Vaso di Pandora

Psichiatria e Psicoterapia: nemiche o alleate?

Partecipando all’’Open day della Scuola di Psicoterapia Istituzionale, avvenuta a Genova, il 17 maggio scorso, mi ha offerto l’opportunità di sviluppare una riflessione: è possibile prendere in considerazione la Psichiatria e la Psicoterapia come i due modi di intervenire in forma specifica nei confronti dei due tipi prevalenti di patologia psichiatrica? Le psicosi, infatti, vengono seguite in forma prevalente da parte della Psichiatria e le nevrosi da parte della Psicoterapia, oppure i cambiamenti che entrambe stanno vivendo permettono la riapertura di un’attenta riflessione a proposito di questa divisione storica?

L’insegnamento della psichiatria e psicoterapia

Nel corso dell’Open day della Scuola di formazione in Psicoterapia Istituzionale, è emerso un punto particolarmente interessante: ma perché le Scuole di Specializzazione in Psichiatria, in Italia, negli ultimi 45 anni, nella stragrande maggioranza, dal momento in cui si è verificata la decisione di non ammettere più i pazienti negli Ospedali Psichiatrici, nel 1978, con la Legge 180, detta Basaglia, a tutt’oggi, hanno seguitato ad insegnare la Psichiatria non solo agli studenti delle Scuole di Specializzazione in Psichiatria, ma anche agli psicologi, agli infermieri, alle assistenti sociali e ai terapisti della riabilitazione psichiatrica, anch’essi in formazione, pressoché esclusivamente nei reparti ospedalieri denominati Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura e negli ambulatori per pazienti dimessi dai reparti e ad essi collegati, ignorando qualsiasi altro luogo dell’intervento psichiatrico,  quali i Centri di Salute mentale, i Centri Diurni, le Comunità Terapeutiche , le Case Famiglia e/o Comunità Alloggio che si sono trasformate in Residenze, che, nel corso di questi 45 si sono sviluppati, sia in ambito pubblico che privato convenzionato?

Perché la Psichiatria Universitaria ha ignorato il messaggio proposto dalla Legge 180 che imponeva la chiusura delle Accettazioni dei Manicomi ed ha seguitato a pensare che il luogo in cui sarebbero state più facilmente identificabili le “competenze” dei nuovi specialisti in Psichiatria, indipendentemente dalla qualifica professionale, fossero costituite da luoghi non molto diversi da quelli che erano stati definitivamente considerati come inappropriati alla cura dei malati psichici?  

Io credo che sia giunto il momento di aprire una riflessione autocritica su quanto accaduto.

Il convegno Psiche e Polis

Ho provato la stessa sensazione partecipando ad un Simposio del Congresso Nazionale organizzato dalla SPI, a Roma, il 24,25 e 26 maggio scorso, dal titolo significativo: “Psiche e Polis”.

Il titolare di Cattedra Universitaria e Direttore della Scuola di Specializzazione in Psichiatria di Pavia ha riportato i dati di una ricerca che sembrano confermare, drammaticamente, l’ipotesi suaccennata: che quasi non c’è stato posto per l’insegnamento della Psicoterapia all’interno della Scuola di Specializzazione in Psichiatria di Pavia e, probabilmente, d’Italia: dalla statistica descritta, è emerso che le tesi in Psicoterapia, negli ultimi 35 anni , non hanno raggiunto l’1 per cento del totale, mentre le tesi aventi per argomento la Psicopatologia e la Clinica, messe insieme, superavano il 60 per cento.

In poche parole, l’insegnamento della Psichiatria ha ignorato l’uso della Psicoterapia nei confronti della malattia mentale grave: la psicosi, schizofrenia e disturbo bipolare e la sindrome border-line.

A me sembra che tutto ciò vada rimesso in discussione in maniera chiara.

L’esperienza delle comunità terapeutiche

In particolare, l’esperienza delle Comunità Terapeutiche, ma anche quelle degli altri Servizi Territoriali, hanno dimostrato che, in un numero rappresentativo di casi, i pazienti psicotici inseriti nelle CT, sono riusciti a risentire positivamente del tipo di relazioni che gli altri pazienti e gli operatori delle CT hanno stabilito con loro. Cioè che il trattamento complessivo a cui sono stati sottoposti, che in parte era abbastanza simile a quello che avveniva se il paziente stava a casa con la sua famiglia, per quanto riguarda i farmaci e la riabiltazione, ma che, viceversa, era molto diverso per quanto riguarda l’instaurazione di relazioni con valenze terapeutiche con gli operatori e con gli altri pazienti, con cui hanno condiviso l’esperienza della CT.

