Il recente articolo di Andrea Narracci “Proposta di unificazione di tre componenti essenziali del trattamento di un paziente psichiatrico grave“ espone sinteticamente un lungo processo di riflessione condivisa tra noi tre: Andrea Narracci, Giovanni Giusto ed io. Questa proposta si fonda sull’ipotesi che per affrontare efficacemente la grave sofferenza mentale un intervento terapeutico debba sviluppare sistematicamente ed equilibratamente tre livelli fondamentali all’interno di un progetto complessivo di trattamento:
- L’esperienza all’interno di una Comunità Terapeutica.
- La partecipazione ai Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare.
- La Psicoterapia Psicoanalitica Individuale integrata alla Terapia Amniotica.
Questa proposta riflette una profonda convergenza di vedute tra noi tre, maturata nel corso degli anni. L’obiettivo è quello di creare un intervento terapeutico completo che consideri e valorizzi l’interazione sinergica di questi tre livelli essenziali.
Ritengo opportuno riflettere sulle resistenze che possono emergere nell’adozione “sistematica ed equilibrata” dei tre livelli di intervento all’interno di un progetto completo di trattamento.
Forse la principale sfida nell’assumersi la responsabilità di prendersi cura e offrire un amore terapeutico ai pazienti afflitti da gravi forme di sofferenza mentale risiede nell’ accettare che tale sofferenze possono essere trasmesse, anche se, il più delle volte, in forma parziale.
Il dolore che si percepisce attraverso il paziente psicotico è spesso connesso all’angoscia di non esistere o di sentirsi frammentato, come un vaso con crepe da cui fuoriesce materia psichica. È di fondamentale importanza che il terapeuta sia in grado di identificare le proprie naturali difese contro le angosce di frammentazione, che si attivano nell’incontro con il paziente psicotico, al fine di poterle affrontare e attenuare.
Anche quando l’intensità dell’angoscia trasmessa dal paziente non è estremamente elevata, e il terapeuta non si sente andare in pezzi come il paziente, essa può comunque attivare un segnale di allarme per il terapeuta. Questo segnale è predisposto per proteggere inconsciamente l’integrità del sé del terapeuta.
Nel suo lavoro “Inibizione, Sintomo e Angoscia” del 1925, Freud ha introdotto il termine di “angoscia segnale”, un’emozione di intensità non necessariamente elevata, ma capace di segnalare all’Io un pericolo, ricollegandosi alle memorie delle grandi angosce della prima infanzia, come l’angoscia di castrazione, l’angoscia d’abbandono e l’angoscia di frammentazione. Tra queste, l’angoscia di frammentazione è indubbiamente la più dolorosa, poiché è in grado di richiamare “terrori senza nome” (Bion) o “angosce impensabili” (Winnicott).
L’angoscia segnale nell’incontro con il paziente psicotico è un avvertimento collegato al sentire emotivamente, ad un livello subliminale, inconscio, lo sfaldarsi e l’andare in pezzi del sé del paziente. È come se lo sgretolarsi dell’identità del paziente mettesse a rischio di frammentazione anche l’identità del terapeuta ricollegandolo alle angosce profondissime vissute, come ogni essere umano, in una fase precoce di sviluppo in cui il Sé non era ancora strutturato. Ciò attiva inconsciamente meccanismi di difesa il cui scopo è di allontanarsi dal paziente sentito come fonte di questi vissuti.
Ci sono vari modi per contrastare le spinte difensive che ci distanziano dai pazienti. Sarebbe interessante uno scambio teorico per confrontarci sulle modalità attraverso cui affrontiamo questo problema nei tre tipi di intervento (la comunità terapeutica, la psicoanalisi multifamiliare e la psicoterapia psicoanalitica delle psicosi) che vorremmo unificare in questo progetto complessivo di trattamento.
