Vaso di Pandora

Presupposti teorico clinici della cura in comunità

Quando parliamo di cura in comunità parliamo di Pazienti gravi, difficili. 

Per la verità tutti i pazienti sono difficili perché ogni individuo, sano o malato che sia, ha in sé una propria originale e complessa rappresentazione interna del mondo, che ne determina la sua personale inconoscibilità e lo rende diverso dagli altri.

Ognuno di noi deve fare i conti con l’Alterità a partire dal riconoscimento delle propria diversità, di ciò che di essa si può riconoscere ed accettare e ciò che invece si rifiuta e si proietta difensivamente sull’ “Altro”.

L’importanza del comprendere l’altro

Comprendere l’esperienza e il pensiero dell’altro, farlo proprio sino ad avvertirne la coloritura emotiva, le evocazioni associative e le condensazioni di significati che lo alimentano è un’impresa assai ardua.

Molte sono le possibili ragioni per le quali i nostri pazienti possono avere bisogno di non essere contattati, di rimanere nascosti dentro se stessi.

Molte sono le possibili aree cieche personali che riducono la nostra capacità di percepire e comprendere, né si deve credere che il gruppo garantisca di per sé una migliore qualità di pensiero rispetto a quella dei suoi singoli membri. 

Per mia esperienza, la gravità clinica non è necessariamente correlata alla difficoltà del  trattamento, ma è determinata da fattori individuali e ambientali, in reciproca risonanza sintomatica, che divengono essi stessi oggetto e strumento di cura.

Nei Trattamenti Residenziali, infatti, risultano più difficili non tanto quei pazienti che, per diagnosi e relativa prognosi, debbano essere considerati “i più gravi”, quanto quelli che esprimono il proprio malessere, prevalentemente, nell’ambito delle relazioni nelle quali sono implicati.

In un ambiente nel quale convivono e si curano pazienti Gravi, con prevalenza di Disturbi Psicotici o di Personalità si attiva, inevitabilmente un fitto intreccio transferale che rende più manifesti i patterns relazionali individuali e dove tutta l’architettura difensiva della persona è sottoposta ad un intenso lavoro di adattamento.

I pazienti possono essere ulteriormente indotti a ripetere i propri modelli patologici e disfunzionali in un campo saturo di elementi beta (forme primitive di pensiero non ancora elaborato attraverso processi di simbolizzazione) espulsi ed agiti nell’ambiente tanto maggiormente quanto più è mancante la funzione alfa personale (la quale permette all’individuo di integrare, comprendere ed elaborare gli elementi beta, trasformandoli in pensiero simbolico), o la sua attivazione ausiliaria all’interno del trattamento.  

La cura in comunità

È  quindi questo il campo di osservazione che si presenta a chi lavora ai Trattamenti Psicoterapeutici Residenziali, definizione che mi sembra preferibile rispetto all’abusato ossimoro “Terapeutico-Riabilitativo”, che propone un’implicita distinzione tra benessere e autonomia che non sappiamo quanto sia possibile e utile.

Il concetto stesso di Comunità Terapeutica mi pare debba essere difeso dal rischio di essere dato per scontato e banalizzato, in una genericità che significa troppe cose.

Mettere in comune allude, nell’immaginario, ad una tensione virtuosa collettiva, che implica un concorso attivo di tutti coloro che vi partecipano, per uno scopo condiviso.

Le associazioni possibili portano più al mondo degli ideali che ad una realtà specifica e la bellezza dell’idea comunitaria finisce con oscurarne la natura.

Il dolore nelle comunità terapeutiche

La Comunità Terapeutica è invece un contenitore relazionale nel quale il dolore e la sofferenza possono divenire quasi insostenibili per tutti coloro che, a differente titolo, vi sono coinvolti.

Non mi riferisco solo alla sofferenza sintomatica dei singoli, derivante dall’esclusione sociale, dalla perdita degli affetti e delle abilità, ma anche a quella indotta da contenuti psichici propri e altrui, espulsi in un campo comune, che concorrono all’istituirsi di dinamiche collettive a loro volta molto dolorose.

Un complesso groviglio di elementi psichici espressi e trasmessi attraverso svariati canali, che la nostra tecnica ed esperienza ci deve consentire di comprendere e trattare, per fare di un luogo di residenza un Ambiente Terapeutico.

