Era il 2017. Otto anni fa. Ero a Torino ad un corso sulla TMS (Stimolazione Magnetica Transcranica) quando a un certo punto ho visto questo stand sul neurofeedback. Caschetti strani, fili dappertutto. Roba che sembrava presa da un film di fantascienza di quelli artigianali, come Nirvana di Gabriele Salvatores.
Mi sono fermato. Ho cominciato a fare domande all’informatore, un sacco di domande, soprattutto sulle evidenze scientifiche coperte da tanto marketing. Era preparato, non c’è che dire. Ma alla fine sono andato via con un pensiero in testa: troppo presto. Troppo acerbo. “Non è ancora il momento”.
E invece, la tecnologia va avanti. Non chiede il permesso a nessuno. Quello che otto anni fa sembrava un giocattolo da fiera oggi lo usano Sinner e Leclerc. Atleti professionisti, sui quali si investono milioni di dollari.
Questo, per chi lavora in salute mentale, apre scenari interessanti. Ma anche un po’ inquietanti, a dirla tutta.
Come funziona il neurofeedback?
Al centro di questo mondo troviamo un nome che ormai è noto nello sport: il Dott. Riccardo Ceccarelli, fondatore e CEO di Formula Medicine, che da anni porta le tecnologie più avanzate al servizio delle performance sportive dei migliori atleti.
In questo contesto il dispositivo introdotto in italia dal Dott. Ceccarelli si chiama FocusCalm, un headset che a prima vista ricorda semplicemente un cerchietto futuristico, ma in realtà è un sistema EEG portatile, progettato per leggere le onde cerebrali.
Come funziona il training con FocusCalm?
Il principio è semplice: il dispositivo rileva le onde cerebrali in tempo reale e invia i dati via Bluetooth a un’app. Quest’ultima non restituisce solo un grafico, ma un punteggio istantaneo chiamato “FocusCalm score”, che misura lo stato mentale dell’utente.
Il percorso di allenamento si divide in tre fasi:
- Learn (Impara): meditazioni guidate, esercizi di respirazione e contenuti di psicologia dello sport per insegnare agli atleti strategie di autoregolazione.
- Practice (Pratica): qui il neurofeedback diventa attivo. Giochi e attività si “muovono” in base all’attività cerebrale. Ad esempio controllare sullo schermo una mongolfiera facendola salire soltanto calmando la mente. È un condizionamento operante applicato alle proprie onde cerebrali.
- Challenge (Sfida): vengono stimolate funzioni esecutive come attenzione, memoria e decision-making, mettendo l’atleta sotto pressione controllata per insegnargli a restare lucido proprio quando la tensione è al massimo.
L’obiettivo finale è sviluppare la cosiddetta efficienza neurale: non un cervello che lavora di più, ma uno che lavora meglio, attivando solo le aree necessarie con il minimo dispendio di energia.
Dal potenziamento mentale al rischio etico
Qui si apre però la parte più delicata: quella etica. FocusCalm ci assicura sul piano della privacy, dichiarando che i dati EEG grezzi vengono elaborati localmente sul dispositivo e cancellati al termine di ogni sessione. Una garanzia importante.
Eppure, molte riviste come Wired, hanno parlato della recente inchiesta americana sui legami tra la casa madre BrainCo e il governo cinese, ricordandoci che non bisogna mai abbassare la guardia. Se anche i dati “puri” non viaggiano, che cosa succede con i metadati o con i punteggi aggregati? A cosa vengono destinati?
Da psichiatra e psicoterapeuta, sento subito il richiamo al fondamento del nostro lavoro: la sacralità dell’alleanza terapeutica e il rispetto assoluto della persona. Cosa accade quando il setting terapeutico non è più una stanza protetta, ma un’app collegata a server internazionali? Gli atleti firmano consensi davvero informati, consapevoli non solo dei vantaggi per la performance ma anche dei rischi connessi ai loro dati? Non dimentichiamoci che una mappa di risposte cerebrali allo stress è un dato sensibile, o “particolare” come si dice ora, capace di influenzare decisioni non solo mediche, ma anche economiche e gestionali.
