Qualche giorno fa c’è stata una ennesima aggressione ad un insegnante colpita con un pugnale da caccia da un suo alunno di 16 anni, che, dopo essere stato interrogato e rimandato a posto con un brutto voto, si è scagliato contro la professoressa davanti ai compagni. È una notizia forte ma è anche una notizia che attira commenti altrettanto forti.
“Serve lo psicologo” commenta il Ministro dell’istruzione. Vado a cercare, sperando di non trovare ciò che mi aspetto, i pensieri di risposta sui social: “Soprattutto per i genitori”, “Serve Rebibbia non lo psicologo”, “Lo psicologo? Serve la galera che a forza di buonismo l’Italia è ridotta ad una fogna a cielo aperto”. Mi fermo, non ho più voglia di banalità. Chissà poi cosa c’entra la psicologia con il buonismo.
La faccenda è molto complessa. Certo è che, sarà per il lavoro che faccio, penso a questo ragazzo, alla sua rabbia, alla sua sofferenza esplosa. Dopo questo gesto eclatante ha minacciato i compagni con una pistola giocattolo. Chissà da dove viene questo bisogno di mostrarsi feroce e pericoloso, chissà chi ha contribuito a renderlo così. Ma così come? E chi lo sa…la faccenda è appunto complessa.
Se c’è una cosa che ho imparato lavorando con i pazienti autori di reato è che per pochi di loro, o forse per nessuno, mi sentirei davvero di utilizzare il termine “cattivo”. Fragili, incapaci di gestire le emozioni, cercatori infallibili di situazioni pericolose per loro stessi, il più delle volte, e ogni tanto anche per gli altri.
Torno a leggere l’articolo di Repubblica. Sobbalzo davanti alle parole del Ministro Valditara che auspica “la costruzione di un servizio di assistenza delle menti e delle coscienze di una generazione confusa e aggressiva”. Quante parole. E quanta burocrazia. Perché, come spesso succede, mentre la faccenda si complica, ci si attorciglia in cavilli burocratici e fondi economici senza che nessuno dica la verità.
Naturalmente neanche io conosco la verità e nemmeno la soluzione, ma mi infastidisce sentirmi addosso, in quanto figura professionale coinvolta, il carico, l’aspettativa di dover risolvere una complicata faccenda le cui origini sono molteplici, situate su vari fronti, in una scuola che credo proprio si trovi in difficili condizioni e mi permetto di dire funziona poco.
Mi è capitato ultimamente di avere tra i miei pazienti privati diversi insegnanti. Si sentono soli, in balia di una bizzarra organizzazione, poco gratificati, sminuiti nel loro ruolo.
Ho seguito adolescenti alle soglie dell’esame di maturità che mi hanno raccontato di essere delusi, di sentirsi poco compresi, di percepire intorno a loro una scuola che non li accoglie ma li giudica.
Infine, ho raccolto le difficoltà di colleghi, arruolati in fretta e furia nelle scuole, magari in piena emergenza pandemica, spesso giovani e poco esperti, che si trovano a dover gestire situazioni complicatissime in poche ore settimanali. Troppe cose che mi fanno pensare che si tratti proprio di una complicata faccenda.
Si è vero serve lo psicologo. Ma non solo questo e non aspettando che con la sua meravigliosa bacchetta magica, possibilmente da solo, in poco tempo, a basso costo, tra un cavillo burocratico e l’altro, risolva una brutta storia dove qualche insegnante ogni tanto finisce in pronto soccorso.
Mi piacerebbe non pensarlo ma mi pare l’ennesima volta in cui non proviamo realmente a capire come stanno le cose.
Brava Anna.
Problemi complessi, il riferimento agli autori di reato è quanto mai centrato, non si risolvono ne con proclami ne con semplificazioni banalizzanti.
Invece, assistiamo prevalentemente a cortocircuiti mentali i quali anziché contribuire ad educare pensando, parlano come si suol dire “alla pancia della gente”.
Il malessere strisciante indica una società che via via diventa sempre più incivile ed incapace di assumersi delle responsabilità: è sempre colpa dell’altro.
Io penso che se un servizio pubblico non funziona la responsabilità è di chi lo dirige.
Per dirigere bisogna saper pensare e lavorare alacremente tollerando di star soli.
Lo psicologo non serve a niente, come non serve la forza pubblica se non inserita in un modello chiaro e condiviso di organizzazione sociale. Ma il discorso diventerebbe molto lungo…
Avendo una figlia adolescente questo argomento e queste tue parole mi incuriosiscono e mi attivano su alcune riflessioni personali. Vivo in un contesto di campagna dove c’è una scuola che accoglie l’Infanzia, la Primaria e la Secondaria, i bambini si conoscono e crescono insieme, come anche i genitori. Il contesto è sicuramente favorevole, la scuola è nuova, l’edificio curato, si fanno molte attività all’aperto, si da importanza alle arti figurative e alla musica. Ci sono casi difficili certo, famiglie in difficoltà, ma il gruppo, la rete sociale, che è forse facilitata dal contesto a misura d’uomo, ha saputo integrare e aiutare. Negli anni sono stati inseriti ragazzi che arrivavano da fuori, proprio in virtù di queste caratteristiche, quasi un viaggio della speranza scolastico, andati a buon fine. Nella mia esperienza ho trovato insegnanti molto preparati e mi sono stupita anche della loro sensibilità verso il benessere psicologico degli alunni. Gli insegnanti poi mi hanno sempre dato l’impressione di essere un corpo docenti unito, sereno, senza critiche personali verso i colleghi, un gruppo di persone che sa darsi sostegno vicendevole. Insomma una Scuola Terapeutica che gestisce il gruppo ma non dimentica il singolo, attuando dove necessario, percorsi individualizzati. Continuo a trovare molte similitudini con il nostro lavoro. Questi “ragazzi di campagna” avranno gli strumenti necessari per affrontare il nuovo contesto cittadino?
Chissà! Ma come dice il detto: “Senza le basi scordiamoci le altezze”