Vaso di Pandora

Spunti dal XV congresso della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica

Autore Paolo Francesco Peloso in collaborazione con: Lucia Di Pace, Maria Grazia La Manna, Cristina Morbelli, Roberta Fravega (UO SM Distretto 9 del DSMD dell’ASL 3 della Liguria)

Dal 23 al 25 novembre 2023 si è svolto a Bologna il XV congresso della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica “Oltre il posto letto: riabilitare la residenzialità”, tre giornate decisamente ricche di spunti.

La prima giornata: residenzialità e autori di reato

La prima giornata è stata aperta da Angelo Fioritti, che la presiedeva con Nadia Magnani, ricordando come il recepimento di una proposta volta al superamento degli OPG redatta da parte del giurista Alessandro Margara e fatta propria della regione Emilia Romagna avrebbe consentito di ultimare il superamento degli OPG in modo forse più lineare e con qualche anno di anticipo, come pure il fatto che la residenzialità risponda secondo i dati disponibili ai bisogni assistenziali del 3.4% degli utenti dei servizi italiani, ma per farlo assorba il 40% circa delle risorse.

Già negli anni nei quali si preparava la legge 81/2014 la residenzialità è stata individuata con sempre maggiore frequenza da servizi e magistrati come una soluzione in grado di assicurare ai soggetti autori di reato privi di particolare complessità gestionale, che tuttavia non ci si sente di lasciare al domicilio, un grado sufficiente di controllo sia dei movimenti che dell’assunzione della terapia.

Questo ha determinato un cambiamento in molte strutture residenziali che si sono viste nella necessità di rispondere a compiti di controllo che le hanno in qualche misura snaturate, oltre a determinare in qualche caso un aumento dei posti letto, in altri un aumento della percentuale di autori di reato a scapito di altre categorie di soggetti.

Una minoranza di pazienti autori di reato, che dovrebbe essere selezionata per complessità gestionale ma non sempre lo è, è collocata nelle REMS, dove a giugno 2023 risultavano circa 500 posti letto occupati e un numero di quasi 700 soggetti in lista d’attesa. Numero tanto più elevato, osservava Fioritti, proprio dove la disponibilità di posti REMS era più alta, a dimostrazione che la necessità di posti REMS dipende probabilmente più dalle abitudini e la cultura di magistrati e periti che non da necessità obiettive di sicurezza.

Conclude il quadro la presenza stimata di 6.000 soggetti complessivi in libertà vigilata in carico ai servizi.

Tra le criticità evidenziate, la mancanza di criteri unitari di accesso alla salute mentale e la difficoltà di contemperare l’approccio comunitario comune a molte strutture residenziali con le esigenze poste dalla sicurezza e di una sufficiente collaborazione interistituzionale tra sanità, sicurezza e sistema giudiziario-penitenziario.

Giovanni De Girolamo ha identificato, con riferimento alla letteratura epidemiologica internazionale, i fattori di rischio di violenza tra i malati mentali, distinguendoli in statici (genere maschile, età giovane, storia d’abuso subito, precedenti violenti ecc.) e dinamici (povertà, dipendenze da alcool e sostanze ecc.).

Ha citato due scale, la Moas (Modified Overt Aggression Scale) per misurare la frequenza ed il grado di gravità degli episodi aggressivi, e la PANSS (Positive and Negative Syndrome Scale) per la valutazione clinica.

Ha poi citato qualche dato interessante:

  • la percentuale di pazienti in trattamento al momento del reato: il 78% era in contatto con un DSM; l’88% in trattamento con farmaci antipsicotici mentre l’86% era costituito da pazienti con scarsa adesione al trattamento.
  • le vittime di violenza: su 221 casi il 45% è risultato essere un membro della famiglia, il 13% conoscenti, il 7% amici, il 7% altri pazienti, il 28% estranei.

Le conclusioni cui è giunta la ricerca sono state che:

  • La gravità della psicopatologia è simile nei pazienti forensi con patologia severa e in quelli che non hanno commesso reato, anche se questa osservazione ha luogo in un momento distante da quello della commissione del reato
  • La percentuale di pazienti forensi con storia di abuso di alcool e o sostanze è simile a quella dei pazienti non forensi.
  • I pazienti con gesti autolesivi in anamnesi sono maggiormente propensi ad attuare anche gesti eterolesivi.

La presenza di p.l. di alta sicurezza (REMS) in Italia è più bassa rispetto al resto d’Europa, con 631 posti letto totali, distribuiti in 31 strutture con un numero di posti letto tra 2 e 130, 24 delle quali a gestione pubblica e 7 privata. La permanenza media va da 287 e 1156 giorni (quindi tra 9 e 40 mesi). Il numero dei proscioglimenti per incapacità di intendere e volere in Italia, nonostante paia a molti eccessivo, è più basso che nel resto d’Europa.

