Vaso di Pandora

Senza desiderio non c’è futuro: educare i figli nell’era digitale

Un viaggio con il Prof. Giuseppe Lavenia tra solitudini giovanili, sfide educative e urgenza di adulti consapevoli

“La tecnologia si inserisce perfettamente dove c’è un’assenza”

Da questa frase, pronunciata dal Prof. Giuseppe Lavenia, psicologo, psicoterapeuta e presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, prende avvio un discorso lucido e coinvolgente che chiama in causa famiglie, scuole, istituzioni e professionisti della salute mentale e non solo.

Ho avuto la fortuna di assistere a questo intervento grazie all’invito di una cara amica ad un incontro rivolto prevalentemente ai pediatri ma dal quale ho tratto numerosi spunti e riflessioni che intendo condividere.

L’intervento, denso di dati, storie, esempi concreti, racconta la crisi educativa e relazionale a cui assistiamo ormai da alcuni anni, aggravata – ma non causata – dalla pervasività della tecnologia. Una crisi fatta di assenze, silenzio adulto e fragilità affettive, che la rete spesso amplifica anziché colmare.

Il disagio che non si vede: quando il futuro fa paura

Il dato che più mi ha colpito, tra quelli presentati dal Prof. Lavenia, è questo:

Il 60% degli adolescenti italiani non riesce a immaginare il proprio futuro. E tra coloro che ci provano, il 70% lo fa con ansia, angoscia o senso di inadeguatezza.

A questo si sommano:

  • oltre 150.000 giovani in auto-isolamento sociale volontario (i cosiddetti hikikomori);
  • un tentativo di suicidio al giorno nella fascia 9-21 anni;
  • un’impennata del +40% nelle richieste di sostegno psicologico dopo la pandemia, con il 70% delle domande provenienti da under 30.

Questi dati non sono numeri: sono storie di vuoto, paura, disconnessione emotiva.

“Se un ragazzo non riesce a immaginare il futuro, non desidera. E se togliete il desiderio, che è il motore della vita, è finita.” 

Queste le parole che il Prof. Lavenia utilizza per scuotere l’uditore, per sbattergli in faccia la realtà, con una comunicazione vivida, diretta, a tratti provocatoria.

Una vita di studio, ascolto e raccolta dati

Ma come fa il Prof. Lavenia ad avere accesso a tutti questi dati? Non si tratta di un’opinione personale né di una rassegna generica di fonti.
Lavenia, infatti, è il presidente dell’Associazione Nazionale Dipendenze Tecnologiche, GAP e Cyberbullismo, conosciuta anche come Di.Te. 

L’associazione – attiva da oltre vent’anni – raccoglie quotidianamente dati clinici, scolastici e territoriali sull’impatto della tecnologia, delle dipendenze comportamentali e del disagio adolescenziale. Non si tratta di un progetto universitario o ministeriale: è un’iniziativa portata avanti con passione, risorse limitate e la forza del volontariato.

“In questo momento siamo l’osservatorio più attivo in Italia su questi temi. E lo facciamo come ente del terzo settore, come organizzazione di volontariato. Mi sembra incredibile che, dopo vent’anni, non ci sia ancora un ente pubblico più attrezzato.”

Non solo. Lavenia fa anche parte di una Commissione della Presidenza del Consiglio dei Ministri dedicata al rischio psicosociale e al benessere giovanile. In quel contesto, contribuisce a raccogliere dati su scala nazionale e a elaborare progetti da inserire nelle scuole, con l’obiettivo di unificare gli interventi e costruire risposte efficaci.

La tecnologia non è il nemico: lo è la nostra assenza

Per Lavenia, il vero problema non è lo smartphone, né i social, né YouTube.
Il problema è l’assenza educativa in cui questi strumenti si inseriscono.
Lo smartphone arriva dove manca una relazione, dove un vuoto affettivo, comunicativo o valoriale chiede di essere riempito.

Le soluzioni proposte – vietare gli smartphone sotto i 14 anni, impedire l’accesso ai social – sono spesso poco realistiche.

“In Italia la legge sulla privacy vieta già l’accesso ai social sotto i 14 anni. Nessuno la fa rispettare, nemmeno la scuola.”

Allo stesso modo, i parental control, (strumenti digitali che permettono ai genitori di limitare o monitorare l’accesso dei figli a contenuti, app e funzionalità online, impostando filtri, tempi di utilizzo e restrizioni personalizzate) si rivelano una falsa protezione:

“I ragazzi li disattivano in meno di un minuto. Cambiano VPN, IP, posizione GPS. Se volete competere con loro sul piano tecnologico, avete già perso.”

La vera risposta? Educare. Stare. Limitare con senso. Essere presenti.

La distanza digitale è distanza relazionale

“La distanza digitale diventa distanza relazionale.”

È una delle frasi più forti pronunciate da Lavenia, quasi uno slogan, una sorta di manifesto o una frase specchio che costringe chi ascolta a fermarsi, a guardarsi in faccia, senza alibi.
Quando un genitore – o un medico, pediatra, neuropsichiatra, psicoterapeuta – ignora la vita digitale di un ragazzo, non lo tutela: lo allontana.
Se non ci interessiamo di come i nostri figli o pazienti stanno online, perché dovrebbero parlarcene?

Questa distanza è il primo terreno su cui crescono le incomprensioni generazionali, i silenzi affettivi, le fragilità relazionali e le pericolose dipendenze silenziose.

Cyberbullismo, challenge, autolesionismo: il dolore dietro uno schermo

Nel mondo digitale si nascondono nuove forme di violenza, spesso invisibili agli occhi degli adulti.