L’ambiente nel quale si svolge è esso strumento della cura a patto che il gruppo di lavoro abbia e preservi la capacità di attivare un’attenzione che dia senso a ciò che osserva e percepisce e sappia integrare ed elaborare al suo interno i contenuti psichici che vi vengono deposti.

Dal lavoro dell’identificazione proiettiva, alla comunicazione verbale, tra manifesto e latente, al comportamento visibile, alle attivazioni di rispecchiamento, alla riattualizzazione di conflitti primari tutto è trasmesso e messo in comune.

Persino i sensi concorrono attraverso la percezione dell’aspetto, degli odori, dei suoni (la voce, il passo), della consistenza dei corpi.

La materia della cominità

È forse questa la vera materia di cui è fatta una comunità e con la quale si trova a lavorare chi ha al suo interno funzioni di cura.

D’altra parte credo che tutte le forme di Comunità umana racchiudano in sé una sorta d’inconsapevole desiderio di cura.

Attraverso la mutualità relazionale, l’identificazione, ma anche la contrapposizione e il conflitto, all’interno di un contenitore emotivo sufficientemente rassicurante, spinte pulsionali individuali, angoscianti e potenzialmente distruttive, si stemperano grazie ad una credenza comune, una visione del mondo condivisa, adatta ad organizzare i bisogni  di chi   vi concorre.

La specifica Credenza del tipo di comunità di cui parliamo oggi è quella di esercitare un Compito Terapeutico, di lavorare cioè con la materia di cui sono fatte le disfunzioni intrapsichiche, proprie di ognuno, espresse ed agite in un campo relazionale forzosamente affollato.

Chi è dunque il Paziente Grave-Difficile all’interno di una comunità?

I pazienti con Disturbi di Personalità, in particolar modo quelli compresi nel Cluster B sono i primi a cui viene da pensare.

Sono quelli che coinvolgono e confondono maggiormente e che richiedono, oltre ad una grande competenza umana e professionale, accorgimenti tecnici specifici, articolati  e complessi, che chiamano in causa tutta la rete di cura.

I Pazienti affetti da Disturbi Psicotici, le cui capacità psichiche appaiono talmente danneggiate da produrre distorsioni, quasi insanabili, nel rapporto con gli altri e con il reale, sono Pazienti per i quali le compromissioni delle funzioni dell’Io determinano una costante incapacità adattativa.

Sono Pazienti che pongono sfide terapeutiche estremamente complesse a fronte di danni che possono investire tutti gli ambiti dell’organizzazione psichica e del comportamento, mettendo a dura prova e talvolta, portando all’esaurimento delle risorse terapeutiche del gruppo.

Il trattamento implica la costruzione della Confidenza, lo sviluppo dell’Alleanza, l’individuazione di Bisogni Specifici, il contenimento emotivo, la comprensione dei Meccanismi di Difesa e la possibilità di rimodellarli, l’esposizione alla Stimolazione Ottimale.

Ma anche il sostegno costante, attraverso l’esercizio di funzioni vicarianti in diversi ambiti  di interazione con la realtà, la mediazione relazionale e familiare, la cura del sé, la gestione della sessualità, il riconoscimento del valore degli spazi e altro ancora.

La maggior difficoltà che queste situazioni comportano è che si stabiliscano nel tempo, tra gli operatori ed il Paziente, delle forme simmetriche d’interazione, con un crescente impoverimento della comunicazione che diviene stereotipata e regressiva.

In queste condizioni troviamo le premesse per un progressivo scivolamento in Sindromi Istituzionali, la cui mancata prevenzione può segnare per sempre la carriera del nostro Paziente.

La cronicità oltre la condizione di stato fisico

Credo che si debba pensare alla cronicità non solo come ad una condizione di stato psichico, ma anche ad una condizione che investe e si rinforza nell’interazione prolungata con il medesimo ambiente, coinvolgendo tutti.

Così come l’istituzione può bonificare e curare, può altrettanto ammalare e cronicizzare.

Nel gioco delle traslazioni reciproche, tra Operatori e Pazienti, le posizioni tendono a polarizzarsi: da una parte gli Operatori che dispensano salute e dall’altra i Pazienti che incarnano la malattia quasi fosse un ruolo a cui non si può più sfuggire.