De Girolamo ha lamentato la mancanza di standard di trattamento e di formazione specifica; totale assenza di progetti di formazione seri e standardizzati e un monitoraggio affidato a un’azienda privata di software ubicata in provincia di Caserta (circostanza quest’ultima poi smentita da uno dei successivi intervenuti).

Ha indicato inoltre nella ripartizione inglese delle strutture in bassa, media e alta sicurezza un esempio interessante per porre rimedio ai livelli insufficienti di tenuta che a volte si riscontrano nelle REMS e soprattutto nelle strutture del comune circuito residenziale coinvolte nel contenimento degli autori di reato.

Modello inglese che però, ha commentato poi Fioritti, sottrae molte risorse al DSM per il solo mantenimento delle strutture a media e alta sicurezza.

Pietro Pellegrini (2023), nell’intervento che ha reso poi disponibile su questa rivista, ha implicitamente replicato alle parole decisamente critiche sulla situazione attuale di De Girolamo sottolineando come più importante che pensare di inseguire dotandosi di strutture sempre più contenitive la domanda che proviene dalla magistratura e dal mondo dei periti, sarebbe limitare quella domanda cercando di evitare un uso inappropriato della psichiatria e delle sue strutture. A tal proposito ha citato due progetti di legge pendenti in parlamento, una volta alla limitazione della non imputabilità ai soli disturbi psicotici (Progetto di Legge n 950/2023, Antoniozzi) e una volta a superare in toto il “doppio binario” con l’abolizione degli articoli 88 e 89 C.P. (Progetto di legge n. 1.119/2023 Magi), e con essi la pericolosità sociale psichiatrica e le misure di sicurezza. Una linea che tende ad assicurare a tutte le persone il diritto ad essere giudicate e al contempo il diritto alla salute a prescindere dalla condizione giuridica. È una posizione che nasce già negli anni ’70 dal gruppo basagliano e che riconosce la responsabilità come fattore terapeutico, attribuendo con più chiarezza i compiti alle diverse istituzioni.

Ha poi ricordato come già oggi la gran parte dei pazienti psichiatrici autori di reato (stimati in circa 6000) si trovi nel territorio e come varie soluzioni concrete siano in corso di sperimentazione, volte in particolare al coinvolgimento delle istituzioni locali che sono scarsamente investite dei problemi dalla legge 81, per evitare la delega in toto alla psichiatria.

Ha raccontato, ad esempio, che il 10% degli utenti REMS della regione Emilia Romagna è costituito da senza tetto. La sanità e le tecniche – ha proseguito – non bastano, perché alla base del fenomeno stanno spesso circostanze di carattere sociale.

Al suo intervento ha fatto seguito quello da remoto di Giuseppe Nicolò, che è parso, almeno per ciò che abbiamo inteso, partire dai dati di fatto (esistenza delle liste d’attesa, fragilità di alcune strutture rispetto alla domanda di sicurezza…) per sostenere che la realtà sia scarsamente modificabile: la legge è quella che è, i giudici e i periti sono quelli che sono, la domanda di sicurezza è quella che è, gli utenti delle REMS sono quelli che sono e oltre un terzo di essi non ha diagnosi di psicosi… Inutile perciò cullarsi nell’illusione di poter cambiare queste cose mentre i problemi si accumulano (giudici e leggi non cambieranno certo per far piacere agli psichiatri), ed è la psichiatria piuttosto a doversi adattare.

Per parte nostra, questa impostazione ci lascia molto perplessi: la storia della psichiatria ci dimostra che quando in passato essa si è voluta far carico di una domanda sociale di sicurezza che in gran parte non le spettava, rinunciando a negoziare il suo mandato, questo non ha portato bene né a lei, né ai suoi malati, né alla società nel suo complesso.

Ovvia ci pare la sua constatazione che il rapporto di potere tra giustizia e psichiatria è asimmetrico, ma a questo non può corrispondere una resa senza condizioni al potere giudiziario, che snaturerebbe il nostro lavoro. 

Vi è poi il problema che i trattamenti residenziali, specie se protratti per ragioni extracliniche, sono scarsamente efficaci nei disturbi di personalità. E ciò a maggior ragione perché spesso le rigidità imposte dal magistrato nei trattamenti comunitari cozzano con la flessibilità che, sotto il profilo clinico, è raccomandata nella presa in carico del borderline (Massa e coll., 1998).

Più convincente ci è parso l’intervento successivo, improntato al pragmatismo, di Tommaso Maniscalco che intanto ha fornito qualche numero utile: 630 sono i posti letto in REMS e circa 700 le persone in lista d’attesa, il 10% delle quali in carcere. Oltre 6.000 gli autori di reato in carico ai DSM, con una tendenza a salire. Quanto ai dimessi dalla REMS, il 90% passa nel circuito delle comunità terapeutiche.

