Vaso di Pandora

Snapshots on the process

Questo contributo di Simona Masnata – Snapshots on the process –  fa parte del volume “Learning from action – working with the non-verbal” di R.D. Hinshelwood e Luca Mingarelli.  L’acronimo LfA diviene qui il nome che designa un particolare tipo di intervento centrato su linguaggio inconscio e dinamiche di gruppo, ma che nell’ambito degli interventi gruppali occupa un posto particolare. 

E’ fondamentalmente destinato a operatori di Comunità Terapeutica (CT), che qui divengono clienti: infatti ciò che specificamente lo caratterizza è una brillante “trovata”: far vivere agli operatori – clienti una condizione in qualche modo vicina a quella che vivono i loro ospiti nella CT in cui operano. Ciò si realizza proponendo loro, come contenitore del lavoro, la coabitazione di qualche giorno in una collocazione decorosa ma volutamente e realisticamente modesta.

 I partecipanti alla specifica esperienza di cui si parla provenivano da varie regioni italiane e anche da altre nazioni.

 I momenti dell’intervento come descritti nel volume hanno una precisa successione: 

La Registrazione e Benvenuto è  una prima accoglienza, genericamente facilitante e facilitata  anche col servire in una piccola colazione cibi tipici della varie regioni e varie nazionalità. Nella Plenaria d’apertura il direttore presenta lo staff e l’amministratore dà notizie pratiche come previsto dal suo ruolo. Nella  Plenaria decisionale è presente lo staff e tutti o parte dei partecipanti, e si formano i  Gruppi. Questi  si dividono e organizzano, ognuno conta da 11 a 14 membri e ha una specifica funzione operativa: cucina, pulizie, attività, svaghi; esse vengono progettate e presentate alla  Comunità. Come riporta Simona Masnata, questa suddivisione può essere cambiata in corso d’opera; ciò può avere il senso di avvicinarsi di più all’esperienza quotidiana di ognuno di noi, che prevede per lo più incontri brevi e mutevoli.  Gli  Incontri Mattino e Sera sono plenari; quello del mattino esplora senso di appartenenza, sentimenti, attese, sogni, da condividere; quello della sera,  tensioni ed emozioni destate dalle attività nei e fra i gruppi. Nei Gruppi di revisione e applicativi si riflette su ciò che si è appreso in relazione all’impegno previsto alla ripresa del lavoro; quindi sono omogenei, con un massimo di 6 componenti; sono l’inizio della preparazione ad andarsene, saldando il “qui e ora” col prossimo futuro. Nella Plenaria di chiusura si invita a osservazioni e critiche, tendendo a esplorare i vissuti di fine e separazione. Nel Rituale di addio il “gruppo svaghi” prepara 15 minuti di attività, scelti come ricchi di significati.

Sono previsti anche incontri di staff, che  osserva le dinamiche e prepara gli eventi.

Naturalmente, in ognuno di questi momenti si esplorano le dinamiche dando significato a ciò che accade,  aprendo spazi di riflessione. E’ quanto emerge dalle “istantanee” di Simona Masnata, che ha alle spalle una ricca esperienza di “consultant” e di amministratore in questi incontri. Ci racconta, con stile in cui il rigore non esclude la piacevolezza,  di uno di essi da lei  vissuto   nella veste di  amministratore. Il compito specifico di questa figura è l’organizzazione generale, il curare la collocazione in tutti i suoi aspetti, a partire dal rapporto con il territorio del temporaneo insediamento e fino ai vari minuti problemi quotidiani. Qui Simona Masnata mostra come si può vivere e utilizzare tale complicato compito  al di là dei suoi aspetti pratici: diviene qualcosa che va al di là di una cornice, di un mero contenitore estrinseco; un qualcosa che fa parte a pieno titolo del lavoro formativo, che apre spazi di riflessione.

Inizia col descriverci l’ambiente scelto come non dei più confortevoli, anche per la  posizione un po’ isolata che poteva rendere difficili alcuni aspetti della gestione: tuttavia, si fa osservare che questa condizione non era necessariamente negativa, poiché “voi imparate quando siete in una situazione imbarazzante”: è stato Bion a insegnarci che il pensiero nasce in una condizione depressiva.

L’Autrice ci parla poi di due specifiche difficoltà, che come ogni difficoltà divengono fonte di apprendimento.

