Attraverso il libro “Comunità Natura, cultura… terapia”, abbiamo affrontato il primo dei quattro modi di vivere e utilizzare la comunità terapeutica: la comunità come non luogo. Ora passiamo al secondo tema: la comunità terapeutica come guscio.
Come farebbe un pulcino a diventare se stesso, se non avesse il guscio che lo protegge? come farebbe la noce a diventare un noce se il mallo non fosse protetto dal guscio?
Come fa una persona fragile e ferita continuamente dalla vita a resistere se non trova un guscio che la protegge e la aiuta a crescere e a curare le ferite psichiche di una vita?
Questa è la funzione “guscio” della comunità terapeutica che protegge e aiuta a cambiare e crescere.
Ma noi sappiamo che nel nostro linguaggio stare nel guscio significa non vivere, rimanere fuori e questo, invece, è uno dei rischi principali della vita comunitaria, che il mondo fuori debba rimanere fuori e in questo è difficile non pensare che i famigliari non abbiamo la loro parte.
Così è compito nostro, di operatori, di saper pensare in modo che il guscio non diventi una barriera e spesso non è facile, e se anche il paziente sembra incitarci a questo.
Così l’invito, è a leggere queste pagine cercando di tenere presente la delicatezza del guscio (curioso ossimoro) come un aspetto centrale del pensiero comunitario.
Buona lettura!
La comunità terapeutica come guscio
Il secondo modo di vivere la comunità è quello che abbiamo chiamato il guscio.
Il Devoto-Oli, alla voce «guscio», recita:
Guscio: «1) L’involucro, generalmente duro, di varia origine e struttura che avvolge e protegge i semi o il frutto di alcune piante, alcune uova e anche certi organismi animali. 2) Ambiente spazialmente o idealmente limitato e angusto, proprio di una vita egoistica o grettamente abitudinaria: è sempre rimasto chiuso nel proprio guscio.»
La definizione del vocabolario rimanda con chiarezza a quelli che sono i due mondi di significato della parola «guscio»: la protezione (rispetto all’esterno) e la potenzialità (rispetto all’interno).
Entrambi questi aspetti sono importanti per il nostro discorso.
La protezione Il guscio come protezione dall’esterno. Quando si parla di guscio si pensa innanzitutto alla protezione. L’idea di guscio, sia esso vegetale o animale, rimanda a una protezione elementare, rigida, dove la posta in gioco è la vita o la morte prima ancora della vita. Qui viene richiamata la metafora dell’uovo come protezione materna (e quindi come comunità madre). Nelle culture arcaiche, scrive Bachofen (1988, p. 259), «ogni idea di luogo e di spazialità è estranea e opposta alla forza maschile; invece essa è necessariamente compresa nella materialità della donna: la donna è per sua natura luogo e ricettacolo, un locus, una stanza, uno spazio che può essere ammesso solo dalla materia, non dalla forza».
Un guscio rigido assicura all’embrione un ambiente adatto a lui, e che non potrebbe esistere a contatto diretto con l’ambiente esterno. Così lo psicotico che ha bisogno del guscio ha bisogno ora di qualcosa che può esistere solo se sufficientemente separato da un esterno, e che deve poter condividere con qualcuno (un gruppo) meno in difficoltà di lui ma in grado di capirlo.
Ma nella prospettiva che stiamo cercando di sviluppare, che cosa significa protezione? In termini clinici, sembra di poter tradurre un’immagine di questo genere in una situazione di ricerca di soddisfacimento di bisogni molto vicini alla sopravvivenza (Maslow, 1954) e quindi più arcaici, ma anche di livello culturale più arcaico. In termini antropologici, la protezione sembra riferirsi maggiormente a un luogo il cui campo è rigidamente definito, un po’ come nelle società primitive il mondo è delimitato e definibile molto meglio di quanto lo sia per noi. In ambito clinico ci rimanda invece alla fenomenologia dell’autismo e alla creazione di un ordine più adatto alla particolare fenomenologia del vissuto psicotico.