Speculare al rischio di un uso della psichiatria da parte del magistrato per perseguire i suoi obiettivi di sicurezza snaturandone la funzione – Maniscalco ha osservato con acutezza – è il rischio di un uso perverso dello strumento giudiziario da parte della psichiatria, della famiglia e della società per gestire situazioni che non sono capaci a gestire e supplire a una presunta insufficienza del TSO come strumento di coercizione, rischio del quale potrebbe fornire ampia testimonianza la storia degli OPG.

È un grande rischio, soprattutto quando in questo comportamento cadono i servizi, perché aprire un iter giudiziario verso un proprio paziente significa iniziare un percorso del quale non siamo a noi ad avere né le chiavi d’ingresso (spesso questi procedimenti rimangono lungamente sospesi, e magari diventano operativi quando non servono più), né soprattutto la fine, perché i tempi sui quali si muove la magistratura sono in genere più lunghi di quelli della clinica. 

La plenaria della seconda giornata: residenzialità, costi economici e sociali

Il mattino successivo è stato aperto dall’inaugurazione vera e propria da parte del presidente della SIEP Fabrizio Starace, il quale ha esordito ricordando come la ricerca internazionale tenda attribuire sempre maggiore importanza ai determinanti sociali di salute, ai quali la SIEP è sempre stata particolarmente attenta. Ha quindi espresso il suo orgoglio per il fatto che la SIEP faccia riferimento a un concetto di etica pubblica che deve permeare, di una società scientifica, tutti i comportamenti, ponendola al di sopra di ogni sospetto di conflitto d’interessi. Rispetto a questo, ha proseguito ricordando con orgoglio come questa, al contrario di altre società scientifiche del settore, non si avvalga di sponsorizzazioni da parte dell’industria, farmaceutica in particolare, per realizzare le sue iniziative scientifiche, alle quali chi interviene lo fa di tasca propria, perché è interessato.

E certo non è poco, come punto di partenza!

Ha quindi dato la parola a Stefano Zamagni per una lezione che si è rivelata davvero magistrale, per l’importanza dei temi e la competenza con la quale sono stati affrontati.

La relazione del celebre economista dell’ateneo bolognese ha esordito con il ricordo del fatto che alla salute concorrono fattori diversi: sanità, stili di vita, ambiente, condizioni lavorative e relazioni sociali.

Ha lamentato quindi il fatto che le malattie mentali aumentino all’aumentare delle diseguaglianze, e questo è senz’altro un problema se si considera che negli ultimi 40 anni sta costantemente aumentando il coefficiente di Gini, considerato uno dei più fedeli indicatori della diseguaglianza.

Aumenta, in particolare, il divario tra i più ricchi e i più poveri anche per responsabilità del “singolarismo” che è caratteristico dell’economia capitalista ed è sbottato con la frase coraggiosamente controcorrente rispetto alla retorica dominante: “non ci credereste a quante malattie mentali ha dato origine la meritocrazia!”.

Ha ricordato quindi Aristotele, per la cui visione politica, contrapposta evidentemente a quella di Platone, meritocrazia è il contrario della democrazia.

Negli Stati Uniti, il Paese più ricco e potente del mondo – ha proseguito quindi – la solitudine esistenziale è particolarmente diffusa e si riscontra il consumo più alto di psicofarmaci e il tasso più alto di suicidi nel mondo (per non dire, anche, di un tasso di prisonizzazione 10 volte più alto rispetto all’Europa, che si accanisce particolarmente su afroamericani e ispanici).

Zamagni ha quindi stigmatizzato come un rischio per la salute mentale quello che ha chiamato il “lavoro indecente”; il lavoro ha infatti, ha aggiunto, due dimensioni, quella “acquisitiva” che è data dal reddito che ad esso consegue, e quella “espressiva” il cui venir meno ci ha ricordato molto da vicino il concetto di alienazione elaborato da Marx nei suoi scritti giovanili, che consiste nel poter dare espressione alle proprie potenzialità, la soggettività, la creatività. Il lavoro diventa indecente quando una di queste due dimensioni è carente, o lo sono entrambe.

Si assiste del resto, oggi, sempre di più a un fenomeno di abbandono del lavoro: 42 milioni negli USA, un milione e seicentomila in Italia rifiutano il lavoro perché lo considerano indecente. 

Il lavoro pesantemente alienante o malpagato, o la mancanza di lavoro, contribuiscono all’aumento del disagio mentale, per contrastare il quale, ha proseguito, il sistema psichiatrico riceve in Italia il 2.75% del Fondo sanitario, a fronte di un’indicazione UE del 10%. La crisi è dovuta dunque certo a risorse che spesso potrebbero essere meglio allocate (p. es. Peloso, 2022, parte III), ma che sono anche obiettivamente poche.