Una è la presenza di operatori – clienti appartenenti a diverse nazionalità, alcuni non parlanti né italiano né inglese:  questa ha comportato ansia e frustrazione, più evidenti nei momenti decisionali, in chi non era padrone della lingua parlata nell’occasione e si sentiva isolato ed emarginato; potrei rilevare che vivere sulla propria pelle una esperienza di emarginazione “benigna” e controllata può essere utile alla comprensione terapeutica di tale condizione quando in forma ben più maligna si instaura attorno al paziente. Ma soprattutto la difficoltà linguistica ha  potuto divenire un’opportunità  aprendo spazi alla comunicazione non verbale, spesso – come sappiamo – più pregnante; e magari ad “azioni parlanti” nel senso di Racamier. Un’azione parlante è anche la chiusura della porta del locale in cui inizia un incontro: definisce un setting nella sua dimensione spaziale e temporale: “si lavora qui ed  ora”. Altrettanto pregnante, e fonte di possibile frustrazione, è il momento della fine – incontro.

Come è evidente, nelle serie difficoltà di comunicazione verbale il non verbale ha predominio totale.  Lo vediamo nei bambini, negli “infanti” che, privi della parola, sanno tuttavia bene come esprimere stati d’animo e bisogni fondamentali. Me è anche vero che essi prima o poi possono e devono impadronirsi del linguaggio, e che verbalizzare è crescita e terapia: dare un nome – non illusorio né arbitrario – agli stati mentali è un farli veramente nostri.

 In questa esperienza LfA l’alternativa fra i due modi di apprendere e comunicare è apparsa in qualche modo conflittuale ma stimolante.

  Altra difficoltà è nata dalla divisione degli utenti in due diversi spazi abitativi notturni, uno dei quali un po’ più distante dai luoghi delle attività  con conseguenti  problemi di spazio, ciò che ha attivato problemi di invidia e  dinamiche relative alla territorialità. Il definire un territorio come proprio è da sempre un bisogno dell’animale, umano e anche non umano: negli animali sociali diviene fonte  di identità di gruppo, di coesione sociale, di strutturarsi di una collettività, di una  rivendicazione di specificità; tutto ciò può esser fonte di dispute sui confini e addirittura  di conflitti, e ne sappiamo qualcosa oggi  a proposito dell’immigrazione nonchè, in forma  più evidentemente drammatica, della guerra in corso. L’appartenenza, esigenza vitale, ha il suo contraltare (necessario??) nella diffidenza o vera ostilità verso l’estraneo. Ovviamente, non che qui si sia arrivati a questo…

  Il discorso della appartenenza e della territorialità si era d’altronde aperto fin dall’inizio, con lo spuntino “multiculturale” che cercava un momento di benevolo incontro con ciò che è diverso.

  Simona Masnata ci racconta di un evento in sé minimo ma non senza significato: un partecipante si è ferito a un piede ma non ha segnalato la cosa all’Amministratore né ad altri: se l’è cavata da solo. L’Autrice ravvisa in ciò un voler incarnare il mito dell’Eroe: è questo un esempio di come si sia saputo trovare anche dalla banale quotidianità temi rilevanti come il mito dell’Eroe. Questo di fatto nelle sue varie componenti – forza mirabile, sovrumana tolleranza del dolore – percorre da sempre, e vi occupa un posto importante,  le varie culture umane: da Gilgamesh ad Ercole ad Achille, a Muzio Scevola, a Orlando Paladino, fino a Tex Willer e Superman… E’ un mito interculturale:  negli “Indiani” d’America, per essere ammessi alla maggiore età e a pienezza di doveri e diritti occorreva sottoporsi a vere torture. Siamo tutti guidati da miti archetipici, necessario sostegno all’azione: per restare in questa nostra esperienza, è possibile che gli Amministratori, carichi di compiti complessi e non tutti gratificanti, siano animati e sorretti dal mito della Madre che a tutto provvede; come la stessa Simona fa notare.

   La costruzione di senso non termina con la fine dell’esperienza LfA, ma si può riattivare nella quotidianità, e anzi in ciò sta il suo vero significato. Ciò ha a che fare, mi sembra, con il concetto freudiano di analisi interminabile, pur nato in contesto duale e non gruppale.  

  Questa proposta unisce l’originalità a una promessa di efficacia, basata sulla capacità di ridurre – senza rischi di confusione – lo iato che tuttora rischia di separare il terapeuta dal paziente. E’ ispirata – insieme a Luca Mingarelli –  da quel R.D. Hinshelwood di cui conosciamo l’importante e ormai classico apporto offerto alla comprensione  di quanto accade nelle organizzazioni psichiatriche, delle angosce in gioco, delle   difese. Piace ricordare come a questo proposito abbiamo avuto modo di  fruire  dell’opera di   Carmelo Conforto con la sua proposta operativa della Mappa psicodinamica,  sulla risposta degli operatori alle proposte emotive dell’ospite e sulla conseguente  restituzione in termini di  diagnosi e di trattamento.

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Commenti su "Snapshots on the process"

  1. Grazie al dottor Pisseri per questa recensione che mi ha molto emozionata e che arricchisce il testo di significati e di collegamenti possibili, e stimolando il pensiero ci aiuta a dare un senso al lavoro quotidiano con i pazienti.

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