Vaso di Pandora

Stile di lavoro inclusivo: la Psicoanalisi Multifamiliare

Lezione Magistrale del Prof. Andrea Narracci, Varazze 23 febbraio 2018
Mi sembra una proposta interessante quella di riflettere su uno stile di lavoro inclusivo in Psichiatria.
In questi ultimi tempi, mi è capitato più volte di interrogarmi su ciò che caratterizza la Psicoanalisi Multifamiliare.

Mi sono risposto (“Mi so capito io”, mi verrebbe da dire) che una prima caratteristica specifica sia la condivisione delle esperienze da parte degli operatori e la possibilità di riflettere insieme sul senso delle esperienze appena fatte.
Una seconda specificità mi sembra sia costituita dalla necessità che gli operatori accettino, per tutto il tempo che dura il gruppo, di rinunciare al proprio ruolo di ”uomini o donne supposti sapere”, cioè al, proprio ruolo di tecnico e accettino di confrontarsi alla pari con gli altri, sulla base delle loro qualità umane.
A questo punto, però, mi sono reso conto che la prima caratteristica che contraddistingue un Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (MFPG) è il contatto con la sofferenza.
Io penso che sia proprio questo tratto a risultare difficile da accettare da parte degli operatori, quello che suscita le maggiori resistenze.
Contemporaneamente stavo riflettendo su quanto fosse stato difficile, dopo la chiusura dei Manicomi e la reintroduzione della malattia mentale grave nella comunità, avere a che fare con essa, sia da parte di chi ne è colpito e dei familiari che gli stanno vicino, sia da parte degli operatori.
Ho ripensato allora ai due grandi filoni di riferimento: quello della psicoanalisi e, quindi, di tutte le psicoterapie e quello della psichiatria. Di come questi due grandi riferimenti influenzino i modi in cui si interviene nei diversi Servizi di cui si compone un DSM.
Non si può, a questo punto, fare a meno di rievocare brevemente quanto è successo dopo la chiusura degli OOPP.
Inizialmente si è ritenuto che la malattia mentale grave potesse essere curata secondo il modello attraverso il quale venivano curati i disturbi meno gravi. Ora che non c’era più il manicomio, che rischiava di attrarre il paziente al suo interno e farlo scomparire, come se fosse un “buco nero”, si poteva ipotizzare che il paziente fosse seguito in situazione di ricovero, nel momento in cui fosse in crisi o in riacutizzazione e in ambulatorio nei periodi intercorrenti tra una crisi e l’altra.
Ben presto questo modello ha cominciato a fare acqua ed ha cominciato a formarsi una nuova cronicità anche se non c’era più l’OP. Tutti avevano la sensazione di non riuscire a curare i pazienti con dei ricoveri inevitabilmente troppo brevi e con un’affluenza così ampia di pazienti, ai CSM, da rendere impossibile agli psichiatri di vedere i pazienti per più di pochi minuti, una volta al mese o addirittura con una cadenza ancora inferiore.
Allora qualcuno, anche da queste parti, e qui voi sapete bene a chi mi riferisco, iniziò a dare una risposta differente, ispirandosi ad un modello d’intervento radicalmente diverso, secondo cui non era sufficiente il modello classico, il paz. sta bene, sta male, sta bene (ambulatorio, ospedale, ambulatorio).
Una serie di esperienze presero a mano a mano corpo, tra cui quella della Redancia e iniziarono a farsi carico dei pazienti gravi in una situazione comunitaria, di vita in comune e introdussero l’idea di fondo che bisognasse cominciare a ragionare a partire dalla osservazione delle dinamiche che si instauravano tra il paziente e l’operatore e tra il gruppo dei pazienti e il gruppo degli operatori.
Perché questo aspetto è fondamentale?
