento fondante della vita di questo strano soggetto, al confine tra un passato di antenati con le migliori intenzioni e diventati un inferno e un futuro da trovare giorno per giorno, rendendo la dimensione educativa (attraverso quella dialogica) ciò che cura e che tutto il resto, la psichiatria, la psicoterapia, i farmaci, la riabilitazione…) rendono possibile.

Concludendo mi piacerebbe che tu, lettore, a questo punto tornassi indietro per accorgerti, rifacendo rapidamente il cammino di qualcosa che ci ha accompagnato lungo tutto questo viaggio, e che sono le metafore, la cui essenza basata su un’ambiguità positiva (secondo Racamier) condividono con il gioco e che sono alla base del conoscere e di fare esperienza della realtà e che ci aiutano a vedere che la Comunità Terapeutica è un come se…e che, come quando siamo bambini, dal come se impariamo, giocando e imitando, a stare al mondo, per poi continuare a imparare e fare esperienza da quelle imitazioni della natura, nei modi specifici di ciascuna, che Aristotele chiamava poetica.

Grazie per la attenzione. Ci siamo per chi si incammina su questa strada!!

La comunità terapeutica come entità storica

Questa funzione appartiene a un mondo fenomenologico completamente diverso, e abbiamo faticato molto a trovarle un nome.

Tuttavia abbiamo visto che essere a casa, avere una residenza emotiva (Zapparoli, 1992), significa rivestire lo spazio di ricordi vissuti che hanno ordine e senso. Questo vuol dire due cose almeno: che la comunità terapeutica è casa se conosce la propria storia e riconosce quella dell’ospite; che l’ospite ha bisogno, per sentirsi a casa in comunità terapeutica, che la propria storia venga riconosciuta, condivisa e restituita. Qui si gioca la terza dimensione fondamentale di scambio: l’essere umano. Ogni vivente, direbbe Bateson (1979), è tale in quanto portatore e costruttore di storie, e solo grazie a esse si mette in relazione con altri esseri viventi. Qui essere costruttori di storie significa essere costruttori naturali di senso, di continuità.

Ogni comunità terapeutica ha una sua storia, che potremmo rappresentarci come la vita di un organismo vivente: quando nasce, la storia è giovane, schematica, se si vuole più ideologica, più legata (nel bene e nel male) al suo mito di fondazione. Col tempo cambia, sulla base dell’esperienza, e cresce; sempre col tempo matura, e ciò che è, è sempre più legato a ciò che è stata. Spesso segue il suo leader in questo processo, a volte ha un respiro proprio.

Quello che qui ci interessa è la sua capacità di svilupparsi apprendendo dall’esperienza. E da questo punto di vista i due poli che vanno tenuti presenti sono da un lato la varietà dell’esperienza e dall’altro la tolleranza di questa varietà.

La comunità terapeutica si trova ad avere continuamente a che fare con un nuovo che viene sia dal cambiamento delle persone che vi abitano, sia dai cambiamenti continui dell’ambiente culturale di cui fa parte. È chiaro, oggi, che tutto è in rapida evoluzione, e questo amplifica il conflitto tra il confronto con il nuovo e la necessità di adattarvisi. A questo problema ogni vivente deve trovare una soluzione, all’interno dei propri limiti e delle necessità postegli dall’ambiente.

Un esempio di reazione al nuovo potrebbe essere rappresentato dalla specializzazione: la comunità terapeutica che si affina e seleziona meglio (e può permetterselo, perché è diventata nota per certe sue capacità). Così facendo limita il campo del nuovo, e probabilmente migliora la sua prestazione, il suo successo. Se questo può sembrare un progresso e una crescita, costituisce in realtà anche un pericolo e un limite, perché espone alla ripetizione e all’isolamento culturale, che a sua volta finisce per essere fatale per la vitalità della comunità stessa, che si perde nella propria abilità. La scelta di aprirsi a realtà nuove e scomode, invece di coltivare tranquillamente ciò che si conosce meglio, può invece essere decisiva per la vitalità della comunità terapeutica.

In questo senso, i maestri migliori sono proprio gli ospiti, purché lasciati liberi di esprimersi. Non vogliamo però parlare qui di capacità tecnica, ma più in generale di esperienza di vita, di cambiamento e crescita dei propri valori comunitari, continuamente messi in discussione dai nuovi arrivati, che sono spesso portatori di conflitti nuovi; tali conflitti offrono alla comunità terapeutica l’occasione di confrontarsi con i cambiamenti sociali; saperli riconoscere e affrontare arricchisce la comunità terapeutica, che rafforza la propria identità e diventa maggiormente capace di crescere e imparare dal nuovo.

Una metafora di questo processo, sul piano fisico, potrebbe essere la digestione, sul piano psicologico l’apprendimento e la crescita. L’idea di base è che la comunità terapeutica, come un organismo, si nutre e cresce di ciò che le arriva, vale a dire le storie di chi ci vive e ci lavora.

Tutti, operatori e ospiti, la fanno vivere con sé stessi e con le loro storie. La storia stessa della comunità terapeutica, che diventa alla fine il principale fattore terapeutico, è fatta dalle sue mura che s’impregnano di ciò che è avvenuto, di ciò che è stato portato da fuori.

Questo è ciò che la comunità terapeutica può offrire alla relazione storica con il suo ospite. Da parte sua, quando un nuovo ospite entra in comunità terapeutica porta i suoi valori e le sue esperienze, e implicitamente li propone alla comunità terapeutica in forma di conflitti e bisogni.