La speranza in fondo al vaso
Se il mito di Pandora ci insegna qualcosa, è che dopo aver liberato tutti i mali, sul fondo rimane la speranza. E io credo che questa risieda nella nostra capacità, come comunità scientifica e clinica, di guidare la transizione. La tecnologia non va demonizzata: va compresa, regolamentata e integrata in modo etico.
Il neuro-coaching di Sinner e Leclerc, tra gli altri, ci costringe a guardare avanti, all’idea di un supporto mentale capace di integrare il colloquio clinico con dati biometrici personalizzati. Pensiamo alle potenzialità: aiutare un paziente con disturbo di panico a gestire in tempo reale i picchi di attivazione, o supportare un ragazzo con ADHD attraverso esercizi cognitivi EEG-based da casa. È un futuro che sembra fantascienza, ma che in realtà è già alle porte.
Per affrontarlo, serve però una nuova alfabetizzazione: non basta la competenza clinica o psicoterapica. Dobbiamo anche comprendere linguaggi tecnologici, informatici ed etici, diventando i garanti della “privacy neurale”. Non è un’esagerazione: stiamo parlando dei dati più intimi che un essere umano possa produrre, l’impronta stessa della sua attivazione neurale.
Ecco la vera sfida. Possiamo essere come Epimeteo, che accolse Pandora senza riflettere sulle conseguenze. Oppure provare a fare come Prometeo, e usare questo “fuoco” tecnologico per illuminare la strada della cura e del benessere.
La mente umana resta l’ultimo territorio inesplorato: il nostro compito è difendere la sua libertà.




Ma perché non parliamo chiaro: noi veramente pensiamo che la mente umana sia una macchina e noi i meccanici che la aggiustano, come un computer?
Federico Faggin, che i computer li ha inventati, ci spiega il contrario nei suoi libri. Eppure seguitiamo a ritenere il contrario.
Io rispetto tutti gli orientamenti, l’unica questione che pongo è se il modello che prevede che un tecnico sia in grado di risolvere i problemi di un paziente sia l’unico che abbiamo a disposizione? Oppure che ce ne sia anche un altro che punta sulla trasformazione del paziente da oggetto di intervento a soggetto del suo cambiamento? Come fanno le Comunità Terapeutiche che operano con l’idea di fondo permettere ai pazienti di ricostruire o di costruire per la prima volta, la propria soggettività.
Gentile Prof. Narracci,
la ringrazio per il suo contributo, che solleva una questione fondamentale per tutti noi che lavoriamo nell’ambito della salute mentale. Tuttavia, credo ci sia stato un fraintendimento rispetto al contenuto e al messaggio centrale dell’articolo.
Il testo non sostiene affatto un modello meccanicistico della mente, né propone il neurofeedback come “aggiustamento tecnico” di un sistema guasto. Al contrario, l’articolo nasce proprio da una riflessione critica su questi rischi.
Ci tengo a precisare che il dispositivo menzionato nell’articolo non rappresenta affatto uno strumento miracoloso per la cura delle patologie psichiatriche, sarebbe irrispettoso oltre che intellettualmente scorretto sostenere il contrario. Si tratta piuttosto di una tecnologia utilizzata nel training di atleti d’élite, finalizzata in modo mirato al potenziamento di funzioni come la capacità di concentrazione e il raggiungimento di stati di rilassamento ottimali per la performance. Il suo impiego si inserisce nel contesto dell’allenamento mentale, non come cura dei disturbi, ma come supporto all’eccellenza sportiva.
La frase conclusiva dell’articolo recita: “La mente umana resta l’ultimo territorio inesplorato: il nostro compito è difendere la sua libertà.” Questo non è il linguaggio di chi riduce la mente a macchina, ma di chi riconosce la sua irriducibile complessità e dignità.
