Vaso di Pandora

Operare in Psichiatria

Operare in Psichiatria non è uno scherzo. Visto da fuori sembra facile, niente interventi chirurgici, una manualità molto limitata rispetto ad altri reparti, una parte consistente del tempo di lavoro che è di fatto un non fare, o al massimo una baldanza. Questo modo di vedere il lavoro psichiatrico ha diverse conseguenze pericolose.

  • Un operatore chiede di venire a lavorare in psichiatria pensando di faticare e rischiare meno che in medicina o chirurgia, per non parlare della rianimazione o il Pronto Soccorso.
  • Nella graduatoria delle diverse figura sanitarie la psichiatria è in fondo (e questo vale anche per i medici, più o meno per le stesse ragioni).
  • Questo modo di vedere l’operare si afferma, la prospettiva diventa rapidamente manicomiale, e diventa un bel problema di Governo Clinico.

Questo modo di vedere è basato su almeno due pilastri fondamentali (è chiaro che due pilastri non bastano a sostenere nulla, ma per il momento ci dobbiamo accontentare…): il primo è che le conseguenze di quello che fa un chirurgo o un rianimatore si vedono subito, mentre quello che facciamo noi mostra le sue conseguenze molto tempo dopo, in particolare i danni; il secondo è che tutto ciò che è fisico, corporeo, viene considerato più importante e prevalente rispetto  tutto ciò che è psichico, dato che non si può vedere e toccare.

Una prospettiva diversa sull’operare in psichiatria

Abbiamo proposto qui, invece, in uno spazio aperto e dialogante, una prospettiva diversa, che ci può portare ad un modo più complesso, e realistico di vedere il lavoro in ambito psichiatrico per poi condurci ad un aspetto più specifico, che è quello dell’operare nelle cosiddette strutture intermedie, più note come Comunità.

Siamo partiti da un capitolo di un libro, lavorare in Psichiatria, Pubblicato da Boringhieri che la Psichiatria Ligure ha prodotto nel 2000, con una integrazione tra dipartimenti, pubblico, privato e università oggi difficile da immaginare. In questo libro mi era stato affidato il capitolo sulla assistenza psichiatrica, e io, arrivato da poco a Villa Frascaroli, struttura post acuti molto speciale all’epoca, mi sono rivolto agli operatori e ho chiesto loro che cosa fosse per loro la assistenza. Loro hanno tirato fuori la scala di Maslow, che conoscevo per frequentazioni Zapparoliane quando lavoravo in Redancia, ma credevo fosse una riflessione di uno psicoanalista insoddisfatto e non uno strumento di lavoro e di formazione per gli infermieri

Una nuova scala dei bisogni

Così abbiamo iniziato a rivedere la scala dei Bisogni di Maslow in termini psichiatrici e sono diventati termini relazionali, e dialogando abbiamo capito che l’operatore psichiatrico, dal medico all’Operatore socio sanitario, è un tecnico della relazione.

Questo modo di vedere le cose ci ha aiutato a vedere le cose in una prospettiva nuova, che vi propongo:

  • Per esempio proteggere la sopravvivenza del paziente significa per noi fare i conti con il rischio suicidario, con la morte, col senso della vita per lui, che vogliamo restituirgli e che certo non potremo fare solo coi farmaci, ma permettendogli un’esperienza nuova, che gli faccia capire quanto è importante che sia vivo. Per fare questo non servono naturalmente lezioni o prescrizioni, ma appartenenza, legami Non sempre questo riesce, e i suicidi sono per noi l’abisso, il dolore che ci portiamo dietro per sempre.
  • La sicurezza per noi significa offrire un ambiente emotivamente stabile, che faccia sentire la persona al sicuro. E questo di nuovo se da un lato dipende dalle regole e dal setting della cura, dall’altro è un ambiente emotivo che ci coinvolge pienamente. Questi due punti già ci mettono a contatto con una questione fondamentale. Come gestiamo il mondo e come viviamo nella relazione del paziente, dato che il distacco che è così utile al chirurgo per non è impossibile e dannoso? Dobbiamo imparare un Come se, una capacità di sentire e osservarci allo stesso tempo, perché dobbiamo essere gli strumenti della cura, come il bisturi o come la pastiglia, e quindi imparare ad essere autentici e ad auto osservarci contemporaneamente. E in questa prospettiva sotto molti aspetti la gerarchia è invertita, perché proprio per queste ragioni chi è più vicino ai bisogni concreti, di base del paziente, è sotto certi aspetti più importante, perché quello che può fare per lui, sul piano educativo, è più concreto e diretto, e quindi utile per un persona, come sono i  nostri pazienti gravi, che poco si giovano delle parole e molti delle emozioni e delle azioni. È chiaro che questo rende la posizione per esempio degli Operatori Socio Sanitari particolarmente delicata e importante

Le competenze per operare in psichiatria

Queste competenze non sono innate e non sono alla portata di tutti, per questo acquisire un’identità professionale è complesso, impegnativo, e sostanzialmente non ha termine.

E poi questo mi ha condotto al passo successivo, che è stato quello di cercare di definire queste competenze nel lavoro istituzionale e di cercare di individuare in modo un po’ più definito quelle che sono, o dovrebbero essere, le caratteristiche di un operatore, medico compreso, che lavora in ambito istituzionale e quindi lo stare col paziente, lo stare con sé stessi, definire i confini e la autonomia, come si vede dirette emanazioni della riflessione iniziale.

Però col tempo vedere le cose in questo modo ci ha consentito di utilizzare, fino a quando ci è stato consentito, strumenti di formazione sia interna che esterna basati per esempio sulla tecnica dei gruppi Balint e di un utilizzo delle caratteristiche e soprattutto delle differenze individuali, che è stata una fonte di arricchimento personale, oltre che importante sul piano clinico, che ci ha lasciato, quando tutto questo è finito, un dono che ci portiamo sempre con noi.

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