Nella formazione dello psicoterapeuta delle psicosi noi affrontiamo le spinte del terapeuta ad allontanarsi dal paziente ispirandoci al modello definito da Benedetti “psicoanalitico esistenziale”. Questo modello prevede, oltre al percorso psicoanalitico, anche una formazione fenomenologica. Il futuro psicoterapeuta è sensibilizzato ad “essere con“il paziente fino a condividerne parzialmente la sua sofferenza.
La base teorica della psicoterapia psicoanalitica esistenziale poggia sull’idea che l’angoscia di frammentazione sia provocata da una mancata integrazione all’interno del sé tra esperienze di simbiosi e di separazione. La formazione prevede, sia a livello intrapsichico che intersoggettivo, l’attivazione e l’integrazione tra esperienze di vicinanza simbiotica e di separazione. Sia nel setting individuale che gruppale, la condivisione della sofferenza mentale grave nell’identificazione con il paziente è controbilanciata da movimenti di differenziazione dallo stesso.
Nella formazione psicoanalitica esistenziale alla psicoterapia delle psicosi utilizziamo, tra gli altri strumenti, anche la terapia amniotica. In questo metodo si lavora specificamente sul rapporto corporeo tra vicinanza e distanza con il paziente grave. In questa situazione l’angoscia di frammentazione è più tollerabile perché si può sentire la vicinanza con il paziente non solo come angosciante ma anche come fonte di benessere.
Inoltre l’interconnessione corporea e psichica tra i partecipanti (la “mente ampliada” della psicoanalisi multifamiliare) permette di percepire, anche fisicamente, la dimensione terapeutica del gruppo che si prende cura dei nuclei psicotici di ogni singolo partecipante inclusi i terapeuti in formazione. Il contatto e l’elaborazione dei propri nuclei psicotici è forse per i terapeuti il modo migliore per sentire il paziente con grave sofferenza mentale come un proprio simile senza allontanarlo o ghettizzarlo nelle strette maglie della devianza psicopatologica.
Vero e saggio!
Dovremmo perfezionare la preparazione dei nostri collaboratori individuando, intanto, la motivazione sottesa a scegliere un lavoro tanto impegnativo quanto particolare come quello di alleviare la sofferenza dei “matti”.
Tutto ciò a partire da un approfondimento indispensabile del funzionamento del nostro apparato psicoemotivo, cosa che scarsamente si fa nei corsi di specializzazione; il che significa anche apprendere dall’esperienza e comunicare bene.
Proseguendo il tragitto e soffermandomi sul pensiero di Giusto, rifletto sul pensiero di Faggin, ovvero, sulla necessità che la capacità di conoscere debba esistere prima della conoscenza. Penso che questo percorso, come Gianni suggerisce, sia estremamente complesso. Nel mio piccolo, ho tentato di avvicinarmi ad esso con gruppi esperienziali (Corrao) costruiti con specializzandi in psichiatria e infermieri, attività descritte in alcuni lavori su REDANCIA. Aggiungo che una necessaria qualità dell’operatore, su cui ho ragionato e scritto, penso sia la capacitò di Dimenticare, cioè resistere al possibile imprigionamento dentro modelli teorici da cui non si riesce a prescindere.
Frammentazione, parola chiave. Nell’opera citata, Freud vede il prototipo dell’angoscia nell’esperienza della nascita, momento di crisi con passaggio da una totalità indistinta in cui – prosegue Freud – non si possono isolare, nè servono, specifici oggetti, a una condizione caratterizzata da pluralità di stimoli e oggetti che possono andar perduti in ogni istante (con possibile attacco alla coesione del Sé?) .
La nostalgia della totalità è una costante del nostro immaginario, anche se si palesa occasionalmente, come nelle esperienze dei mistici ma non soltanto. Un bambino una volta mi ha chiesto: “Perché Dio ha fatto il mondo disperso?”.
E’ mirabilmente espressa da Dante che pure sa come all’indicibile si possa solo alludere: “Nel suo profondo vidi che s’interna, legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna: sostanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume” . Ma l’insufficienza della dimensione logico – verbale è soccorsa dagli affetti, fonte di conoscenza: “La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo mi sento ch’i’ godo”.