Quanto al modello che Lei contrappone, quello delle Comunità Terapeutiche centrate sulla soggettività, non solo non lo nego, ma lo presuppongo. Quando scrivo di “integrare il colloquio clinico con dati biometrici personalizzati”, parlo proprio di integrazione, non di sostituzione. Il neurofeedback, come qualsiasi strumento tecnologico in psichiatria e psicoterapia, può essere uno strumento al servizio della relazione terapeutica, non un suo sostituto.
La letteratura scientifica recente sul neurofeedback nello sport evidenzia miglioramenti significativi non solo in parametri tecnici, ma anche nell’autoregolazione emotiva, nella gestione dell’ansia cognitiva e nella memoria di lavoro. [1]
Questi dati non negano la soggettività dell’atleta, ma offrono un feedback oggettivo che l’atleta stesso può utilizzare per sviluppare maggiore consapevolezza e controllo dei propri stati interni, un processo che richiede la partecipazione attiva del soggetto, non la sua riduzione ad oggetto.
La metafora di Prometeo ed Epimeteo va proprio in questa direzione: possiamo accogliere acriticamente la tecnologia (Epimeteo), oppure usarla consapevolmente per “illuminare la strada della cura” (Prometeo). Quest’ultima opzione richiede una comunità scientifica vigile, capace di guidare eticamente l’innovazione.
Concordo pienamente con Lei sul fatto che non esista un unico modello valido. La complessità della sofferenza psichica richiede pluralità di approcci. Ma proprio per questo credo sia importante non creare false dicotomie tra tecnologia e umanità, tra dato biometrico e soggettività. La sfida contemporanea è trovare sintesi creative che rispettino entrambe le dimensioni.
Sarei molto interessato a proseguire questo dialogo, perché questioni come queste meritano confronti aperti e approfonditi. Il suo richiamo all’importanza della soggettività è prezioso e condivisibile: chiediamoci insieme come preservarla anche quando utilizziamo nuovi strumenti.
Con stima,
Davide Bianchi
1) Tosti B, Corrado S, Mancone S, Di Libero T, Carissimo C, Cerro G, Rodio A, da Silva VF, Coimbra DR, Andrade A, Diotaiuti P. Neurofeedback Training Protocols in Sports: A Systematic Review of Recent Advances in Performance, Anxiety, and Emotional Regulation. Brain Sci. 2024 Oct 18;14(10):1036. doi: 10.3390/brainsci14101036. PMID: 39452048; PMCID: PMC11506327.
La speranza è solo mia,!.
Mi aiuta e mi sostiene..
L’intelligenza artificiale ci aiuti e supporti.
Ma non invada la speranza.
Le giustificazioni dell’autore dell’articolo non mi convincono granché, anche se le ho apprezzate per la passione che vi infonde. Non vorrei passare per un nostalgico, ma sento un terribile olezzo di ritorno all’« organicismo» di un tempo che fu, cioè la riduzione dei processi mentali degli umani ai suoi substrati organici o neurologici. Le neuroscienze, la (psico)farmacologia, la TMS, l’ AI, il neuro feedback, e l’EMDR sotto vari aspetti. Tutte cose molto utili se utilizzate con prudenza, immagino.
In generale, mi viene da dire che le scorciatoie in questo mestiere temo non portino un gran bene ad alcuno. Risposte semplici a problemi complessi come l’ interazione tra persona e ambiente possono essere foriere di disastri immani sia a livello individuale che collettivo. O forse è soltanto una questione di linguaggio? Se a suo tempo avessimo chiamato l’elettroshock con un termine meno brutale e certamente più evocativo di paradisi mentali come “Stimolazione magnetica transcranica”, forse, dico forse, oggi guarderemmo con più indulgenza a quello “sfortunatissimo inciampo” medico? In fondo, si tratta pur sempre di far passare, seppure con altri mezzi, un po’ di corrente elettrica tra i neuroni sfasati.