Un’altra sua critica ha riguardato la scelta in Italia di allocare una quota sempre più grande del fondo sanitario al privato: un privato no-profit, i cui scopi sono più compatibili in genere con quelli del sistema sanitario. Ma anche un privato profit, i cui scopi, vedendo in primo piano il profitto, possono divergere anche radicalmente da quelli del sistema sanitario, in particolare per ciò che riguarda i servizi più intensivi e dove la domanda è caratterizzata da maggior grado di aleatorietà (occorre cioè tarare l’offerta sui picchi massimi della domanda, e mantenerla anche nei momenti nei quali è bassa) e ha citato come esempio che gli ha destato particolare perplessità il caso dell’affidamento al privato di un Pronto Soccorso. “Si può fare profitto sulla salute?”, si è chiesto.

E la sua risposta è stata no, che questo è eticamente inaccettabile perché il profitto costituisce un di più rispetto alla remunerazione del servizio reso (quello che Marx chiamava il plusvalore, se ben intendiamo) che quando si parla di salute non può essere eticamente accettato.

Una posizione netta la sua, che ovviamente ciascuno è libero di condividere o fare oggetto di replica o di discussione. Certo, potrebbe essere facile obiettare che il profitto potrebbe realizzarsi non attraverso una contrazione quanti-qualitativa dell’offerta, ma nelle pieghe di una maggiore capacità gestionale; ma per verificarlo occorrerebbero strumenti di valutazione dei processi e degli esiti che vadano ben al di là di quelli dei quali, come si è evinto anche dall’impietosa relazione di Barbato, noi disponiamo.

Il welfare state, immaginato nel 1942 da lord Beveridge – ha proseguito – deve prendersi cura del cittadino dalla culla alla bara. sistema sanitario.

Zamagni ha trattato poi anche il problema dell'”aporofobia”, cioè della paura, ma anche disprezzo, del diverso nella società occidentale contemporanea, il cui aumento può portare una civiltà al declino, e anche questo è stato un tema importante.

Alla lezione magistrale sono seguiti gli interventi di Alessio Saponaro, Massimo Rosa e Giuseppe Ducci. Il primo si è soffermato sul problema della classificazione delle strutture residenziali, che avrebbe dovuto consentire al Ministero della Salute di fornire dati più affidabili per la residenzialità, mentre questi rimangono gravemente carenti. Il secondo ha osservato come non ci sia una relazione tra il numero di assistiti di un servizio e il tasso di utilizzo della residenzialità, e come da qualche anno sia in atto una costante reistituzionalizzazione, che ha fatto sì che la spesa per la residenzialità sia a livello nazionale circa il 44% della spesa per la salute mentale (che diventa in regione Liguria il 50%), pur essendo un numero molto limitato quello dei pazienti interessati (1.7% circa).

Anche in Emilia, ha riferito che i costi per la salute mentale sono aumentati, e tale aumento ha riguardato soprattutto la residenzialità, e al suo interno quella convenzionata. La spesa per la REMS è aumentata del 24% negli ultimi 2 anni, e gli inserimenti giudiziari in struttura sono aumentati in misura maggiore degli altri.

Rosa ha collocato il senso della residenzialità nel prevedere una maggiore partecipazione al progetto terapeutico residenziale ed un maggior coinvolgimento dei familiari o loro associazioni.

Ha sottolineato l’importanza del dialogo all’interno e con l’esterno.

Le plenarie successive: residenzialità, progetti riabilitativi, budget di salute, valutazione

Alla plenaria pomeridiana, dopo la lectio magistralis da remoto di Marianne Farkas, una degli psichiatri statunitensi responsabile dell’elaborazione del concetto di recovery, Paola Carozza, direttrice del DSM di Ferrara, ha risposto ad alcune critiche delle quali l’EBM è stato oggetto notando come da esso si debba trarre quanto c’è di buono, cioè il fatto di dover rendere conto delle proprie pratiche.  Ha quindi insistito sul fatto che l’assistenza (to care) sia altrettanto importante della terapia intesa in senso stretto (to cure). La riabilitazione ha, per questo, l’obiettivo di accrescere le abilità, le competenze sociali delle persone, per fare sì che l’assistenza necessaria possa rimanere in una misura tale da poter essere fornita nei luoghi naturali di vita ed evitare l’istituzionalizzazione, che a parte altri danni possibili rischia sempre di far perdere legami.

Assume così grande importanza la promozione dell’inclusione sociale attraverso la creazione di percorsi riabilitativi esterni alle strutture e metodologie di intervento con valenza generale che possono essere utilizzati in tutti gli interventi che si propongono di accrescere l’articolazione sociale, a prescindere dalla sede in cui gli stessi vengono realizzati.