Sotto questo profilo lo spazio guscio, quindi, è evidentemente uno spazio interno, mentre l’esterno è virtuale; come tale è più simile alla vita fantasmatica dello psicotico, più vicino alle sue regole di sopravvivenza psichica. Anche qui bisogna intendersi. Questo non significa accettare che un ospite imbratti tutti i giorni di feci la propria stanza, ma riconoscere che in certe situazioni il terreno su cui avviene la contrattazione della relazione tra l’ospite e la comunità non è il confronto con la realtà esterna, ma con una realtà dei vissuti soggettivi che l’ospite si porta con sé, risultato di una strategia che lo ha difeso dal ripresentarsi della confusione psicotica e dalla catastrofe psichica, e che va quindi considerato non un fallimento ma un parziale successo. Se questo può essere il punto di partenza della relazione tra l’ospite e chi se ne prende cura, non semplicemente la distanza del folle da un comportamento accettabile, allora il conflitto tra la normalità offerta dalla comunità terapeutica e l’inadeguatezza dell’ospite acquista, anche sul terreno dell’abitare, un significato nuovo.
Se la distanza è grande il confronto è più difficile. Ma è proprio qui che può essere utile una funzione guscio in grado di preservare la possibilità che aspetti e bisogni dell’ospite vengano espressi e collocati nella relazione con la comunità terapeutica nei modi e nei tempi resi necessari dalla capacità del paziente di tollerare un confronto più realistico con le cose del mondo.
Questo aspetto protettivo consente a colui che abita la comunità terapeutica di sentirsi sempre a casa, lungo un territorio e in una temporalità che difficilmente si fa nemica. È una funzione che non viene razionalizzata ma che si manifesta nell’insieme del lavoro degli operatori, della terapia comunitaria e singola e della funzionalità racchiusa nella struttura architettonica della comunità terapeutica e nell’uso che se ne fa.
Il guscio consente di permanere in uno spazio che si mostra familiare, che si riconosce, che non inganna. Questo rappresenta l’essenza dell’abitare, del sentirsi a casa.
Le mura della comunità terapeutica diventano così la soglia tra lo spazio sacro interno e lo spazio profano esterno. Questo è uno spazio senza regole, senza una cornice di senso nella quale orientarsi.
In un luogo ove le regole non sono precisate, sono flessibili, gli eventi sono molteplici, regna il caos, quindi l’imprevedibile, il disorientamento di senso di cui è difficile la comprensione. Lo spazio interno, al contrario, è dove può essere mantenuto un ordine comprensibile. Il fattore fondamentale sembra essere quello dell’identità: la comunità terapeutica come guscio si pone innanzitutto come luogo di riorganizzazione e di difesa dell’identità personale.
Ma la comunità pone soprattutto nella relazione sé stessa, il modo in cui è fatta. E l’identità viene realizzata e mantenuta attraverso la contrapposizione con l’esterno.
Ma se gli aspetti più concreti ed evidenti (e forse, all’inizio, quello più direttamente accessibile al paziente) del guscio sono le mura, la porta, l’isolamento fisico, in realtà gli aspetti più pregnanti sono, come sempre, quelli relazionali. Diviene guscio la coesione del gruppo-comunità, l’appartenenza (la condivisione culturale, fondante la pratica psichiatrica).
Questo modo di vivere la comunità terapeutica corrisponde chiaramente all’esperienza di chi lavora nelle istituzioni psichiatriche: chi arriva in comunità porta in genere una richiesta di ritiro da un ambiente che si è fatto intollerante e intollerabile, in una situazione di crisi tale da far dire che la prima funzione di una comunità terapeutica è quella della rianimazione psichica. È esperienza comune che l’accoglimento di un nuovo ospite si sviluppa in contrapposizione a un esterno pericoloso. La regressione che precede o a volte segue l’inserimento va nello stesso senso.
