La questione che pone Massimo Ammaniti nell’articolo pubblicato su la Repubblica, è largamente condivisibile: non si può, come fa il Governo, rendere i Servizi per la Salute Mentale progressivamente insufficienti ad affrontare i problemi della Psichiatria, visto che non assume, ormai da anni, il personale che va in pensione e che mancano, a questo punto, come rilevato da Ammaniti, dieci mila operatori e poi uscirsene con il Ministro Piantedosi con una “terza via” tra il Manicomio di prima, che nessuno vorrebbe più e l’incapacità di fronteggiare, nel territorio, le drammatiche realtà che si verificano tra la popolazione: ultimamente il fatto di Milano e, ora, quello di Muggia.
La terza via proposta da Piantedosi
Io penso che sia gravissimo che un Ministro degli Interni si arroghi il diritto di proporre una “terza via”, cioè la via del Manicomio buono.
Il problema della gestione corretta della Salute Mentale è un problema sanitario e come tale deve rimanere inquadrato: non è un problema di Ordine Pubblico.
Forse il Ministro Piantedosi non si è accorto della Legge 180, la legge Basaglia, che oltre a proporre la chiusura dei Manicomi, proponeva l’istituzione di Servizi territoriali che fossero in grado di svolgere gli stessi compiti: curare i pazienti e sostenere le loro famiglie.
No, per lui il fatto di Milano e quello di Muggia riguardano la necessità di preoccuparsi dell’Ordine Pubblico, che è di sua spettanza.
Ma torniamo alla necessità di giungere alla corretta gestione dei problemi della Salute Mentale, partendo proprio dalla gestione dei “casi difficili”.
Io ritengo che il problema principale sia costituito dall’idea che casi di questa complessità possano essere gestiti attraverso gli epigoni di una cultura dell’intervento psichiatrico che non ha saputo fare tesoro dei progressi scientifici degli ultimi anni, in particolare dell’apporto inequivocabilmente chiaro delle Neuroscienze.
Lo studio di Allan Shore sulla relazione tra bambini e genitori
Le Neuroscienze, infatti, come ha brillantemente Allan Shore, l’autore più consultato al mondo, hanno dimostrato che quanto osservato clinicamente dagli psicoanalisti per oltre un secolo era vero anche dal punto di vista scientifico: le relazioni tra il bambino e i suoi genitori si fondano sulle emozioni, che sono alla base delle modalità attraverso cui si instaurano le relazioni significative tra il neonato, la madre e il padre, prima e dopo la nascita. I primi due anni sono fondamentali non solo in relazione alla maturazione psico-fisica del bambino ma anche in relazione al modo in cui
saranno tendenzialmente costruiti tutti gli altri tipi di relazione in seguito.
Allan Shore arriva a dire che se uno psicoterapeuta vuole arrivare ad essere di aiuto al suo paziente, ha la necessità di imparare ad entrare in comunicazione con l’emisfero destro del paziente, che contiene le emozioni, attraverso il suo emisfero destro.
Tutto ciò è il contrario di quello che viene insegnato a psichiatri e psicoterapeuti provenienti da Scuole non di orientamento psicoanalitico, che non prevedono una formazione adeguata per i futuri psicoterapeuti: che il paziente grave è un insieme di sintomi, da tenere a distanza, perché, se ci si avvicina troppo, si corre il rischio di bruciarsi.
La preparazione degli operatori
Ma che cosa costituisce una preparazione adeguata per gli operatori? Che consenta loro di tollerare e imparare a gestire relazioni terapeutiche con i pazienti gravi? L’unica misura che consente di dotarsi di un adeguato sistema di sicurezza è costituito dal fatto che l’operatore si sottoponga ad un’analisi personale, come fanno i futuri psicoanalisti o psicoterapeuti psicoanalitici, ma che, tutt’ora, né la psichiatria, né le scuole di psicoterapia non psicoanalitiche considerano essenziale per quel che concerne la preparazione dello psichiatra e dello psicoterapeuta.
Insisto sulla questione della necessità di dotare gli psichiatri e gli psicoterapeuti di capacità adeguate a permettere loro di entrare in rapporto con i pazienti psichiatrici gravi, perché, altrimenti, ci troveremo di fronte al fatto che episodi come quello accaduto si ripeteranno e ciò alla fine costringerà l’opinione pubblica a decidere per la riapertura dei Manicomi, però quelli buoni, proposti da Piantedosi.
