Sii gentile. Fai del bene. Non aspettarti nulla in cambio. Bellissimi precetti, vero? Poi scopri che il mondo è pieno di individui che, anziché restituire la cortesia, si abituano alla tua disponibilità come si abitua il gatto di casa alla ciotola sempre piena. E così, il troppo buono diventa il troppo fesso. Ma la psicologia cosa ne pensa? Essere “troppo” buoni è una qualità o una condanna? Partiamo da un dato di fatto: la bontà è una caratteristica socialmente desiderabile. Chi è gentile e altruista viene apprezzato, riconosciuto, valorizzato. Ma quando questa inclinazione supera una certa soglia, si trasforma in un boomerang emotivo.
Il lato oscuro della bontà
Diciamolo chiaramente: l’idea che la bontà porti automaticamente a un ritorno positivo è una favola. Certo, ci piace pensare che il karma riequilibri i conti, ma la realtà è più simile a un condominio litigioso che a una favola Disney.
La psicologia sociale ci dice che il comportamento altruistico può avere due risvolti. Da un lato, è vero che le persone generose tendono a costruire relazioni più solide e significative. Dall’altro, chi è eccessivamente disponibile rischia di diventare il bersaglio perfetto per manipolatori, narcisisti e approfittatori seriali.
Un concetto interessante in psicologia è quello di altruismo patologico, studiato da Paul Gilbert e altri ricercatori. Si tratta di quel comportamento in cui l’aiuto verso gli altri diventa così totalizzante da compromettere il benessere personale. In altre parole, se dire sempre di sì ti porta ad annullarti, non stai facendo del bene: ti stai autodistruggendo.
E qui arriva la parte più tragica: spesso chi è troppo buono non si accorge nemmeno di essere sfruttato. Anzi, giustifica gli altri, cerca spiegazioni, si racconta che “loro non lo fanno apposta”. Il che, in alcuni casi, è vero: le persone non approfittano per cattiveria, ma semplicemente perché hanno trovato qualcuno che non pone limiti.
Come si fa ad essere “troppo” buoni?
Ma perché alcuni sembrano incapaci di dire di no? Le radici sono spesso profonde, affondano nell’educazione ricevuta e nelle esperienze di vita. In psicologia si parla di schema di sottomissione: chi cresce in ambienti in cui il valore personale è legato alla capacità di soddisfare gli altri tende a sviluppare una sorta di compulsione all’aiuto.
Freud direbbe che l’Io di queste persone è schiacciato tra un Super-Io severissimo (che impone di essere sempre gentili e disponibili) e un Es che vorrebbe ogni tanto mandare tutti al diavolo. Risultato? Il senso di colpa prende il sopravvento, e ogni tentativo di affermare i propri bisogni si trasforma in un’angoscia profonda.
A livello neurobiologico, alcune ricerche suggeriscono che chi è molto empatico potrebbe avere una maggiore attivazione dell’amigdala e delle aree cerebrali legate alla regolazione emotiva. Tradotto: percepiscono le emozioni altrui in modo amplificato, quindi per loro è quasi impossibile ignorare il disagio degli altri.
E poi c’è la sindrome del salvatore, concetto caro alla psicoterapia transazionale: chi si dedica in modo compulsivo agli altri spesso lo fa perché ha bisogno di sentirsi indispensabile. Aiutare diventa un modo per colmare un vuoto interno, per sentirsi meritevoli d’amore e riconoscimento. Peccato che, alla lunga, questo meccanismo generi solo frustrazione e risentimento.
Essere buoni, ma con criterio
Quindi la soluzione è diventare cinici e smettere di aiutare chiunque? Non proprio. La chiave sta nel sano egoismo, che non significa fregarsene degli altri, ma imparare a bilanciare le proprie energie. In altre parole: dare senza svuotarsi.
Ecco alcune strategie che la psicologia suggerisce per evitare di essere eccessivamente buoni a proprio discapito:
- imparare a dire di no: sembra banale, ma è la prima linea di difesa. Non serve giustificarsi con scuse elaborate: un semplice “Non posso” è più che sufficiente
- riconoscere i manipolatori: esistono persone che sanno sfruttare la bontà altrui per ottenere ciò che vogliono. Se qualcuno si fa vivo solo quando ha bisogno, forse è il caso di riconsiderare il rapporto
- dare con consapevolezza: essere generosi va bene, ma non deve diventare un riflesso automatico. Prima di dire sì, chiediti: “Lo sto facendo perché voglio o perché mi sento obbligato?”
- valutare il proprio valore: il bisogno di approvazione spesso spinge a essere troppo disponibili. Ricordarsi che il proprio valore non dipende da quanto si fa per gli altri è un ottimo antidoto contro l’altruismo patologico
- accettare di non piacere a tutti: chi smette di essere sempre disponibile potrebbe trovarsi di fronte a reazioni negative. Pazienza. Chi si offende perché non lo accontentiamo non ci voleva bene, voleva solo qualcosa da noi
Conclusione: un equilibrio possibile
Essere buoni è una qualità, su questo non ci piove. Ma essere troppo buoni può diventare un problema, soprattutto in un mondo che tende ad approfittarsene. La psicologia ci insegna che la chiave sta nel trovare un equilibrio: essere gentili senza diventare zerbini, generosi senza perdere se stessi.