Perché la differenza tra ciò che è manicomio e ciò che non lo è passa per questo punto preciso: se si finisce per osservare solo l’evoluzione clinica del paziente nel tempo o se si riesce, pur mantenendo questa capacità, a osservare come le condizioni del paziente evolvano anche in relazione a come sta nel gruppo della comunità, con gli altri utenti e con gli operatori. Cioè non si perde di vista il fatto che il paziente ricostruirà, inevitabilmente, in CT i rapporti con gli altri, utenti e operatori, secondo le modalità relazionali che ha già usato nella vita, che costituiscono il suo ineludibile “bagaglio” personale e che su di essi bisognera’ intervenire.
L’introduzione sistematica di questa capacità osservativa “binoculare” rappresenta l’aspetto fondante di una psichiatria psicodinamica, che punta alla presa in considerazione del film della storia del paziente e non di tante fotografie che si succedono, spesso molto contraddittorie. Ciò non esclude affatto, come ben sappiamo, che anche i film siano pieni di incongruenze e di difficoltà imprevedibili, però aiuta l’operatore e il gruppo di cui fa parte, a mantenere una rotta, al di là di quanto l’inevitabile susseguirsi di tempeste, piccole e grandi, possa tendere a portarlo chi sa dove. E, soprattutto, permette all’operatore di non perdere la fiducia in sé stesso e nella propria equipe, che è una condizione da cui non si può prescindere se si vuole fare questo lavoro, con la consapevolezza che seguita ad avere un senso farlo e non che questo senso lo ha perso. Perché in quel caso diventa veramente difficile seguitare a farlo (sindrome del burn-out).
Ma torniamo al filo del ragionamento che riguardava la difficoltà di stare a contatto con la sofferenza e le vicissitudini dei modelli organizzativi e del conseguente funzionamento dei Servizi: mi riferisco al fatto che, da un lato abbiamo avuto, da subito dopo la Legge 180, l’emergere di Servizi orientati prevalentemente secondo il modello classico di intervento, i CSM e i SPDC e, successivamente e proprio perché si aveva la sensazione che ciò non bastasse, l’emergere di Servizi organizzati in modo antitetico, le CT e i CD, pensati ed organizzati secondo un modello di presa in carico e di erogazione di un Servizio completamente diverso.
Allora qualcuno si è posto il problema: ma sarà mai possibile immaginare di far funzionare anche i Servizi CSM e SPDC secondo una logica caratterizzata dalla presa in considerazione che i pazienti psichiatrici gravi hanno bisogno di vivere rapporti terapeutici che siano in grado di modificare il modo stereotipato in cui ognuno di loro sa stare in relazione con l’altro oppure dobbiamo rassegnarci a basare l’assistenza su interventi che rimettano in sesto, riunificando, almeno apparentemente, tutte le parti scisse del paziente, in maniera che possa tornare fuori a tirare a campare e con lui tutti i suoi familiari, quando ci sono? Ovviamente è importantissimo che ciò avvenga e nessuno pensa il contrario: quello che abitualmente si fa nei CSM e negli SPDC è necessario ed encomiabile. La psichiatria è utile, ma è sufficiente o possiamo aspirare ad inserire i semi di un possibile cambiamento di orizzonte anche in queste due tipologie di Servizi oltre che nelle CT e nei CD?
E’ per rispondere a queste domande che, dopo averne fatto uso in CT, perché anche i familiari avessero l’opportunità di cambiare, oltre al paziente che, nel frattempo stava in CT, abbiamo introdotto i Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare (Multifamily Psychoanalytic Group, MFPG) all’interno dei CSM e dei SPDC.
Alla luce di un’esperienza ormai decennale in alcuni DSM, mi sembra di poter dire che l’aspetto più interessante che viene proposto riguarda prima di tutto il contatto con la sofferenza.
A questo riguardo, credo che sia necessario assumere una posizione di osservatori neutrali e non giudicanti. Ad una osservazione siffatta appare chiaro che l’organizzazione di questi due Servizi fondamentali abbia comportato il progressivo restringimento della possibilità di entrare in contatto con la sofferenza. Quando, nel 1980, occupammo, perché allora si faceva così, il primo CSM della appena istituita ASL Roma 1, il primo dopo quello della Provincia che, fino ad allora era l’unico presente sul territorio, sembrava possibile prendersi cura dei pazienti e delle loro famiglie. Oggi, quasi quaranta anni dopo, sappiamo che questo non è possibile se non in una forma molto limitata, come accennavo prima.