In questo non c’è niente di nuovo: la funzione guscio viene esercitata istintivamente dalla comunità terapeutica (a meno che non vi sia ideologicamente contraria). Questo atteggiamento, tra l’altro, è favorito dal ruolo istituzionale della comunità terapeuti-ca, che nasce in un certo senso in contrapposizione protettiva rispetto all’ambiente esterno. Fino a questo punto, però non siamo lontani da una posizione contromanicomiale. Se vogliamo leggerlo a partire dalle emozioni fondamentali che definiscono il campo emotivo della relazione secondo Bion (1962a), potremmo dire che il rischio di una posizione di questo genere è nel migliore dei casi un’esasperazione della divisione del mondo in buono/dentro, cattivo/fuori, una posizione nella quale la dimensione dell’apprendimento (K) è sostanzialmente esclusa; mentre amore (L) e odio (H) sono nettamente collocati: l’amore sta dentro e l’odio sta fuori.
Un problema di questo genere emerge quando l’ospite si adatta troppo a questa posizione (e quindi si perde la dimensione evolutiva ed entra in crisi il desiderio di curare degli operatori) oppure quando l’ospite non accetta questa funzione, tradendo quindi le aspettative e i bisogni della comunità terapeutica. Un altro problema emerge quando, magari in conseguenza del proprio successo in certi tipi di patologie, o perché la richiesta della committenza è univoca, la comunità terapeutica si specializza in questo genere di meccanismo di difesa, perdendo quindi la sua flessibilità.
Questi conflitti, che in fondo ripropongono in termini diversi vecchie questioni istituzionali, mettono bene in evidenza l’importanza dell’aspetto relazionale, che è quello che permette una prospettiva diversa. È l’aspetto che può fare la differenza tra la riedizione di un’istituzione manicomiale riveduta e corretta e un luogo dove si possono rivedere e trasformare alcune cose andate male e dove i propri bisogni, per quanto specifici e originali, vengono tenuti presenti.
Per tutte queste ragioni, è anche naturale che parlare di guscio susciti degli allarmi, proprio per questa ragione: che cosa vuol dire offrire un guscio-comunità a uno psicotico?
Qui vogliamo sia chiara una differenza fondamentale: un conto è creare una protezione per eliminare una relazione, un conto è creare una protezione per permetterla. Un conto è mettere a disposizione un mondo a parte per isolare un problema, un conto è mettere a disposizione uno spazio dove si creano le premesse per un’evoluzione che ha bisogno di essere protetta.
Qui ci troviamo in uno spazio intermedio, dove il luogo con i suoi aspetti antropologici rappresenta un soggetto relazionale nei termini di Augé, e facilita il consolidarsi dell’identità perché offre all’ospite un’identità, la propria, con cui confrontarsi.
Riassumendo, possiamo dire che la funzione guscio in quanto protezione è quella di riconoscere, delimitare, mantenere e regola-re; altri hanno parlato di spazio sacro e protano. In quello che la comunità terapeutica può fare nell’essere guscio, ci sono tre aspetti fondamentali: proteggere, provvedere ai bisogni fondamentali, preparare.
La potenzialità E qui arriviamo all’altro significato della parola guscio: qualcosa che protegge un organismo non ancora pronto al contatto con l’esterno. È il concetto di potenzialità, di embrione, di sviluppo.
Per poter vivere, questo aspetto è necessario. Si tratta di riconoscere la comunità terapeutica come guscio e non come muro. La comunità terapeutica si pone non come ostacolo al ritorno alla vita «normale», ma piuttosto nella posizione della chioccia con l’uovo: si prende cura e aspetta. Saper aspettare con attenzione e scegliere la posizione giusta e il momento adatto è tutt’altro che una posizione passiva, anche se la linea che passa tra questo lavoro e l’abbandono manicomiale può essere molto sottile.
Aspettare vuol dire anche accettare di non sapere: non sapere quanto tempo ci vorrà, ammesso che si arrivi alla schiusa; non sapere che cosa c’è esattamente dentro l’uovo, il che corrisponde a non sapere che persona c’è dentro. Vuol dire dare tempo, il tempo necessario perché sia possibile rivelarsi.