Quello che voglio dire è che ci dobbiamo mettere in testa che abbiamo bisogno di personale qualificato per gestire fuori delle mura manicomiali pazienti gravi come quelli che, in caso contrario, possono giungere a fare chi sa che cosa, attraverso la costruzione e la manutenzione, nel tempo, di relazioni di cura tra i pazienti ed operatori in grado di occuparsene.
Ma un’analisi costa molto impegno ed un notevole dispendio economico.
Allora il problema è irrisolvibile?
Io penso che una via d’uscita possa esserci: che si possa passare dalla posizione di chi si tiene lontano dalle relazioni terapeutiche con i pazienti gravi, psichiatri e psicoterapeuti non adeguatamente preparati, a quella che tali eventualità, di costruire relazioni terapeutiche adeguate, siano praticabili.
Questo risultato possa essere ottenuto lavorando e imparando mentre si partecipa ad un Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF).
I miei colleghi ed io, del Laboratorio italiano di Psicoanalisi Multifamiliare, abbiamo avviato, attraverso l’attuazione di due Seminari Teorici e la presenza mensile, insieme agli operatori, al GPMF, per almeno un anno successivamente all’inizio, l’attuazione di un GPMF. Mentre la volta che non andiamo a lavorare con loro, gli operatori gestiscono il GPMF da soli e, la volta che andiamo, ce la mostrano, dopo averla registrata e ne parliamo insieme (supervisione).
In questa maniera, semplice ed artigianale, permettiamo agli operatori di rendersi conto della necessità di prendere in esame la “dimensione psicologico-psichiatrica” del problema, sulla falsariga di quello che, nel caso specifico, ha proposto il prof. Ammaniti.
I GPMF, infatti, oltre a consentire la presa in considerazione della patologia psichiatrica grave come un problema che riguarda in primo luogo la sussistenza di un legame di interdipendenza patologica e patogena tra un figlio paziente e un genitore e la necessità di “allentare” questo tipo di legame con l’aiuto della presenza di altri nuclei familiari, permette agli operatori di rivivere, all’interno del gruppo stesso, la propria storia personale e di rielaborarla. Decidendo, successivamente, se e come approfondire, anche in altri contesti: personali, familiari o di piccolo gruppo ad orientamento psicoanalitico, l’analisi delle proprie vicende e la ricerca di un migliore equilibrio personale.
L’importanza dei Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare
Quello che voglio dire è che i GPMF possono permettere, mentre vengono usati, la diffusione della necessità di un approfondimento delle proprie conoscenze nella direzione di non seguitare a pensare che il mondo in cui vivono le persone normali, i nevrotici, sia così distinto da quello in cui vivono i matti. Che anche questi ultimi possono essere capiti, anche se non giustificati, se compiono un atto di qualsiasi tipo che sia in grado di ledere un’altra persona. E, soprattutto, che gli operatori possono riuscire ad addivenire ad una posizione che non rischia di rimanere “teorica”, ma che deve trovare la capacità di un’attuazione pervicacie e costante, nella direzione di costruire relazioni terapeutiche significative nei confronti di quei matti, per i quali qualcuno pensa, da tempo, di riaprire i manicomi, magari chiamandoli in un’altra maniera.
Quanto espresso dal prof. Ammaniti è sicuramente vero, ma siamo tutt’ora lontani dalla possibilità di trasformarlo in una pratica generalizzata.
I Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare, se inseriti sistematicamente all’interno dei DSM, potrebbero fornire uno strumento utile a modificare radicalmente l’atteggiamento di fondo dei DSM stessi che, da esclusivamente in prevalenza psichiatrici, potrebbero divenire psicoterapeutico-psichiatrici, con un importante ricorso all’orientamento psicoterapeutico, necessario alla gestione dei casi psichiatrici gravi.
L’introduzione die GPMF nei DSM non corrisponde ad un’esigenza tecnica, ma politica: la psichiatria, da sola, incontra grandi difficoltà ad occuparsi dei pazienti psichiatrici gravi senza il Manicomio. Quindi necessita dell’integrazione con la psicoterapia psicoanalitica, che può avvenire attraverso il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare, soprattutto per quanto riguarda la formazione degli operatori.