E tuttavia, da profano (non sono nè medico, nè psicologo) mi chiedo se certe esibizioni “scientifiche” moderne siano davvero così necessarie per il progresso di certa scienza. Si può giustificare tutto in nome dell’evoluzione scientifica? In qualsiasi campo, voglio dire. Senza certi strumenti che sembrano promettere mirabilie sulla persona ne sapremmo oggi di meno in tema di nevrosi o di disturbi di personalità? Forse arriva un momento in cui non è più tanto importante decidere se una teoria o una prassi sono più o meno scientifiche. Ma se sono “etiche” più verosimilmente. Se dovessimo dare retta a Thomas Kuhn anche la scienza e i suoi metodi sono influenzati da fattori sociali, culturali e storici tipici di un certo periodo storico. Da ciò ne deriva che anche il paradigma scientifico all’interno del quale operiamo oggi non è oggettivo, né neutro, dunque. Non è oggettivo e questo lascia spazio a diversi modelli di intervento sulla psiche; non è nemmeno neutro, però. Sotto questo punto di vista, gli strumenti che utilizziamo per curare le persone sono da considerarsi espressione del clima etico e morale del nostro tempo, anche? E qual è il quadro di riferimento che guida gli operatori della sanità e gli altri scienziati del nostro tempo mentre pensano e affrontano i problemi delle sofferenze neurologiche e mentali/psicologiche? Vale la pena porsi di queste questioni in tempi in cui la disumanizzazione e l’avanzamento di ideologie disumanizzanti hanno sempre più modo di condizionare le nostre vite di “sani” e “malati”. Buona giornata e buon lavoro
Gentile Marcello,
colgo il valore delle sue osservazioni: l’invito alla prudenza, la critica alle “scorciatoie”, il richiamo alla centralità dei fattori culturali, storici ed etici nell’evoluzione della scienza.
Vorrei però chiarire che la posizione espressa nel mio articolo non rientra nell’organicismo classico che Lei teme, ossia la riduzione del vissuto psichico a puro derivato di un substrato organico o elettrochimico. La riflessione proposta è critica proprio verso ogni possibile semplificazione: per questo sottolineo l’importanza dell’alleanza terapeutica, la gestione etica dei dati, la necessità di integrare strumenti tecnologici senza mai perdere la soggettività della persona.
Se neuroscienze, TMS, Neuralink, AI vengono descritti oggi con maggiore precisione non è per una resa semantica, ma per favorirene un uso più consapevole e controllato, ben lontano dalle derive storiche di cui Lei ricorda giustamente i rischi. L’accostamento alla storia dell’elettroshock mette in luce i pericoli del fraintendimento linguistico e dell’entusiasmo tecnologico, e sul punto concordo pienamente: ciò che conta davvero è il quadro di riferimento etico che sottende le nostre scelte cliniche.
Condivido la riflessione su Thomas Kuhn: nessun paradigma è definitivo né neutro, e proprio per questo la prassi clinica deve sempre interrogarsi su cosa sia giusto, non solo su cosa sia scientificamente valido. L’approccio realmente integrato, quello cui mi riferisco, utilizza la tecnologia come strumento al servizio della relazione umana e della complessità dell’esperienza psicologica, mai come scorciatoia verso soluzioni semplicistiche.
La vera sfida, oggi come ieri, è respingere tentazioni riduzioniste e conservare uno sguardo multidimensionale, dove la tecnica sia accompagnata da etica, cultura, attenzione alla soggettività e al contesto. Personalmente auspico, e difendo, proprio questo equilibrio: la possibilità di far dialogare tradizione e innovazione, umanesimo e tecnologia, senza mai disumanizzare la cura.
La ringrazio ancora per il suo intervento, che offre spunti preziosi per mantenere alta la vigilanza critica ed etica che tutti noi, operatori sanitari e cittadini, dobbiamo esercitare.
Un caro saluto, Davide