Vaso di Pandora

L’esperienza di uno specializzando in psichiatria

Nella mia breve esperienza lavorativa ho sempre considerato l’inizio di un percorso comunitario come la fine di un viaggio, il raggiungimento di un obiettivo. La formazione di uno specializzando in psichiatria, come me, prevede che la maggior parte del tempo venga trascorso in contesto ospedaliero o nelle mura dei servizi territoriali, siano questi centri di salute mentale o servizi per le dipendenze. Ed è forse il contesto di reparto, con l’affasciante frenesia che lo caratterizza, ad aver forgiato in me questa forma mentis.

Il SPDC è un mondo nell’universo del contesto ospedaliero, dove chi è alle prime armi ha la possibilità di conoscere da vicino l’eterogeneità della psicopatologia, il furore della sua presentazione e la difficoltà che si rileva nel tentativo di comprenderla e domarla. Il reparto è quindi sì un acceleratore di esperienze, ma al tempo stesso rischia di rendere l’approccio al paziente come una caccia al sintomo, così da poterlo afferrare e debellare, perdendo di vista il reale obiettivo: la cura della persona.

Il minor tempo possibile

Lavorare in reparto implica dover convivere con uno scomodo nemico, il tempo, che costantemente assedia l’operatore, il quale è consapevole di dover agire celermente negli interessi dei pazienti, siano questi in regime di ricovero o in attesa di essere aiutati.

“Il minor tempo possibile” è ciò che si dice al paziente che chiede delucidazioni sulla durata della degenza; la stessa frase è forse anche il mantra di chi lavora in questo sistema, dove si devono conciliare esigenze spesso in contrasto tra loro: l’attenzione nei confronti del paziente, la velocità nell’agire, il ricambio dei posti letto, i costi di budget, le chiamate dal pronto soccorso.  

“Il minor tempo possibile” è avere calma nella fretta, trovare la chiave per far funzionare il sistema garantendo che il benessere del paziente rimanga lo scopo primario.

L’invio di un paziente in comunità

In tale ottica l’invio di un paziente in comunità è la fine di un lavoro, l’obiettivo, l’inizio di un nuovo ricovero, di un nuovo paziente a cui ne seguirà un altro e un altro ancora.

Le scelte formative che ho intrapreso negli ultimi mesi hanno fatto sì che questo punto di vista progressivamente cambiasse, che venisse inglobato in una visione d’insieme più ampia, meno puntiforme, in cui la frenesia perde un po’ della sua centralità.

Interessato allo studio dei comportamenti criminosi ho deciso di iniziare un tirocinio presso la REMS Villa Caterina, recentemente inserita nella rete formativa della specialità. Il fascino del male, che mi ha spinto verso questo percorso, ha aperto le porte a un nuovo aspetto della cura, strettamente legato al funzionamento di una realtà residenziale. È in tale contesto che ho avuto la possibilità di avvicinarmi al mondo che segue il ricovero, di avvicinarmi al “dopo”.

Uno specializzando in psichiatria in comunità

Lavorare in una comunità significa operare nella quotidianità degli ospiti, sì condita di psicopatologia, ma al cui centro risiede la persona nella sua esistenza, nel funzionamento, nel suo modo di vedere e comprendere il mondo, nell’insieme dei suoi valori. Operare in una realtà residenziale significa accettare di entrare a far parte della routine del paziente, il che richiede saper agire nel rispetto dei valori delle persone, senza invadere la loro intimità o ledere la loro individualità.

La conoscenza del sintomo, del malessere come epifenomeno, risulta insufficiente nell’aiuto all’altro. L’altro va conosciuto per come è, nella sua essenza, così che quanto sappiamo del disturbo si intrecci col sistema di valori che lo fa stare nel mondo, restituendoci un’immagine della persona più completa e complessa rispetto a un agglomerato di sintomi.

La mia concezione del tempo come specializzando in psichiatria

Questo periodo di formazione ha anche rimaneggiato la mia concezione del tempo nell’attività lavorativa. Presenza pressante e veloce nel palcoscenico ospedaliero, il tempo si è concretizzato in un’ambivalenza che prima mi era sfuggita, in cui la frenesia è contrapposta dallo scandire lento delle giornate. “Il minor tempo possibile” in questo contesto assume un significato estraneo, lontano dall’operatore. Il tempo si osserva nell’ottica della quotidianità, il cui ripetersi risulta base solida su cui lavorare.

Dedicarmi a ciò che ritenevo la fine del lavoro, tutto quel che segue il raggiungimento dell’obiettivo, mi ha mostrato la vastità del sistema in cui agiamo, ponendo valore all’unicità di ogni singola persona, con i propri tempi e necessità.

Ed è nel rispetto di questa complessità che il tempo va accolto nella sua spiccata mutevolezza e relatività.

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