L’introduzione di un MFPG permette la rimessa in discussione di questo assetto che comincia a non essere più visto come l’unico possibile.
In precedenza i tentativi di introdurre logiche dell’intervento psicoterapeutiche non erano riuscite a modificare le prassi di CSM e SPDC. Le supervisioni psicoanalitiche e sistemiche di casi clinici e, conseguentemente del funzionamento del Servizio, purtroppo non ne hanno modificato il funzionamento di base. Anche l’introduzione di interventi psicoterapeutici individuali, di coppia, di famiglia e di piccolo gruppo ad orientamento analitico non sono in grado d’incidere sulla prassi complessiva quanto sarebbe auspicabile. Gli interventi sono effettuati da specialisti che non possono, più di tanto rendere gli altri partecipi. In più ci sono le differenze professionali e il grado diverso di preparazione che, inevitabilmente, ne consegue, che complica tutta la faccenda.
Gli operatori che partecipano ad un MFPG e, certo in misura minore, quelli che non partecipano ma che ne sentono raccontare gli effetti nelle riunioni d’equipe da chi vi partecipa oppure dai pazienti e dai loro familiari, condividono un’esperienza, si confrontano sull’esperienza condivisa e accettano di spogliarsi, almeno per il tempo del gruppo, del proprio ruolo di “colui che sa”. Insomma due capisaldi essenziali su cui si basa il funzionamento del modello tradizionale, che attraversa sia la Psichiatria che la Psicoterapia, vengono sospesi. Ma, soprattutto, gli operatori entrano in contatto sistematicamente con la sofferenza e con tutto quello che questo evento comporta.
Questi tre elementi,: la condivisione, la rinuncia momentanea al proprio ruolo e il contatto con la sofferenza, unitamente alle idee psicoanalitiche a proposito dell’origine molto precoce del disturbo, che consisterebbe nel mancato avvenimento del processo di separazione-individuazione tra un genitore e un figlio, che permette di pensare alla crisi come all’emergere della malattia ma anche, in potenza, della salute, perché è, contemporaneamente, un tentativo disperato di rompere l’assetto precedente, rendono questa esperienza in grado di proporre un modello d’intervento radicalmente nuovo: il paziente non sta male a vent’anni, ma dal primo anno di vita, non riesce a diventare qualcosa che cresce per proprio conto ma “occupato” dall’altro, da cui viene seguitato ad essere percepito come una propria parte.
Il cambiamento vero è costituito dal riuscire a far capire che quando il paziente sta male si aprono delle possibilità evolutive della situazione che prima non c’erano, a patto che tutti, da quel momento in poi, si rimbocchino le maniche e inizino a lavorare per far accadere quello che fino ad allora non era successo: la rimessa in moto di un processo di crescita che riguarda il paziente, il familiare ad esso più (troppo) vicino e, più in generale, tutta la famiglia.
Tutto ciò non comporta l’abbandono di tutte le misure che vengono portate avanti: l’intervento psichiatrico, psicoterapeutico e riabilitativo, da attuare fin dall’inizio dell’intervento, però ne permette la messa a fuoco come di tanti elementi che compongono un unico disegno complessivo d’intervento.
E’ un po’ come se avessimo, improvvisamente, rimesso indietro l’orologio della storia e fossimo tornati ai tempi di Janet e del primo Freud.
Mi è venuto da pensare che la Psichiatria e la Psicoanalisi, più le altre Psicoterapie che, in un modo o nell’altro sono da essa derivate, abbiano, oltre a tanti meriti, la prerogativa di mettere chi ne fa uso nella posizione di tenersi ad una certa distanza dalla sofferenza, mentre il MFPG permette di entrarvi nuovamente in contatto in via prioritaria, quasi a dirci, tra le righe, che dovremmo ricominciare da lì.