Cito da Main (1975): “Coloro che danno aiuto hanno bisogno inconsciamente di altri da aiutare, mentre i bisognosi di aiuto avranno necessità di altri pronti ad aiutare. Operatori e Pazienti sono pertanto inevitabilmente, in qualche misura, creature gli uni degli altri”.

La difficoltà di trattare queste situazioni attiene al progressivo estinguersi della spinta vitale, col prevalere della necessità di contenere anziché comprendere un disordine che allarma, inquieta e addolora.

Quando il gruppo di lavoro ignora le implicazioni perverse e regressive che lo mettono prepotentemente in gioco, il Paziente è costretto ad adattarsi a una condizione in cui si è tutti inconsciamente d’accordo nel deporre la speranza.  

La nostra Coscienza, i nostri Pazienti e i tempi ci impongono di essere competenti ed efficaci.

La cura in comunità resta un’ottima risorsa

Le Comunità Terapeutiche sono state e continuano ad essere una straordinaria risorsa, per decine di migliaia di persone, delle quali si prendono cura con passione, nonostante grandissime difficoltà.

Chi a qualsiasi titolo vi lavori, deve acquisire competenze altamente specializzate.

I Trattamenti Psicoterapici Residenziali possono fare riferimento a Modelli che prevedono Interventi Integrati, sulla base dell’attribuzione di ben precise funzioni transferali e psicoterapiche.

Interventi tecnici, in altre parole.

L’auspicio è di arrivare a definire modelli d’intervento, elasticamente replicabili.

La questione della replicabilità a me pare molto importante, essendo connaturale al concetto stesso di modello.

Sappiamo quanto poco si presti la nostra disciplina a semplificazioni operative.

La necessità di linee guida

Eppure abbiamo bisogno di linee guida, di criteri d’intervento e di strumenti che siano confrontabili ed affinabili.

Le strutture Psichiatriche Residenziali vanno quindi affinando la capacità tecnica di curare i Pazienti Gravi. Nel corso di questo trentennio hanno sviluppato una cultura e dei modelli di intervento sempre più efficaci.

Tuttavia risultati talvolta sorprendenti sono spesso vanificati dalla carenza di risorse di assistenza territoriale o di residenzialità leggera.

Per mia esperienza, oramai abbastanza lunga, la collaborazione delle strutture residenziali con le agenzie territoriali è frequentemente molto difficoltosa. Vorrei però aggiungere che se negli anni scorsi chi lavorava nelle Strutture convenzionate si scontrava frequentemente con la diffidenza dei colleghi dei Servizi, cosa che frequentemente favoriva dinamiche confusive nei gruppi di lavoro a tutto scapito del Paziente, oggi è cresciuta la conoscenza reciproca, ma la collaborazione trova nuovo ostacolo nella grave carenza di risorse che tutti soffriamo.

Dico questo perché a mio modo di vedere i Trattamenti Residenziali Intensivi hanno senso se prevedono il loro superamento.

In altro caso dobbiamo considerarli alla stregua di lungodegenze più o meno serene.

L’induzione alla cronicità nella cura in comunità

Ma non di rado, purtroppo, vere e proprie induzioni alla cronicità.

In questi casi, a mio avviso, quando non si rilevano miglioramenti, laddove non sia possibile, per l’elevata compromissione del quadro clinico, accedere a soluzioni abitative autonome o a bassa intensità, va presa tempestivamente in considerazione la possibilità di passaggi ad altre strutture, per proseguire in contesti meno “contaminati” dove si possano attivare nuove risorse.

L’aspetto temporale ha quindi un significato Etico perché si fonda sul rispetto per i Pazienti in quanto Persone con bisogni e col diritto di vivere, ogni volta sia possibile garantire un’adeguata alleanza, fuori da contesti istituzionali.

Non si può assolvere però a questo mandato senza un buon supporto tecnico e organizzativo.

Oltretutto, provando a tenere i piedi per terra, un sistema, come da qualche parte si va sviluppando, che demandi ai Trattamenti Residenziali specifici progetti Psicoterapici a termine e preveda équipe addestrate e specializzate nel sostegno territoriale, comporterebbe, se attentamente organizzato, costi inferiori e soddisfazioni maggiori.  

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