Specificità dell’assistenza in comunità terapeutica
Con questo scritto vorrei raccontare quello che ho imparato lungo un percorso durato tanti anni in comunità e strutture che si è sviluppato nelle Strutture Intermedie della ASL2 Savonese e a stretto contatto con la rete di strutture che fa capo al Gruppo Redancia, dove peraltro queste riflessioni erano iniziate. Il punto di partenza, così come è stato all’epoca, sarà una riflessione sul ruolo della assistenza.
L’assistenza in Psichiatria
Tutto cominciò con una riflessione sull’assistenza nelle strutture intermedie. Con questo termine, ormai classico con cui si definisce l’assistenza in comunità terapeutiche nel nostro sistema psichiatrico, si identificano luoghi e gruppi molto diversi tra di loro, ma non può prescindere da una riflessione, e anche da una cultura identitaria, della funzione assistenziale, e non solo terapeutica, della Comunità Terapeutica e più in generale dell’operatore psichiatrico. La prospettiva, che presenteremo, è che l’operatore psichiatrico fornisce in termini relazionali quello che altri operatori in altri ambiti sanitari forniscono in termini di azioni e tecniche specifiche. Userò come riferimento la scala dei bisogni di Maslow, che rappresenta per tutti gli infermieri, un riferimento di base nella formazione delle proprie competenze professionali.
Com’è nato questo pensiero sull’assistenza in Comunità Terapeutica?
Nel 2000 sono entrato al CTPP Villa Frascaroli, un centro crisi dell’OC S. Corona, che funzionava secondo il principio (su base psicodinamica) della terapia istituzionale proposta da P.C. Racamier, e ho incontrato quello che sarebbe stato il mio gruppo di lavoro di riferimento per parecchio tempo, un gruppo di persone pensante, e operatori molto formati. In quel periodo ero stato coinvolto nella costruzione di un libro, che sarebbe stato poi edito da Boringhieri e che si sarebbe chiamato “Lavorare in Psichiatria”.
A me era stato affidato il capitolo sulla assistenza. Così ho chiesto agli operatori che cosa fosse l’assistenza e loro me lo hanno diligentemente spiegato e ho imparato che nella formazione degli infermieri era centrale la scala di Maslow, che io conoscevo per altre vie.
Così abbiamo deciso di lavorare insieme a questo capitolo del libro organizzandolo intorno ad una ridefinizione della scala dei bisogni di Maslow in chiave relazionale.
La scala di Maslow
La scala di Maslow viene rappresentata come una piramide alla base della quale ci sono i bisogni fondamentali, direttamente collegati alla sopravvivenza, poi la sicurezza, la vita affettiva e relazionale per salire verso la cima della piramide verso la moralità, la creatività, insomma funzioni molto elevate.
È stata un’esperienza per noi molto interessante che ci ha aiutato a definire meglio che cosa ha, o dovrebbe avere, di speciale un operatore psichiatrico. Perché è chiaro che l’operatore psichiatrico, di qualsiasi livello, deve avere delle competenze che negli altri operatori sono importanti ma meno centrali, e queste competenze hanno a che fare con la capacità di stare in relazione, con se stessi e con l’altro.
Così, fornire l’assistenza alla sopravvivenza del paziente non consiste nell’utilizzo di strumenti, fondamentali per esempio in rianimazione, o nella capacità di tecniche rianimatorie, al di là di quelle di base in cui tutti dobbiamo essere competenti, ma piuttosto nella capacità di cogliere, anche e spesso soprattutto ascoltando se stessi, il desiderio del proprio paziente di farla finita, di aiutarlo a ricoverarsi. ecc.
Così, assisterlo nel suo bisogno di sicurezza significa fargli sentire che può essere capito e accettato così com’è, e che siamo lì per proteggerlo anche da se stesso.
In realtà però la maggior parte del lavoro riguarda il terzo livello: se questo approccio mantiene in reparto comunque una sua chiarezza legata all’aspetto incubatorio della degenza, nelle strutture intermedie il baricentro si sposta progressivamente nella relazione tra operatore e paziente, evidenziando gli aspetti educativi del percorso, che non si limitano alle cosiddette attività riabilitative, ma piuttosto sono radicate nei gesti della vita quotidiana e in ciò che accade tra le persone e sono tanto più importanti quanto più sono semplici e basilari nella vita di ciascuno.