Forse era questo a cui si riferiva Jorge Garcia Badaracco quando diceva che il gruppo rappresenta il luogo in cui la malattia mentale grave si può osservare nel suo modo più autentico di funzionare, senza la presenza di una serie di filtri, psichiatrici e psicoterapeutici che non ci rendono più facile la possibilità di comprendere ma, viceversa, ce la complicano.
Queste tre caratteristiche, unitamente all’apparato teorico, permettono, a mio parere, di tracciare un nuovo campo di intervento. Come se delimitassero un contesto nel quale, in seguito, possono essere inquadrati tutti i fenomeni che conosciamo: gli interventi psicofarmacologici, psicoterapeutici e riabilitativi inseriti fin dall’inizio e non successivamente, che abitualmente costituiscono la base dell’intervento psichiatrico.
A monte di tutto questo è opportuno che sia definito il contesto in cui si verifica l’intervento e come si collocano, al suo interno, le tre figure fondamentali che lo compongono: i pazienti, i familiari e gli operatori.
Il gruppo può dare un contributo importante in questo senso, contribuendo a ribaltare il vecchio adagio secondo cui il paziente e/o i familiari si rivolgono al medico e/o allo psicologo per sapere di quali problemi soffra il figlio o comunque il congiunto.
Secondo Garcia Badaracco gli operatori devono svolgere la funzione di permettere che ognuno cerchi delle risposte dentro di sé, a proposito sia di come sono andate le cose, fin dall’inizio e partecipi al livello di elaborazione gruppale dei problemi, trasformandosi da semplice richiedente informazioni, pronto ad affidare la delega ad affrontare i propri problemi a qualcun altro, in coautore del processo di trasformazione dei legami interpersonali patologici, che tanta incidenza hanno sullo sviluppo e sul mantenimento in essere dei problemi.
Ed è proprio a questo punto che diviene palese quanto può essere inclusivo il Gruppo di PM e quanto può essere in grado di dare una forma differente a tutto il piano di interazione di cui fanno parte i pazienti, i familiari e gli operatori.
Il modello esplicativo dell’origine dei problemi viene inserito in un quadro di riferimento in grado di sostenerlo proprio per le caratteristiche di cui parlavo prima: il contatto con la sofferenza, la condivisione delle esperienze e delle riflessioni sulle esperienze, l’inevitabile e conseguente abbandono dei privilegi legati al ruolo di tecnico a cui chiedere e del cui giudizio da cui dipendere. Sono tre categorie a cui qualsiasi operatore rinuncia con grande difficoltà: In fin dei conti si studia tutta una vita per avere delle competenze ed è anche giusto rivendicare di averle raggiunte. Ma nei confronti della malattia mentale grave siamo tutti nudi, privi di quegli orpelli di cui possiamo giovarci nel rapporto con i nevrotici. Gli psicotici ci mettono a nudo. Ci strappano i vestiti di dosso e ci costringono a confrontarci così come siamo o come non siamo e, in parte noi sempre non siamo.
E allora bisogna riuscire a venire a patti con questi drammi. Dobbiamo trovare la forza di sopravvivere ad un dolore che a volte ci destabilizza e, ammettendo i nostri limiti ma anche non allontanandoci, rimanendo lì a cercare con gli altri, testimoniando che quello che più conta è la presenza, la presenza regolare, auspicata da tutti e per tutti.
Ma allora, senza rendercene conto, forse stiamo fondando una nuova Psichiatria che non può fare a meno dei familiari oltre che dei pazienti. Il Laboratorio prevede la presenza tra i suoi iscritti di pazienti e familiari, oltre che di operatori e l’elaborazione di temi comuni a tutte e tre i raggruppamenti. Potrebbe essere una psichiatria co-costruita, che cerchi di tenere conto delle esigenze di tutti e tre i partecipanti.
Il Gruppo ci ha insegnato che l’ascolto dell’altro è la base di tutto. Perché non trasferire anche alla fase di elaborazione dei progetti la modalità di funzionamento del gruppo in modo di rendere tutti protagonisti di quello che, in seguito, sarà messo in atto?
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