Qualche giorno fa, un episodio di cronaca ha profondamente scosso la città in cui vivo: una giovane di 13 anni, dopo un banale litigio con i genitori riguardante il cellulare, si è tolta la vita lanciandosi nel vuoto. Un suicidio tragico, l’ennesima manifestazione di un disagio giovanile che continua a essere poco compreso.
Le passioni tristi degli adolescenti
Questo fenomeno, come direbbero Benasayag e Schmit, è espressione di quelle “passioni tristi” che caratterizzano l’adolescenza moderna, segnate dalla mancanza di senso e prospettive. Un senso di impotenza e incertezza che spinge i giovani a chiudersi al dialogo, basato su una sfiducia di fondo nel futuro, il cui mito come “deus ex machina” e “risolutore di problemi” è irrimediabilmente tramontato, e che spinge tanti ragazzi a concentrarsi sul proprio ego e su un utilitarismo così pragmatico da rendere sterili i rapporti affettivi, gli scopi di vita e in definitiva la psiche stessa.
Tuttavia, a prescindere da un discorso che per forza di cose deve essere generico, ciò che mi ha colpito di più non è stato l’episodio in sé — frutto sicuramente di dinamiche complesse che non possiamo pretendere di comprendere appieno, non sapendo nulla né della ragazzina in questione né del suo contesto — ma il modo in cui esso è stato trattato dai media. Il titolo ricorrente sui giornali recitava che la ragazza si fosse suicidata “perché i genitori le avevano tolto il cellulare”.
È importante non banalizzare il vissuto esistenziale
Trovo questa spiegazione incredibilmente superficiale e gravissima, perché banalizza il complesso vissuto esistenziale che può portare a un gesto così estremo, e lo riduce a uno sterile rapporto di causa – effetto, che non può assolutamente essere esaustivo. Un titolo del genere non fa altro che alimentare sensi di colpa nei genitori, anch’essi vittime di questa tragedia, rischiando di spingerli a ritenersi i diretti responsabili del gesto a causa del loro divieto e di instillare inoltre paura in tutti coloro che cercano faticosamente di comprendere e sostenere i loro figli adolescenti, in un periodo di vita già di per sé complesso. Chi potrebbe, dopo aver letto una notizia del genere, in tutta serenità tentare di imporre un sano limite ad un adolescente se basta così poco per spingerli a commettere azioni così drammatiche? Chiaramente, anche solo a leggere queste poche righe ci si rende facilmente conto dell’infondatezza di tali affermazioni.
Le vere ragioni di un suicidio
Nessun cellulare tolto, né alcun divieto di partecipare a una festa, può da solo spingere una persona al suicidio. L’atto di togliersi la vita non nasce dalla rabbia o dalla depressione momentanea, e nella stragrande maggioranza dei casi nemmeno da una acuta crisi emotiva, ma piuttosto da una lenta e dolorosissima presa di coscienza di non avere alternative, dalla percezione di una mancanza di prospettive. È come se il soggetto percepisse uno stop radicale e definitivo a ciò che rappresenta l’unico motore capace di farci affrontare il disagio esistenziale: la speranza.
Quando una persona si sente metaforicamente rinchiusa in una stanza senza porte né finestre, anche un litigio o una piccola incomprensione possono fornire l’occasione apparente per un gesto tragico. Ma non dobbiamo illuderci: queste circostanze sono solo un contesto superficiale. Il vero disagio è molto più profondo e spesso inesprimibile, tanto che deve essere “ritualizzato” con un agito estremo per essere rappresentabile.
Il suicidio come unico atto di libertà
Come Gaetano Benedetti sottolinea, il suicidio può diventare, in modo paradossale, l’unico atto di “libertà” per chi è tormentato da alcune parti della propria psiche. In questo senso, è un gesto terribile, ma che per la persona può rappresentare un’uscita da una sofferenza ritenuta insostenibile. Da psicoanalista, mi trovo di fronte alla complessa sfida di rispettare il diritto dell’individuo di disporre della propria vita, anche nella morte, e contemporaneamente lottare al fianco delle sue parti che chiedono aiuto per preservare il diritto all’esistenza.
Le parole di James Hillman risuonano in me: il suicidio è un grido dell’anima, e la morte che esso rappresenta simboleggia in realtà la fine di una parte di sé e il bisogno disperato di una trasformazione. È per questo che dovremmo spostare la nostra attenzione: non sui cellulari negati o sulle limitazioni imposte, ma sulle grida d’aiuto che spesso vengono sottovalutate o non ascoltate, sia in famiglia che al di fuori di essa. Solo spostando faticosamente il focus dalla morte del corpo alla morte di alcune parti “morte”, si può lavorare su quella trasformazione tanto necessaria quanto agognata. Non è mai semplice, tuttavia come dice De Martino, se ogni uomo è alle presa con l’angoscia del doverci essere, allora forse quando ci si perde dentro e si sente di non voler esistere, l’unica possibilità è nella relazione, e nell’ essere-con-qualcuno.