Il rapporto tra riabilitazione e residenzialità, dunque, si muove sempre sul limite tra l’esigenza di non essere eccessivamente prudenti, perché il rischio è che esagerando in questa direzione finisca per non apparire mai pronto nessuno, e quella di non mettere le persone di fronte a situazioni che non possono gestire. 

Del resto, ha detto che non è possibile prevedere quale sarà il livello di funzionamento di una persona, finché rimane dentro l’istituzione.  

Le ha fatto seguito il bolognese Roberto Muratori che ha individuato i principali problemi della residenzialità nella tendenza a protrarsi e nella scarsa definizione degli obiettivi, nella carenza di valutazione. Sono probabilmente queste le ragioni per le quali nella residenzialità risorse assai considerevoli sono impiegate per un numero infondo limitato di pazienti, che non sempre corrispondono ai più gravi in carico ai CSM. Nessuno sa, in sostanza, che cosa facciano i pazienti all’interno delle strutture, inadeguate anche perché non è raro che da parte del CSM, nonostante tanto si parli di appropriatezza, si finisca a volte per “acchiappare”, nell’emergenza, il primo posto disponibile. Si è chiesto infine, e ci pare interessante, se sia possibile pensare di poter chiedere alle strutture trattamenti mitrati, tarati su ciascun paziente.

A seguire Simone Bruschetta ha illustrato il progetto Visiting DTC, basato sull’”accreditamento democratico tra pari” e sull’idea di dare uguale valore alla valutazione “ingenua” e a quella esperta, sul principio di reciprocità tra servizi, sul fatto che l’accreditamento avvenga in modo assembleare e che in esso sia tenuta anche presente l’impatto sulla comunità dei trattamenti. 

Roberto Mezzina, già direttore del DSM di Trieste, ha esordito ricordando come l’alto commissariato per i diritti umani abbia sostenuto l’esistenza di un diritto all’abitare che è cosa diversa dall’istituzionalizzazione, del quale deve tenere conto il CSM nella sua pratica anche “politica” di responsabile e insieme di garante dell’istituzionalizzazione.

Non si tratta di una questione secondaria: ha ricordato come in Gran Bretagna si stiano già celebrando processi per reclusione illegittima in istituzioni. Come si possano produrre homelesses secondari che hanno perso il luogo dell’abitare nel transito da un’istituzione all’altra. Ha parlato del fatto che sir Michael Marmot, uno dei maggiori studiosi mondiali delle diseguaglianze, individui nello sfratto uno dei maggiori fattori di rischio per la salute mentale (un dato di facile percezione nel lavoro dei servizi, spesso però non tenuto nel debito conto e sottovalutato come life event).

Mezzina ha terminato sottolineando l’importanza che strumenti leggeri, come il cohousing o appartamenti eterofamigliari o il cluster housing  (ha citato una bella esperienza di S. Egidio a Roma)   o il budget di salute possono avere nel prevenire l’istituzionalizzazione e l’esigenza che i servizi tornino ad assumere, come è stato originariamente nel caso di Basaglia, un ruolo di advocacy nei confronti della società per i loro pazienti sui fronti dell’abitare, del lavoro e del tempo libero (Peloso, 2023).

Tra gli interventi relativi alla valutazione, quello di Angelo Barbato nell’ultima giornata ha evidenziato come i posti letto residenziali attuali siano meno di quelli che erano i posti in OP negli anni della riforma, e siano anche meno rispetto ai posti letto di altri Paesi dell’Europa occidentale. Difficile poi confrontare i costi della residenzialità con questi altri Paesi, perché la spesda complessiva per la Salute mentale in Italia è decisamente più bassa.

Ha poi messo in luce i limiti dei sistemi valutativi in Italia, in particolare quelli relativi alla residenzialità. Tra i più evidenti quello, che abbiamo già richiamato, per cui esiste un rischio che i dati ufficiali sulla residenzialità riguardino per ciascuna regione i posti letto dei quali dispone, e non quelli occupati dai suoi abitanti, il che rischia, considerati i fenomeni non trascurabili di migrazione interregionale, di introdurre distorsioni in qualche caso non trascurabili.  

 La ricchezza dei simposi pomeridiani: gli interventi liguri… e qualche altro

Nel pomeriggio i lavori sono proseguiti per simposi paralleli e noi preso parte a quello dedicato a “Percorsi, valutazione e organizzazione dei Servizi” moderata da Gian Maria Galeazzi.