A volte la nostra funzione come guscio non è neppure quella della chioccia: il guscio può essere quello della noce, duro, legnoso, vegetale, lontano dalla relazione affettiva calda e mammifera.
Ma anche questo va accettato, se è riconosciuto come bisogno (ed è solo la clinica che può dircelo). Di nuovo, però, il punto chiave, anche in queste situazioni più regredite, è il mantenimento della speranza e della relazione nonostante le apparenze.
Il guscio deve essere adatto alla situazione in fieri, non troppo duro, altrimenti non riuscirà a schiudersi; non troppo morbido, altrimenti non sarà abbastanza protettivo. Questo aspetto ci richiede attenzione, da un lato alle caratteristiche dell’ospite e ai suoi bisogni, dall’altro alla necessità di una modulazione adeguata in funzione di un futuro percorso ancora non chiaro. Ciò impone alla comunità terapeutica una sensibilità agli spazi vissuti sufficiente a permettere all’ospite questa dimensione dello spazio vissuto; la comunità terapeutica rappresenta una posizione iniziale che è antecedente e presupposto allo sviluppo di una dimensione di gioco e di transizionalità oppure, per usare altri termini, alleanza di lavoro, illusionalità (Zapparoli, 1992) e così via.
Sul piano del modello culturale questo significa mantenere (anche nella relazione) una posizione sospesa tra casa e ospedale. Sul piano clinico, è la posizione di chi non ha ancora capito i bisogni fondamentali di quell’ospite e aspetta di poter riconoscere le qualità delle sue emozioni fondamentali.
È evidente che enfatizzando il futuro, la speranza e il cambia-mento, si tirano in ballo passioni nuove. Lo spazio, relazionale e fisico, sia pure a partire da una base sicura, apre alla possibilità di un cambiamento-trasformazione: un’evoluzione che richiede una tensione verso il nuovo, simile a quella della crescita.
È da notare che questa funzione non è quella che viene in genere richiesta alla comunità terapeutica quando la committenza le chiede di essere un guscio. In genere, inviare un paziente regredito che ha bisogno di essere protetto dall’esterno ha innanzitutto il senso di proteggere per primi gli invianti e, per estensione, la società.
La protezione e la separazione che l’idea di guscio suggerisce rappresentano un punto fondamentale nella storia delle istituzioni psi-chiatriche. Ed è innegabile che una delle funzioni che la società richiede alla psichiatria è quella di essere separata dal folle. Peloso ha evidenziato l’isolamento come uno degli elementi cardine della ideologia manicomiale del secolo scorso. È anche evidente che così facendo è la società stessa, attraverso la delega, a proteggersi dal folle e non viceversa. Questa dimensione potenziale, che implica una tensione al nuovo, è un aspetto assai delicato per ogni istituzione, particolarmente per quelle psichiatriche. Quando succede che il guscio diventa muro, si perde la tensione (o il conflitto o la speranza) tra la follia e la normalità. Entrambi i termini, allontanandosi, perdono di significato. Si perde così ciò che nella comunità terapeutica appartiene al sapere, al conoscere, all’apprendere dall’esperienza.
Questo è un punto delicato: apprendere, trasformarsi, K, per usare la terminologia bioniana, è un’emozione particolarmente delicata nella comunità terapeutica come guscio. Mentre nella comunità terapeutica come pelle, come vedremo, l’informazione, l’evoluzione, l’apprendere sono evidenti e in primo piano, nel guscio l’amore, inteso come appartenenza e protezione materna, e l’odio lasciato all’esterno sono in primo piano e direttamente accessibili all’esperienza.
Vogliamo aggiungere infine che la funzione guscio come la intendiamo qui è costosa e avara di risultati visibili a breve termine, e quindi ha un costo elevato ed è, per queste stesse ragioni, poco visibile.
Ma l’aspetto forse più delicato è la vicinanza pratica (non teorica) con una delega di custodia illimitata, ed è forse a questo che la comunità terapeutica deve fare maggiore attenzione quando si pone come guscio per il suo ospite.