Con voce straziata una madre si rivolge ai giudici e chiede: quanto vale la vita di un morto?
Ha in mano un cartello con un volto ed un nome, quello del figlio morto in un incidente sul lavoro, il crollo della torre di controllo nel porto di Genova.
Le parole di questa madre hanno un senso profondo che scuote la nostra esistenza, indipendentemente dalle questioni specifiche processuali che sottendono alla sua disperazione, su cui non ha senso addentrarmi in questa sede.
Ognuno di noi sa quanto vale la vita dei suoi morti, i lutti che si porta dentro, i fantasmi che lo svegliano o lo accompagnano e sostengono nei momenti difficili. E la vita di un morto può valere così tanto da fare fallire il nostro progetto di vita, se non riusciamo in qualche modo a farci i conti.
Abbiamo incorporato da oltre un secolo di psicologie analitiche il concetto di elaborazione del lutto, pur sapendo, ciascuno di noi in cuor suo, che è un processo instabile, tutt’altro che lineare. E quanto più la vita del morto vale tanto più è difficile fare tornare i conti.
Il valore di una perdita lo si misura costantemente dentro se stessi, dentro la famiglia, dentro il contesto amicale e sociale ristretto in cui quella vita si è svolta. Un valore più ampio e condiviso lo offre la religione, proprio per dare senso pubblico ad una dimensione altrimenti intima.
La domanda di quella madre nell’aula giudiziaria chiede una risposta sociale, non religiosa, al valore della vita di un morto. È la domanda che chiede di riconoscere un diritto anche i morti, in un mondo che di diritti ai vivi ne riconosce sempre meno e sempre più a pochi privilegiati.
Queste breve note le ho scritte di getto, mentre ancora mi risuonano quelle parole. A quella madre voglio dire che anche se i giudici talvolta non sanno ascoltare ci sono molte orecchie aperte che sanno dare valore alla vita di suo figlio che, morto sul lavoro, diventa la vita di nostro figlio.
Forse è questa la strada per costruire una società più attenta al lavoro e al valore della vita e della morte.