Per parte nostra, il gruppo ha presentato un intervento coordinato da Roberta Fravega volto a ricostruire l’evoluzione dell’utilizzo della residenzialità, comprensiva della REMS, da parte di uno dei 6 CSM, interamente urbano, nei quali è organizzato il DSMD di Genova, in particolare dopo la chiusura degli OPG, dal 2016 al 2022.

Sotto il profilo del metodo abbiamo raccolto dati relativi ai presenti nella residenzialità in carico all’U.O. al dicembre degli anni 2016-2022 per stabilire il tasso sulla popolazione maggiorenne di 106.800 abitanti e sono stati confrontati i trienni 2016-18 e 2020-22 relativamente al variare del rapporto m/f e alla percentuale di autori di reato. È stato inoltre studiato l’esito a 7 anni della popolazione iniziale.

Il nostro tasso di residenzialità è oscillato in questi anni tra 5.3 e 7/10.000, con picco nel 2018. È stato quindi più prossimo a quello nazionale, di poco superiore al 5, che a quello regionale, intorno al 15, anche se – come specificheremo oltre – i dati SISM sul tasso regionale della regione devono essere presi con prudenza, in quanto, come ha specificato nell’ultima giornata del congresso Angelo Barbato, essi si riferiscono al numero di posti letto in una regione, e non al numero di letti occupati dagli abitanti della regione. Come ha specificato nel pomeriggio successivo Ciancaglini, ad esempio, nel caso del gruppo Redancia questo incide in piccola misura nelle strutture per gli adulti, ma in misura più significativa sugli utenti più giovani. Per parte nostra, comunque, riteniamo che il fatto che il dato regionale, certo sia comprensivo anche di pazienti residenti in altre regioni, sia in parte almeno compensato dai liguri ospiti di strutture fuori regione, soprattutto del basso Piemonte.

Abbiamo registrato tra le medie dei due trienni un incremento dei maschi (+15.7%), in gran parte concomitante con quello degli autori di reato (+49.37%). Tra i 62 soggetti in residenzialità nel 2016 sette anni dopo il 58.2% rimane nel circuito residenziale; il 9.5% prosegue le cure al CSM; il 19.4% non è più in carico (cambio di residenza, passaggio a strutture geriatriche ecc.); il 12.8% è deceduto.

In conclusione i nostri dati, pur riferiti a una realtà limitata, paiono in linea con i trend evidenziati in letteratura e consentono tre prudenti considerazioni:

1. La diminuzione delle femmine e l’aumento degli autori di reato, se il trend trova conferma, può rischiare di alterare la realtà antropologica delle strutture e accentuarne il carattere disciplinare, conseguente a una trasformazione della domanda;

2. L’aumento degli autori di reato inseriti sulla base di decisioni giudiziarie sottrae in buona parte al CSM il governo della residenzialità. A numero di letti costante, può comprimere la possibilità di altri soggetti, femmine in particolare nel nostro caso, di fruire dello strumento. Tra gli autori di reato, solo 1 è rimasto in MdS residenziale dall’inizio, mentre 7 sono usciti negli anni dalla MdS. L’incremento appare quindi soprattutto dovuto a soggetti sottoposti a MdS dopo il 2016;

3.  i dati relativi alla popolazione presente all’inizio denotano un limitato turn-over, riconducibile alla presenza di bisogni assistenziali (comorbilità o limitata autonomia) di difficile soluzione, e/o a problemi riconducibili allo stile di lavoro delle strutture ma anche dei servizi (cfr. Buscaglia e coll., 2003).

Per gli altri gruppi liguri Ciancaglini, Codino, Stefanelli, Meistro e Giusto hanno esposto i dati del Oyda System, un sistema di rilevazione utilizzato dalle strutture del gruppo Redancia (30 strutture e 654 posti letto in 4 regioni) per la valutazione dei suoi trattamenti, che registra in particolare ammissioni, dimissioni eventi critici rilevanti delle strutture del gruppo anche attraverso due follow up a 1 e 5 anni dalla dimissione.

La messe di dati raccolti è decisamente notevole e costituisce un materiale utile a cogliere le caratteristiche delle strutture del gruppo e della loro evoluzione nel tempo (per esempio, la percentuale di autori di reato nell’insieme delle strutture è oggi del 30%).

Il sistema è caratterizzato da 5 sezioni: dati strutturali e di funzionamento; profillo pazienti; profilo operatori; profilo prestazioni (nomenclatore SISM); follow up a 1 e a 5 anni.

Nel confronto tra strutture per adulti e per minore, si evidenzia una permanenza decisamente più lunga nelle prime, anche se sarebbe interessante il dato di quanto la dimissione da strutture per minori corrisponda all’ingresso in struttura per adulti visto che le dimissioni a casa tra i giovani, comunque superiori a quelle tra gli adulti, si sono attestate tra il 40 e il 70% negli ultimi 5 anni.

