Vaso di Pandora

Analisi psicologica del film C’è ancora domani

Non ricordo come sia nata, la proposta di andare tutti quanti al cinema.

Avevamo già fatto una “gita multifamiliare” la scorsa estate: una camminata in riva al Lambro, una visita ad basilica romanica e un pic nic. Una giornata che non dimenticherò, per come ciascuno è riuscito a contribuire. Avevamo una tavola imbandita, un pranzo al sacco “rinfozato”, dove ognuno ci aveva messo qualcosa: chi la tovaglia e le posate, chi i tovaglioli, chi da bere e tanto, tanto cibo. Cucinato, comprato, ben riuscito, meno. Uomini. Donne. Padri. Madri. Figli. Fratelli. Tutti seduti attorno al tavolone di legno che i più anziani, non riuscendo a camminare lungo sentieri, dalla mattina, erano andati a occupare.

C’era anche chi suonava la chitarra. E tutti a cantare.

Non so da chi sia nata l’idea di una serata al cinema. Ma sono bastati pochi minuti per prendere accordi e definire.

Non andavo a vedere un film fuori casa dalla nascita di mio figlio. Da due anni. Perché lavoro. E ogni momento libero lo dedico a lui. Sono figlia di una famiglia patriarcale? No, anzi, mia madre insiste che io mi prenda momenti liberi, anche mio padre. E anche mio marito. La questione è dentro, profondamente dentro di me.

Quella serata al cinema era a metà, tra il lavorare e no. Ci sono anche io!

C’è ancora domani di Paola Cortellesi

C’è ancora domani. Il film della Cortellesi.

Mi viene a prendere la collega che insieme a me coordina il gruppo. Lo sa che fino all’ultimo potrei tirarmi indietro. Basta un colpo di tosse in più del piccolo e salta tutto. Passo io, non stare a prendere la macchina! Sei stata brava, non sai quanto è stato difficile varcare quella porta.

Quando arriviamo sono già tutti in sala, seduti. Ci sono figli che non sono mai riusciti a venire al gruppo. Sono sorpresa. Li guardo, mi sorridono. Non sembrano così inavvicinabili, come nelle mie fantasie.

Il film finisce.

Ci fermiamo. Ne parliamo.

L'analisi psicologica di C'è ancora domani

L’analisi psicologica di C’è ancora domani

Io non riesco a smettere di sentire un peso, che mi ha fatto piangere per tutta la parte finale. Lo dico. Il film mi ha fatto male. Perché ho rivisto qualcosa di mia madre, nonostante nulla sia più lontano dalla realtà in cui sono vissuta. Ho rivisto qualcosa di me, figlia. E ora madre.

Giovanna, una donna più grande, settantenne, mi dice di averlo trovato estremamente lento. Lento. Scontato. Ma come?!? Perché per lei, quello che ha visto era la normalità. Lo dice lei, che si è laureata in matematica e fisica più di cinquant’anni fa in una regione del Nord. Che più Nord non c’è.

Non c’entra nemmeno la cultura o l’appartenenza geografica.

E poi c’è una giovane donna, che vorrebbe esser nata uomo e che sta cercando di diventarlo, che dice che ha provato molta rabbia. Perché hanno fatto credere qualcosa che non succede, che la protagonista scappi con l’uomo che ama. E invece, no. Va soltanto a votare. E non cambia niente. Come dentro di lei, che continua a stare male. No, non è che non abbia capito il film. Ma per lei il concetto di libertà riguarda altro e se ne sta prendendo cura.

Il ruolo deglil uomini

Poi ci sono gli uomini. Il padre accanto a me, che mi ha passato un fazzoletto quando mi ha sentito singhiozzare. Che alla fine ha detto: io non c’entro! Non mi ha toccato. Perché quegli uomini di cui si parla, non sono io. E così, Lorenza alza la mano e dice che suo marito non è venuto perché questo tema della violenza lo turba. Vuole prenderne le distanze. Lo spaventa. Che cosa ti spaventa, Alfredo, al punto da non poter nemmeno vedere il film? Te lo vorrei chiedere.

Un altro uomo chiede scusa. Per tutti gli uomini che fanno quelle cose.

E poi c’è un giovane. Che parla della sua esperienza di violenza. Contro una donna che non l’ha capito. Che l’ha abbandonato. Si è sentito usato, manipolato. E non ce l’ha fatta. Ora si sta curando, anche grazie al gruppo. Non ne aveva mai parlato prima, per il timore di essere giudicato, per la vergogna, perché i genitori non vogliono che ne parli in pubblico, nemmeno nel gruppo. Sei stato molto bravo a condividerlo, perché è nell’avvicinare le nostre parti impresentabili che possiamo prendercene cura.

Mi è stato chiesto di scrivere qualcosa a proposito di quello che è accaduto a Giulia Cecchettin e a Filippo Turetta. Ma non ci riesco.

Perché sono già state dette tante, troppe cose. Io non lo so, cosa sia esattamente successo. Non li conosco. Non conosco le loro storie, le loro famiglie. È una tragedia.

Ma possiamo trasformarla in un’opportunità. Di riunirsi ad una tavola e imbandirla di scambi, confronti, riflessioni. Al di là delle generalizzazioni. Femminicidio, stato patriarcale, donne come secondo sesso, uomini violenti. Non so. Tutto e niente. 

Non sappiamo cosa sia successo. Ma sappiamo quello che evoca in noi, pensando alle nostre famiglie, alle nostre storie.

Se riuscissimo a parlare di questo, a condividere, a portare rispetto, ne usciremmo tutti più cresciuti.

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