Vaso di Pandora

Storia della Psichiatria: III – DA GORIZIA ALLA LEGGE 180

LE PUBBLICAZIONI

Ricca nei decenni fra 1960 e 1980 la produzione di opere miranti a una profonda revisione critica del pensiero e della prassi psichiatrica.
 
Nel 1961 Thomas Szasz scrive “Il mito della malattia mentale”, evidenziando le numerose aporie legate al concetto stesso, almeno per le forme – decisamente le più numerose – prive di un dimostrato substrato biologico. Segue nel 1970 “I manipolatori della pazzia” che paragona, a prezzo di notevoli forzature, la prassi psichiatrica alla caccia alle streghe di secoli prima. Non giunge a negare la validità totale di un approccio psichiatrico, ma invoca  un divorzio fra psichiatria e potere statale paragonabile a quello realizzatosi con le credenze religiose: esclude quindi la ammissibilità di qualsiasi intervento psichiatrico coercitivo, e persino un qualsiasi intervento dello Stato nei problemi di salute mentale. Facile la critica a questa posizione: se l’approccio psichiatrico ha una sua utilità, qualora fosse circoscritto a un rapporto fra privati le fasce di popolazione più sacrificate non potrebbero fruirne.
In Italia, ci limitiamo a ricordare –oltre a Basaglia –  Edelweisss Cotti. Egli si unisce a questa radicale contestazione, riferendo delle proprie esperienze liberatorie a Villa Olimpia di Bologna e all’Ospedale Psichiatrico di Cividale. Ispirandosi  a Carl Rogers, afferma il fondamentale valore terapeutico  del calore umano.  
Posizioni di questo genere si fanno strada nell’opinione pubblica, sempre incline alle semplificazioni: molti ricordano il film “ Qualcuno volò sul nido del cuculo”, tratto  da un libro del 1962 di Ken Kesey e interpretato da un grande Nicholson. Il messaggio è: l’istituzione psichiatrica e l’istituzione familiare sono organi di una società iniqua, alleati nel controllo e mortificazione dell’Eros: di fatto creano la sofferenza mentale che poi pretendono di controllare sadicamente. Evidente il riferimento a Ronald Laing, anch’egli fortemente critico del concetto di malattia mentale, e nelle cui opere (l’Io diviso, 1960 – Normalità e follia nella famiglia, 1964) confluiscono influssi, oltre che dell’esistenzialismo e del marxismo, anche delle teorie sistemiche di Bateson e della sua scuola.
E’ quest’ultima l’ispirazione prevalente in Cancrini che in “Psichiatria e rapporti sociali” edito nel 1976 in collaborazione con Malagoli Togliatti contesta la psichiatrizzazione dei bisogni e ravvisa un sostanziale mutamento del modello di diagnosi psichiatrica: il tecnico non dovrebbe accettare a corto circuito la designazione del paziente, invalidandolo. L’autore è critico anche nei confronti della psicoanalisi che sfumando i confini sano – malato può certo favorire l’incontro ma comporta il rischio di  aumentare lo spazio della malattia: dà l’esempio di Karl Menninger, secondo il quale “tutti sono più o meno malati”. (fra parentesi, questo mi ricorda un aneddoto personale: quando abbiamo avviato incontri di equipe in reparto cercando, credo un po’ maldestramente, di evidenziare le dinamiche operanti negli operatori, un’infermiera è intervenuta: “ma nu semmu miga marotte”).    
Sì dunque all’intervento psichiatrico anche tecnico, ma necessità di un controllo politico; o meglio consapevolezza della inevitabilità di un background politico che, in  forme e con finalità ben diverse, è sempre esistito.
E’ in quest’ottica che l’approccio sistemico – relazionale ottiene allora un diffuso consenso, al di là della sua indubbia validità: in qualche modo concilia il ricorso a una precisa tecnica con la spinta a spostare l’accento dal malessere individuale a un malessere di gruppo per il quale il concetto di malattia sarebbe improprio.    
In diversa ottica, su posizioni di mediazione anche   Jervis che nel 1967 in collaborazione con Schittar scrive “la vera storia dei rapporti fra gli psichiatri e i malati mentali”, mettendo in guardia contro il  rischio di una caccia alle streghe contro il passato.   Nel 1975 esce il suo “Manuale critico di psichiatria”: esso è fondamentalmente ispirato alla necessità di integrare la consapevolezza del background politico di teoria e prassi psichiatriche con la ineliminabile competenza tecnica: questa va però offerta in forme comprensibili, che tendano a ridurre lo squilibrio di sapere e di potere fra il professionista della salute mentale da un lato e l’utente – e l’intera collettività – dall’altro.  
A sua volta   Giovanni Berlinguer in “Psichiatria e potere!”(citato da Arnaldo Ballerini in  “Aspetti della psichiatria contemporanea”) mette in guardia contro un riduzionismo sociopolitico, che pretenderebbe ridurre la malattia mentale a una etichetta inventata a fini di controllo. Sarebbe questa una posizione idealistica che ignorerebbe il soma e chiuderebbe la strada a nuove indagini scientifiche. Mi pare interessante questo riferimento all’idealismo, perchè ricorda l’eredità hegeliana ben presente –mutatis mutandis –in Marx.

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