Riguardo alla diagnosi, è del 50-60% di disturbo psicotico tra gli adulti, inferiore al 20% per i minori.

È uno strumento importante e utile per ragionamenti interni al gruppo, la sua evoluzione rispetto all’utenza accolta e ai trattamenti, ad esempio.  

Purtroppo, ha il limite di una minore utilità all’esterno del gruppo, per la mancanza di una popolazione di riferimento (la percentuale di pazienti provenienti dalla regione dove insiste la struttura è infatti intorno al 70% per gli adulti, ma scende intorno al 40% nel caso dei più giovani).

Un gruppo composto da Carnovale, Rossi, Mingardi e Miletto ha presentato il follow-up dei pazienti dimessi dalla REMS Villa Caterina di Genova dal 2017 al 2023. Si tratta di 83 pazienti, quindici dei quali sono rientrati. Attualmente il 67% di essi si trova in struttura residenziale psichiatrica, il 13% in struttura residenziale non psichiatrica, il 15% in carcere e il 6% è ancora in REMS. Il 40% circa è migliorato, sia dal punto di vista strettamente sintomatologico che generale; per il 75% esiste un rapporto regolare con il CSM.  Il turn over pare decisamente più alto rispetto alle SPR 1 del circuito ordinario, anche se la maggioranza delle dimissioni avviene in strutture comunitarie dalle quali forse è poi difficile fare il passo ulteriore.

La salute fisica e le abilità sociali paiono pure migliorate.

Complessivamente, ci è parso che da questa relazione emerga – nonostante le perplessità che il fatto che la sua gestione sia interamente delegata al privato può suscitare a prima vista e i problemi applicativi della legge 81 che ovviamente non mancano – per la REMS ligure di Villa Caterina una valutazione positiva che il nostro gruppo ha meglio argomentato in altra occasione (Peloso e Peruzzo, in stampa), probabilmente riferibile ad alcuni fattori che meritano di essere tenuti presenti: collocazione urbana nel capoluogo,  e gestione in capo a un gruppo di lavoro con esperienza di strutture comunitarie e di integrazione con i servizi territoriali pubblici. Tre passi avanti notevoli, evidentemente, rispetto a quello che fino a meno di dieci anni fa era l’OPG!

Tra gli altri interventi che abbiamo avuto modo di ascoltare nei simposi pomeridiani, abbiamo ascoltato quello di Ornella Bettinardi che propone di suddividere le strutture in cerchi. Il cerchio verde include comunità psichiatriche leggere, gruppi appartamento ed appartamenti privati dei singoli utenti; nel cerchio blu le comunità terapeutiche; nel cerchio bianco i percorsi di rientro a domicilio del paziente. Individua le principali criticità nella necessità di implementazione delle risorse del territorio (Servizio sociale comunale, Sindaco etc.) per gestire la problematica relativa al dopo comunità (case e borse lavoro) e la mancanza di validazione unanimemente riconosciuta per i percorsi formativi degli operatori.

Luana Di Gregorio ha parlato della situazione della residenzialità in Abruzzo, e nel commentare il suo intervento Galeazzi ha colto l’occasione per evidenziare il rischio che, a fronte di CSM e SPDC che sono tenute alla presa in carico, nella residenzialità viga una situazione per la quale la struttura mantiene la prerogativa di poter dire “questo sì, quello no”.

Dopo di lei, Mario Betti ha illustrato il lavoro svolto all’interno di una struttura SRP.1 della Regione Toscana ad alta intensità ed a rapido turn over, Nausica, a totale gestione della ASL. La permanenza massima è di mesi 3; la struttura ha la possibilità anche di svolgere ricoveri in regime di urgenza.

I criteri di esclusione includono patologie organiche, alcolisti, tossicodipendenti in fase attiva.

Il riferimento alla figura letteraria di Nausica è dovuto al fatto che essa accoglie il naufrago, lo accudisce ma poi, seppure un po’ a malincuore, accetta di aiutarlo a partire.

Matteo Monzio Compagnoni ha riferito dei dati sui percorsi di cura relativi ai percorsi di cura per i disturbi mentali gravi in regione Lombardia esponendo il Progetto Quadim. Nell’analisi effettuata ha considerato i disturbi schizofrenici, depressivi, bipolari e di personalità in relazione alla percentuale di ammissione in struttura residenziale ed al numero di giorni presso le strutture stesse.

I risultati evidenziano rispettivamente una maggiore percentuale di ammissioni (del 13,3%) per quanto riguarda il disturbo schizofrenico con 182 giorni medi e una minore percentuale di ammissione per quanto riguarda il disturbo depressivo (5,1%).

In relazione al tipo di struttura residenziale lo studio ha evidenziato un più frequente inserimento in strutture SRP3 per quanto riguarda il Disturbo bipolare.

