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Omicidi seriali: fattori psichiatrici o legame con la criminalità organizzata?

Il fenomeno degli omicidi seriali affascina e inquieta la psiche collettiva, suscitando interrogativi sulla loro genesi e sulle motivazioni profonde che spingono un individuo a compiere atti di violenza reiterata. Siamo di fronte a una questione meramente psichiatrica o esiste un collegamento con le dinamiche della criminalità organizzata?

Profili psichiatrici dei serial killer

Le scienze psicologiche e psicoanalitiche hanno lungamente indagato le caratteristiche comuni ai serial killer, evidenziando tratti di psicopatia, narcisismo patologico e disturbi antisociali della personalità. L’assenza di empatia e la mancanza di rimorso rappresentano spesso i pilastri di una mente capace di reiterare l’omicidio con freddezza e metodicità.

Secondo la teoria psicoanalitica freudiana, la repressione di pulsioni inconsce, unita a traumi infantili e carenze affettive, può favorire una scissione dell’Io, portando l’individuo a proiettare il proprio dolore su vittime simbolicamente significative. Come evidenziato dall’avvocato criminalista Gianluca Arrighi, nel caso degli assassini seriali di prostitute, il desiderio di controllo e l’ossessione per la supremazia sulla donna sembrano essere elementi ricorrenti.

Giandavide De Pau, autore del recente triplice omicidio nel quartiere Prati di Roma, presentava un quadro psichiatrico complesso: tossicodipendenza da cocaina, pregressi problemi mentali e una condizione di vulnerabilità psicotica che potrebbero aver agito da detonatore per la sua furia omicida. Un copione simile si riscontra in molti altri casi di serial killer, dove la violenza diviene un mezzo per sublimare un profondo conflitto interno.

Criminalità organizzata e omicidi seriali

Nonostante la prevalenza di disturbi psichiatrici nei serial killer, non si può escludere una correlazione con la criminalità organizzata. Alcuni assassini seriali hanno avuto contatti con ambienti malavitosi, sia come esecutori di omicidi su commissione, sia come individui già inseriti in circuiti criminali. Tuttavia, è fondamentale distinguere tra il killer seriale, che agisce seguendo un impulso interiore e compulsivo, e l’assassino legato a organizzazioni criminali, che uccide per motivazioni economiche, vendetta o mantenimento del potere.

Nel caso di De Pau, il suo legame con la criminalità romana suggerisce una possibile influenza esterna, ma il modus operandi e la scelta delle vittime lasciano intendere un movente profondamente personale. Analogamente, Donato Bilancia, tra i più noti serial killer italiani, ha mostrato una spiccata meticolosità e un distacco emotivo nelle sue esecuzioni, senza però rientrare in dinamiche mafiose.

Omicidi seriali: un fenomeno trasversale

L’idea che l’arresto del Mostro di Firenze abbia segnato la fine dell’era dei serial killer in Italia si scontra con la realtà dei fatti. Gli omicidi seriali non sono scomparsi, ma hanno assunto forme differenti, spesso meno riconoscibili a prima vista. Oltre ai classici serial killer, si sono moltiplicate le figure di mass murderers e spree killers, ovvero individui che, seppur con dinamiche diverse, manifestano ugualmente una furia omicida incontrollata.

Un elemento interessante riguarda la scelta dell’arma. Mentre De Pau ha usato un coltello, altri assassini come Bilancia e Claudio Campiti hanno preferito armi da fuoco, dimostrando che l’impulso omicida non si lega a un unico schema operativo, ma varia in base alle caratteristiche psicologiche e alle opportunità contingenti.

Conclusioni

L’analisi psichiatrica e criminologica degli omicidi seriali suggerisce che, pur esistendo casi di connessione con la criminalità organizzata, la maggior parte dei serial killer agisce in base a una dinamica interna, radicata in disturbi profondi e traumi irrisolti. La violenza sistematica non è solo un atto di criminalità, ma un sintomo estremo di un’anima spezzata, che trova nell’omicidio un illusorio riscatto dal proprio tormento interiore. Comprendere la mente di questi individui non significa giustificarli, ma cercare di prevenire e riconoscere segnali precoci di pericolo, in un’ottica non solo repressiva, ma anche terapeutica e sociale.

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