Tanto meno i pazienti sono acuti ed evidentemente in uno stato che definiamo come psicotico (che sancisce per definizione una differenza qualitativa della esperienza tra noi e loro), tanto più succede di rispecchiarci in loro, cosa da un lato molto utile per entrare in rapporto, ma pericolosa per noi se non sappiamo gestire questa esperienza.
Le false credenze del lavoro in psichiatria
E un aspetto importante di questo modo di essere operatori, cioè un problema, è che se non viene capito e accettato, come di solito avviene, suscita all’inizio l’immagine di un lavoro semplice, poco faticoso, molto simile a una badanza, e questo ha fatto sì, e fa sì, che gli operatori arrivino in ambito psichiatrico convinti che faticheranno meno, e che si tratterà di un lavoro meno impegnativo. Salvo scoprire poi che la fatica psicologica, l’essere a mani nude nella relazione con lui, è molto impegnativo, e tocca di solito tasti sensibili di ciascuno di noi.
Salvo scoprire che questi pazienti ci suscitano emozioni forti e contrastanti, e che conoscere queste emozioni e saperle usare sono gli strumenti di cura fondamentali nel lavoro istituzionale, così come scoprire che curiamo coi nostri difetti e non coi nostri pregi, ma che non conoscendo noi stessi e queste emozioni, rischiamo in realtà molto perché rispecchiarci in loro significa riconoscere quanto siamo in realtà simili, quanto essere da una parte o dall’altra del tavolo sia una questione di dettagli, di sliding doors; significa fare i conti con i nostri fallimenti e la nostra parte ombrosa. Per poter fare questo occorre essere in una istituzione solida, in un gruppo di cui mi fido, e avere la possibilità di dialogare e confrontarmi
In Comunità le azioni diventano “parlanti”
È così che in Comunità le azioni possono diventare “parlanti”, come diceva Racamier, (le azioni sono sempre parlanti, ma di solito parlano una lingua che non capiamo) ed è così che diventano il luogo della cura, ma azione significa relazione, reciprocità, empatia e condivisione, e poi capacità di condividere in gruppo, ascoltare i propri e altrui sentimenti negativi, in pratica accettare di fare esperienza dell’Altro come essere vivente per aiutarlo a vivere una esperienza di cambiamento e di crescita. Pensate a che differenza con un operatore, sia esso un medico, un infermiere o un Operatore Socio Sanitario in un reparto di neurochirurgia (operatori di solito in cima alla piramide della considerazione degli operatori sanitari)…
Ma pensate anche che, visto in questa prospettiva, più le azioni riguardano i bisogni fondamentali, di base, della persona, tanto più sono importanti e tanto più importante l’operatore che le esegue. Per questa ragione, anche se in modo in piccola parte provocatorio, ho sempre sostenuto che in struttura la gerarchia è invertita, e che quelli che sanno di più dei pazienti sono quelli di cui il paziente ha meno timore, e che si occupano dei bisogni fondamentali.
Per l’operatore di comunità questo è particolarmente vero ed importante, perché passa molte ore e molti mesi con le stesse persone, in un setting molto meno rigido e definito di quello del reparto, dove i ruoli e le posizioni sono ben definite, così come un contratto terapeutico che in comunità è molto meno “medico”, e in cui si trova a vivere dei legami intensi con persone per definizione difficili, e in cui si trova spesso a dover rispondere rapidamente ad una situazione emotivamente intensa senza poter accedere a un protocollo preciso e spesso senza un medico a cui fare riferimento immediatamente. Certo, il lavoro di gruppo aiuta molto, ma intanto bisogna aspettare, e anche stare in gruppo e saperlo utilizzare, apprezzare le differenze tra le persone nonostante i conflitti inevitabili, altre doti che altrove sono molto meno richieste.
Conclusioni sull’assistenza in Comunità Terapeutica
Abbiamo visto che l’assistenza in Psichiatria, è essenzialmente assistenza relazionale, ma spero sia chiara la complessità di questa prospettiva: implica usare se stessi come strumento terapeutico, implica una vicinanza emotiva al tempo stesso istintiva e pensata… tutto questo richiede in realtà molto impegno, molto lavoro formativo, costante, ma è anche in grado, e questa è la mia esperienza, di dare molto, di aiutare a conoscersi e a sapere conoscere e vivere le nostre zone più ombrose.
L’alternativa è un burnout fatto di farmaci e contenzioni e, alla fine, di manicomio!