Questo confronto può essere evitato; un regolamento rigido è un buon modo di trasformare il confronto in una lotta di potere che risparmia a tutti il mettersi in discussione.

Se invece il nuovo viene riconosciuto (non accettato!), si apre un modo diverso di porsi in relazione, con la possibilità di uno scambio.

Nella vita quotidiana delle comunità terapeutiche, o delle strutture improntate ai principi della comunità terapeutica, troviamo costantemente esempi di questo problema. Una struttura relativamente grande (circa 40 posti) ma improntata ai principi della comunità terapeutica, da poco tempo, con l’inserimento di tre ospiti adolescenti, si trova a vivere questi scossoni culturali in maniera più piena e costante. Le tre pazienti hanno mostrato alla comunità una nuova modalità di aggregazione, tipicamente adolescenziale: sembra di vedere un vero e proprio gruppo di pari esterno, un’aggregazione che sembra creare amicizie, conflitti, rapporti interpersonali che esulano da quanto siamo abituati a vedere nella comunità terapeutica. Le tre ragazze organizzano spesso, all’interno della stanza di una di loro, una vera e propria discoteca, con lo stereo a volume elevato (fonte di grave disturbo) e con abbigliamenti che fanno pensare a una discoteca.

Questo atteggiamento viene accolto in vario modo: sebbene trasgredisca di fatto diverse delle regole della comunità, viene tollerato e alla fine accettato da tutti (e limitato quando supera il li-mite). Alla fine diventa per alcuni ospiti un’occasione per recuperare aspetti più «ragazzini», con l’inevitabile corteo di trasgressioni e conflitti; per l’istituzione, l’occasione per trovare in sé la possibilità di riconoscersi anche in queste modalità di relazione. Questo, a sua volta, ha permesso a un gruppetto di ragazzine di creare intorno a sé un ambiente accettabile. Questo esempio minimo ci permette di capire che cosa l’ospite porta in comunità terapeutica: valori e conflitti che sono nella sua storia e che devono essere messi in gioco in qualche modo, non fosse altro che per la lunghezza del trattamento.

Ma se è evidente, da questo punto di vista, che gli ospiti e quindi il turnover sono un formidabile strumento di apprendimento e di crescita, potremmo domandarci che cosa dà in cambio la comunità terapeutica all’ospite.

Ebbene l’ospite, che arriva sulla scia di una lunga serie di falli-menti, ha la possibilità di vedere confrontati i suoi valori e la sua storia con quelli di altri. L’essere in comunità terapeutica gli permette di fare esperienza e infine di riavere indietro i suoi valori, le sue esperienze, la sua storia, resi più positivi e rivisti nella relazione con la comunità terapeutica. A tale scopo, è necessario inserire nella relazione del soggetto con la comunità terapeutica questo elemento storico, che a sua volta apre al paziente la possibilità di porsi in relazione. Si apre così una relazione nuova, che ha a che fare con la terza categoria di luogo fondamentale in Augé: la dimensione storica. La comunità terapeutica si pone in relazione come entità storica, ma in modo adeguato alle richieste e ai bisogni del paziente.

E importante qui richiamare un principio che è stato esposto all’inizio del libro: in questa posizione, siamo agli antipodi del non-luogo; siamo anche agli antipodi dell’ospedale; la tensione tra cura ed esperienza di vita, tra vivere e curarsi, si risolve nell’accogliere la relazione nei suoi aspetti più pregnanti.

Abbiamo così preso in considerazioni tre modi (più uno) di leggere la relazione tra la comunità terapeutica e il suo ospite, una relazione che tende a trasformare un non-luogo (anonimo, non riconoscente) in un luogo, e, ciò che conta, in un processo di animazione del vissuto quotidiano che riguarda un aspetto fondamentale, in senso letterale, della vita: l’abitare.

E qui arriviamo, come traguardo, al nostro punto di partenza.

Quando la comunità non è più ospedale, si pone nella situazione di base per essere ciò che dicevamo all’inizio: un luogo, uno spazio sociale dove alcuni elementi di base dell’essere umano possono essere rivisti e rimessi in gioco, offrendo una seconda opportunità. Un ambiente che non esasperi gli aspetti peggiori di ognuno, ma cerchi al contrario di recuperare nei limiti del possibile un’armonia accettabile nella propria via emotiva, che è la base di tutta l’attività psichica, raccogliendo in modo specifico, e non analogo, il compito dell’istituzione più radicata nella nostra società e nella nostra cultura (anche se oggi in forte crisi): la famiglia.

Ci siamo posti il problema di rappresentare l’esperienza comunitaria del luogo comunità terapeutica. Ognuna delle modalità che abbiamo presentato fa riferimento da un lato a un modello teorico di intervento tecnico che è sostanzialmente quello psicoanalitico, e che abbiamo cercato di indicare, dall’altro a un modello antropologico che è quello della surmodernità, dove i luoghi diventano tali in funzione di certe loro caratteristiche culturali che si possono raccogliere, come ha tatto Augé, sotto i concetti generali di identità, relazione e storia.

L’esperienza comunitaria è senz’altro molto di più; il fatto di abitarvi non ne è che un aspetto, e forse neppure tra i più importanti in chiave terapeutica, ma l’abitare realizza una funzione di base dell’essere umano, e ci è sembrato utile approfondirne il significato in comunità terapeutica.

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