Il cyberbullismo, spiega Lavenia, nasce spesso nelle chat scolastiche: spazi informali, apparentemente innocui, dove circolano numeri, immagini, insulti, esclusioni.

“Eppure nessuno pensa a vietarle. È lì che si formano le prime dinamiche tossiche.”

Poi ci sono le challenge social, sfide virali che promuovono l’autolesionismo o comportamenti estremi.
Durante il boom mediatico del “Blue Whale”, nei servizi televisivi proposti dalle Iene, centinaia di chiamate sono arrivate all’associazione.

“Molti genitori cercavano il colpevole fuori. Ma bastava guardare le braccia delle figlie: erano piene di tagli. E nessuno se n’era mai accorto.”

Bambini iperconnessi, genitori inconsapevoli

Lavenia non risparmia la prima infanzia. I numeri parlano chiaro:

  • Il 17% dei bambini tra 3 e 4 anni ha uno smartphone personale;
  • Il 45% usa YouTube con regolarità;
  • L’1% ha un profilo social, creato dai genitori.

L’impatto è concreto: un’esposizione prolungata agli schermi passivi nei primi 24 mesi di vita aumenta:

  • del 42% il rischio di disturbi della socializzazione a 5 anni;
  • del 20% il rischio di ADHD a 7 anni.

Questa un’altra importante riflessione posta durante lo speech del professore:

“Non esiste il bambino nativo digitale. Esiste il genitore digitalizzato, più dipendente del figlio. Spesso il primo a cedere, a distrarsi, a non esserci.”

La scuola e il paradosso digitale

Lavenia racconta un aneddoto emblematico:
Da un lato, le scuole vietano l’uso dello smartphone. Dall’altro, richiedono ai genitori di scaricare app per voti, giustificazioni, compiti, merende (Mister Panino incluso).

“Una professoressa mi ha detto: ‘Le app non sono per i ragazzi, ma per i genitori.’ Ma allora, chi resta accanto al figlio per usarle? Chi lo educa, chi lo aiuta?”

In questa contraddizione, i ragazzi vengono digitalizzati presto e senza filtri. La scuola, spesso, non fornisce alcun accompagnamento critico all’uso della tecnologia.

Cinema e attivismo: un racconto per tutti

Nel tentativo di raggiungere più persone, Lavenia ha anche prodotto e collaborato a due film:

  • Sconnessi (2018), una commedia sul panico da notifica;
  • Ragazzaccio (2022), un film drammatico sull’isolamento e il disagio giovanile durante la pandemia.

Paradossalmente, Ragazzaccio è stato bollato “vietato ai minori di 18 anni”.

“Eppure – commenta Lavenia – su TikTok ci sono quattordicenni pagati per bestemmiare o vendere contenuti sessuali. Ma il problema, pare, sono le parolacce del nostro film.”

Ogni anno, l’associazione organizza la Giornata Nazionale sulle Dipendenze Tecnologiche e sul Cyberbullismo, gratuita e autofinanziata, con oltre 40.000 studenti collegati online. Un momento per riflettere, conoscere, agire.

Conclusione: il futuro non si vieta, si accompagna

Lavenia non lancia un allarme, ma un invito alla responsabilità. Non contro la tecnologia, ma per la costruzione di una presenza educativa forte, coerente, consapevole.

“Non possiamo più raccontare ai ragazzi che il mondo fa schifo. Se noi adulti siamo i primi a rinunciare al futuro, loro non ci crederanno mai.”

La tecnologia non va demonizzata.
Va capita.
Va attraversata.
Ma, prima di tutto, va colmato il vuoto relazionale che la precede.

Perché il vero pericolo, oggi, non è uno smartphone in mano a un bambino.
Il vero pericolo è un bambino che non sogna più.

“Se togliete il desiderio, è finita.” – Prof. Giuseppe Lavenia

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Commenti su "Senza desiderio non c’è futuro: educare i figli nell’era digitale"

  1. Questo articolo riporta statiche che spaventano molto, devono farci riflettere ma soprattutto agire, la paura dovrebbe sempre innescare un moto da cavalcare per attraversare il cambiamento.
    Cambiamento che come è stato sottolineato non passa dal rifiutare e vietare la tecnologia, ma sullo scegliere di stare ed essere presenti con noi stessi e con i nostri figli.
    Perché ci sembra più facile rifugiarci nei social, nelle app, piuttosto che rimanere ancorati nel momento presente?
    Questo tema apre le porte a tante riflessioni personali, mettendoci davanti la realtà di dover lavorare su noi stessi/e come individui, prima che come genitori.
    Penso che tutti i genitori ( e futuri genitori) dovrebbero leggere questo articolo e approfondire il tema con maggiore consapevolezza!

    Rispondi
  2. mia figlia è oggi un’adulta di 32 anni. Quando era bambina abbiamo sempre cercato di essere vicina a lei nell’uso se non di apparati tecnologici che allora non erano sviluppati come oggi, ma di apparecchiature di distrazione, come la televisione: non è mai stata lasciata da sola a guardare un film (di quelli adatti alla sua età), li ho sempre guardati con lei e ho cercato di spingerla alla lettura, lei che non apprezzava leggere, mettendomi in gara con lei. Ho fatto in modo che giocasse con oggetti veri, bambole e quant’altro e l’abbiamo spinta a fare sport, perché passasse più tempo all’aperto e imparasse a relazionarsi in dinamiche differenti con i suoi coetanei anche al di fuori della scuola. Certo, non è facile, soprattutto quando ci sono anche gli impegni di lavoro che ti portano molte ore fuori casa, ma leggendo questo articolo, penso che come genitori abbiamo fatto un “lavoro” più che onesto con lei.

    Rispondi

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