Io penso che tutto ciò non sia stato sufficientemente messo a fuoco.

Nei fatti, l’instaurazione di relazioni basate in primo luogo sul rispetto reciproco, se accettate fino in fondo da chi ha fatto l’esperienza delle CT, ha consentito alle persone di ricostruire la propria personalità e di accedere a dei discreti livelli di recupero, anche se con un range di differenziazione molto ampio.

A me sembra che tutto ciò abbia dimostrato che la possibilità di instaurare relazioni terapeutiche in senso lato, cioè da tutto l’insieme delle persone che vivono in CT, costituisce una base sicura, a partire dalla quale possono essere introdotti tutti gli altri tipi di supporto.

I gruppi di psicoanalisi multifamiliare

In più, nel corso del tempo, perché non è un’operazione semplice, direi che ci sono voluti più di dieci anni, è stato introdotto, in un gran numero delle CT Redancia, l’uso del Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare, con lo scopo di sensibilizzare i componenti delle famiglie di origine alla necessità di prendere in considerazione la possibilità di modificare le relazioni intercorrenti tra il resto della famiglia e il paziente che aveva vissuto l’inserimento in CT.

Se le relazioni intraprese in CT avevano avuto l’effetto di far stare meglio il paziente, dopo che questi aveva vissuto fino al momento di entrare in CT a casa, evidentemente nelle relazioni affettive che erano intercorse tra lui e i suoi familiari c’era stato qualcosa che era andato male: su qualche punto particolarmente importante erano avvenuti dei fraintendimenti, delle incomprensioni su cui era necessario intervenire prima che il paziente si trovasse nella possibilità di finire il suo percorso in CT, sia che tornasse a casa, sia che non ci tornasse, in base al suo programma terapeutico, successivo alla dimissione.  

Di qui, l’utilità del Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF), per vedere se e come anche le relazioni originarie, da sempre sperimentate in famiglia, potessero risentire positivamente del lavoro che si conduce in questi gruppi, proprio per evitare che, altrimenti, una volta rientrato a casa, non si verificassero le stesse incomprensione e gli stessi fraintendimenti che avevano portato all’emersione di una sofferenza ingestibile e, conseguentemente, di una sintomatologia grave nel paziente.

L’importanza della formazione continua

Nel corso degli ultimi anni, on line da dopo il Covid, partecipo con operatori, pazienti e familiari al GPMF che si tiene in una delle CT del Gruppo Redancia una volta al mese; successivamente, quanto avvenuto nel Gruppo, rielaborato nell’Ateneo (riunione riservata agli operatori successiva al Gruppo stesso), viene proposto in una riunione plenaria mensile, a cui partecipano tutti gli operatori delle CT Redancia che conducono all’interno delle loro CT il GPMF: una sorta di riunione di aggiornamento-formazione in cui possono coinvolgersi tutti gli operatori interessati a farlo, appartenenti al Gruppo Redancia.

Sarebbe interessante chiedere a chi vi ha partecipato nel corso degli anni che cosa lo ha colpito di più. Potrebbe essere interessante formulare un programma di formazione per nuovi psichiatri, psicologi, infermieri, assistenti sociali e terapisti della riabilitazione psichiatrica, nonché per gli OS e per il resto del personale che lavora in una CT, che tenesse conto delle esperienze delle CT e non solo di quello che si può vedere in un SPDC, dove gli operatori possono mostrare difficilmente che la crisi del paziente contenga entrambi gli aspetti di cui è composta: la sofferenza estrema e la possibilità di rimettere in discussione gli equilibri relazionali disfunzionali che l’hanno prodotta, la malattia e l’apertura di una possibilità di sviluppo per il paziente e per la sua famiglia.

Un dibattito su psichiatria e psicoterapia

Sarebbe interessante aprire un dibattito sulla questione da me sollevata: possiamo o dobbiamo accontentarci di seguitare ad insegnare la Psichiatria mostrando solo una parte della “crisi”, quella da cancellare o, quanto meno, da ridimensionare o possiamo ipotizzare un insegnamento che sia in grado di mostrare la complessità del fenomeno che ci troviamo di fronte e la necessità di formulare ipotesi esplicative e modalità di intervento che tengano conto delle suddette ipotesi esplicative, partendo proprio da quanto dimostrato dall’esperienza delle CT e dei GPMF?

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