Dalle sue conclusioni sono emerse la durata elevata delle permanenze in residenzialità, la scarsità di pratiche orientate alla recovery e degli interventi psicosociali, oltre all’importanza di studi volti a misurare la pratica concreta dei servizi e la sua incidenza nel mondo reale.

Si è quindi proseguito con l’esposizione da parte di Teresa Morgillo di un progetto romano  fondato sul metodo della “Comunità Terapeutica Democratica” che coinvolge un centinaio di pazienti da parte di Teresa Morgillo che consiste nell’aiuto ai pazienti a reperire appartamenti in piccoli gruppi, all’interno dei quali vengono supportati in rapporto ai loro bisogni.

Nello specifico si è trattato di uno studio sulla replicabilità e l’adattamento alla cultura italiana del modello di trattamento DTC (comunità terapeutica democratica) per la grave patologia mentale condotto con la metodologia dell’Accreditamento Democratico tra pari.

La DTC è un dispositivo psicoterapeutico di comunità specifico per la cura della grave patologia mentale, la cui efficacia è valutata secondo il modello EBM, le cui caratteristiche principali sono: condivisione democratica del governo clinico, setting ambientale di convivenza e collaborazione, processi terapeutici di tipo gruppale e sociale, sostegno ai processi di recovery personale.

Tale modello si avvale dell’equipe multidisciplinare e della collaborazione delle associazioni dei familiari dei pazienti.. Tra i criteri di inclusione è stata considerata la capacità di coabitazione, osservata per la durata di almeno un anno. Il progetto prevede che ogni appartamento possa accogliere un massimo di 5 soggetti.

Fiorenza Fiorini ha parlato di un’esperienza modenese di “percorso casa” fondata sulle mini-équipe alla quale partecipano paziente e famiglia, e ha individuato uno dei rischi del CSM, e anche del modello delle case alloggio, nel fatto di favorire, per la sua parte, la cronicizzazione della domanda in relazione a quella della risposta (Peloso, 2021).

Un altro intervento che ci è parso interessante è stato quello di Luca Mingarelli che ha esposto un’esperienza in una Comunità terapeutica per minori sottolineando l’importanza di un coinvolgimento di figure professionali a livello multidisciplinare.

Michele Sanza, in riferimento alle dipendenze, ha confrontato due modelli: quello confrontazionale e quello motivazionale sottolineando come sono cambiate le dipendenze e gli approcci. Un tempo l’interruzione del consumo era spesso una precondizione per l’ingresso in comunità, mentre oggi è sempre più diffuso l’inserimento di pazienti che stanno ancora utilizzando sostanze.

Il congresso ci ha dato inoltre la possibilità di ascoltare con piacere una TERP ligure di formazione e attualmente impegnata nel DSM di Parma, Barbara Carillo, la quale ha illustrato con un gruppo di colleghe le diverse esperienze e nel campo della riabilitazione attualmente in atto nell’esperienza di quel dipartimento.

Conclusioni

Volendo dare una valutazione complessiva del congresso abbiamo apprezzato, oltre al senso di leggerezza che dà il fatto di non avvertire l’oppressione, che si fa a volte davvero pesante, della pressione degli sponsor, il fatto che la maggior parte degli interventi che abbiamo potuto ascoltare, sia nelle plenarie che nei simposi paralleli, avevano direttamente a che fare con il lavoro, la fatica e talvolta le difficoltà che incontriamo nella quotidianità presso i nostri servizi, evitando così quella distanza tra fare e pensare, per parafrasare il titolo di un bel libro del gruppo di De Martis, che spesso si avverte.

In particolare, il problema con il quale molti interventi si sono confrontati ci è parso quello di come evitare che la residenzialità costituisca, come è auspicabile, non un momento ritagliato dentro un percorso che nasce nel territorio e vi fa ritorno, ma rischi di riprodurre, quando la permanenza in luoghi artificiali di vita si prolunga per anni o addirittura decenni, qualcosa che ricorda la filosofia (certo non la realtà, ma la filosofia sì) del manicomio. Tanto nelle plenarie che soprattutto nei simposi paralleli, abbiamo sentito palpitare la ricchezza e la varietà di esperienze con le quali, in tanti luoghi diversi del nostro Paese, tanti operatori (della residenzialità come dei servizi), pazienti e familiari sperimentano soluzioni diverse a questo problema, consentendo al numero più alto possibile di persone di affrontare la malattia rimanendo, con il sostegno necessario, nei luoghi della vita di tutti, o comunque di farvi al più presto possibile ritorno. Abbiamo così tratto da questo la sensazione di una psichiatria viva, che nelle situazioni concrete ha tanta voglia di provare soluzioni e di confrontarle tra loro.

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