Questo articolo nasce da una domanda posta da una mia amica, una domanda semplice: “Mi spieghi perché è successo?”.
L’episodio di cronaca che ha suscitato questa domanda in sé è ai limiti dell’assurdo: un agguato di una tifoseria al pullman della squadra avversaria causa una vittima, l’autista, colpito in pieno da un sasso lanciato dai tifosi. Una tragica morte che si fatica a incastrare in un discorso dotato di senso, e che chiaramente origina una domanda comprensibile e anche semplice, ma la cui risposta non lo è affatto.
La banalità del male di Hannah Arendt
Di fronte all’assurdità di questa morte mi è venuto immediatamente da pensare a ciò che Hannah Arendt scrive nel suo libro La banalità del male a proposito dell’Olocausto. La filosofa sviluppò il suo pensiero osservando il gerarca Eichmann, uno dei maggiori responsabili della macchina di morte organizzata dai nazisti per sterminare ebrei e oppositori, durante il processo a suo carico che si tenne a Gerusalemme. Arendt sottolineò il fatto che Eichmann non fosse né un mostro né un fanatico nazista, ma un semplice impiegato abbastanza mediocre.
Secondo lei il punto era proprio questo: non servono persone straordinarie per commettere atrocità, bensì uomini e donne ordinari, anche mediocri, caratterizzati da una pressoché totale assenza di senso critico e da una mancanza di riflessività sulle proprie azioni. Questo porta le persone ad agire in maniera meccanica, eseguendo ordini o seguendo la massa acriticamente. Ed è proprio questa anestesia della coscienza, come viene definita dall’autrice, a permettere l’esecuzione delle più feroci atrocità.
Non servono persone straordinarie per commettere atrocità
Come si evince dal discorso, non è neanche necessario un indottrinamento feroce oppure un odio personale viscerale verso le vittime, quanto piuttosto una omologazione acritica alla coscienza collettiva. Lo stesso concetto viene sottolineato da Jung quando parla del nazismo, citando come responsabile della fascinazione del popolo tedesco riguardo a un’ideologia sanguinaria il fatto che quest’ultimo si fosse identificato con l’inconscio collettivo, abbandonando quindi la riflessività individuale proprio a causa del trauma subito dalla sconfitta della Prima guerra mondiale e dall’umiliazione derivata dalle durissime sanzioni imposte dall’Intesa. A quel punto, la folla tedesca sarebbe stata pronta a seguire un capo che incarnasse perfettamente il sentimento di rabbia e di rivalsa che si agitava nell’Inconscio: Hitler fu quindi soltanto l’uomo adatto per l’occasione. Sia Jung che Arendt sottolineano tuttavia che questo meccanismo non esenta l’individuo dalla responsabilità personale per quanto accaduto: non basta dire “Ho eseguito gli ordini” per lavarsene le mani.
L’episodio di Rieti
Come si concilia tutto ciò con l’episodio di Rieti? Con le dovute proporzioni, un semplice individuo che è preda di anestesia della coscienza può cadere vittima della fascinazione del gruppo, in questo caso del gruppo ultras e di conseguenza dei messaggi veicolati dai loro capi, e lanciare una pietra contro un innocente semplicemente perché “bisogna assaltare il pullman avversario” oppure perché “bisogna dimostrare che qui comandiamo noi”. La spiegazione è appunto banale, ed è desolante nella sua semplicità: niente traumi personali, niente odio atavico per ragioni legate alla propria storia, “soltanto” sospensione della capacità critica sull’onda della fascinazione collettiva.
Chi vuole avere un’idea più chiara di quanto rappresentato qui può guardare l’interessante film L’onda, girato da Dennis Gansel nel 2008 e basato su una storia vera, nel quale un professore, per spiegare il totalitarismo, riesce a trasformare la sua classe in un gruppo fascista fino a perderne il controllo, quando la psiche collettiva sopravanza le singole menti individuali.
Una sconfitta per la società
La pietra lanciata contro il vetro del pullman è in realtà una sconfitta per la società: questa anestesia deriva, a mio avviso, da una mancanza di individuazione prima dell’individuo ma poi anche della società, la quale avendo come unico ideale la performance non riesce più a fornire le risposte esistenziali necessarie all’individuo per attribuire un senso al mondo.
Da ciò deriva che, in mancanza di valori protettivi (filosofici, politici, religiosi o legati alla morale collettiva ) l’individuo in anestesia di coscienza non è più in grado di sublimare l’aggressività e deve agirla dando sfogo al processo primario, per dirla con Freud, ovvero al libero sfogo delle pulsioni senza la mediazione dell’Io. In quel caso, ciò che dovrebbe essere un coro di scherno verso la tifoseria avversaria o qualche striscione goliardico appeso sulla strada del ritorno del pullman dei rivali diventa un’aggressione in piena regola, con tanto di morto che, semplicemente, deve morire in quanto è un nemico come un altro. Tutto lineare, se non ci fosse una persona che non rivedrà mai più la sua famiglia e che quella mattina, prima di uscire di casa, non avrebbe mai immaginato di non fare più ritorno.
L’importanza del dissenso
Arendt ci insegna a vigilare, a non dare per scontato che la distinzione tra bene e male sia così rigida, e a non smettere di dare voce al dissenso rispetto a una morale collettiva che muove acriticamente le masse verso obiettivi distruttivi: non importa se si tratti di un’ideologia totalitarista o di un gruppo ultras, il concetto resta uguale. Chiediamoci quindi non solo perché sia morta una persona innocente per un motivo futile, ma come ci è arrivata quella pietra in quelle mani: la pietra scagliata non è infatti solo il gesto di un singolo, ma il segnale di quanto ciascuno debba restare vigile per non cedere la propria coscienza al sonno e quindi all’invasione dei contenuti dell’ Inconscio collettivo.



