Da Lacan a Woody Allen, le contorsioni del parlar-si e del comprender-si in amore
Capovolgendo e disincantando il poetico testo di Ivano Fossati, si potrebbe dire che non di rado la “costruzione di un amore” si risolve nella realizzazione a due di una torre di Babele: gli amanti parlano, si cercano, si scrutano, ma restano prigionieri delle loro erranze linguistiche. Volevano raggiungere il cielo con una scala colossale e invece si ritrovano nella diaspora di una confusione di lingue che produce vissuti di delusione, disillusione e talvolta rabbia, esplicita o passivo-aggressiva. Del resto lo stesso Fossati avverte che si tratta di un “altare di sabbia” eretto sul bagnasciuga, suggerendo un’architettura instabile dove l’iniziale illusione della simbiosi cede il passo alle dissonanze strutturali del desiderio.
L’amore di coppia non è infatti solo il luogo più positivamente spiazzante dell’incontro con l’altro, ma anche quello dell’agguato teso dal gesto, dalla parola o dal silenzio che possono volgersi in equivoco, proiezione o aspettativa disattesa.
Il fraintendimento può sorgere variamente: per eccesso di significato, per ridondanza di dono o per dissintonia dei desideri più profondi. Il dialogo arretra in questi casi a discorso fra sé e il fantasma dell’altro, a murmure incrociato e monologante; ogni atto comunicativo nasconde un potenziale slittamento di senso. Si crede di parlare la stessa lingua, eppure ogni proferimento contiene un rimando che per l’altro resta enigmatico.
Imposizione ed eccesso del dono
Se per Schopenhauer l’amore sessuale è un inganno biologico finalizzato unicamente alla perpetuazione della specie, per la psicoanalisi esso si configura come un gioco di mancanze, una dialettica dell’assenza.
Jacques Lacan, con la sua iconica sentenza «amare è donare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole», sembra svelare lo svisamento essenziale che, insistendo nella struttura profonda di ogni rapporto amoroso, si riverbera nell’erranza dei linguaggi.
Spesso nel web si ritrova citata a metà (“amare è donare quello che non si ha”), mutata così in una melensa apologia dell’abnegazione amorosa. Ma è difficile credere che Lacan intendesse proporre un aforisma da incartamento per cioccolatini.
Se non si mutila la sentenza della sua seconda metà, infatti, l’atto di donazione s’illumina di tutt’altra luce: non siamo di fronte a un dono di pienezza, che ricolma, come in una rêverie materna, una povertà di mezzi. Il soggetto amoroso non offre mai un oggetto concreto, ma un vuoto, una mancanza, un segno del proprio desiderio che, nel momento in cui viene consegnato all’altro, lo spoglia della sua stessa sostanza.
L’altro, che desidera a sua volta colmare mancanze “proprie”, è sempre un ricevente imperfetto di questo messaggio: accogliere il desiderio altrui significa accettare un’alterità irriducibile, e questa è un’operazione che nessuno compie senza residui di incomprensione.
L’amore non colma il vuoto, ma lo espone
Se non s’impara a governare questo regno umbratile come Persefone fa col regno dell’Ade, lo stratificarsi progressivo di proiezioni incrociate può finire per allontanare e schermare l’altro, travisandolo del tutto nell’imago del desiderio.
Nel film Perfetti Sconosciuti di Paolo Genovese si mette in scena questo allontanamento della “verità” del partner come esito della coltivazione in solitudine – ovvero non più in dialogo con lui – di desideri e mancanze individuali. Il gruppo di coppie protagonista, a seguito di un gioco di scopertura feroce, fa esplodere le fratture “oscene” – che cioè, letteralmente, insistono “fuori dalla scena” – che hanno proliferato sotto la superficie placida dell’inerzia comunicativa.
Anche nella gratuità dell’abnegazione tuttavia si può celare la “sordastria” nei confronti della “verità” dell’altro. Il cantautore Enrico Ruggeri, in una vecchia canzone intitolata “Fingo di dormire”, offre una versione “pop” di questa dinamica: una compagna pressoché perfetta si ostina a dare non solo più di quanto il partner possa ricambiare, ma anche in una misura eccedente la stessa possibilità di assorbire il dono. Detta in termini più prosaici: per lo più regaliamo ciò che vorremmo ci fosse regalato. Il verme di una strisciante insoddisfazione mina la ricezione di cotanta generosità: «Lo so benissimo che colpe non hai / Tu sei perfetta, dolcissima e corretta / Sono gustosi tutti i frutti che dai / Ma non mi sfamerai (…) Da te ricevo più di quello che do / Ma cosa ne farò?».
Soprattutto nella domanda finale risuona l’oppressione del dono gratuito, l’eccesso nutritivo che non sfama, che manca il bersaglio e obera l’altro con la sua “ambliopia” sovrabbondante.
Frammenti di discorsi fraintesi in amore
Milan Kundera ne L’insostenibile leggerezza dell’essere dedica alcuni capitoli alla rassegna di un “dizionario delle parole fraintese”, mostrando come gli amanti siano spesso catturati nella rete di una discrepanza semantica: le parole che credono di condividere celano significati profondamente diversi per ciascuno. Ciò che per uno rappresenta un gesto d’amore, per l’altro diventa motivo di dolorosa diffrazione.
Tomáš e Tereza interpretano in modo opposto concetti come libertà, fedeltà e abbandono. Quando Tereza dice amore, intende un abbandono totale e un destino comune, mentre per Tomáš l’amore può sussistere solo se si coniuga alla leggerezza sensuale e alla libertà dall’impegno. Quando, nell’altro lato del quadrilatero amoroso raccontato nel romanzo, Sabina dice tradimento, vuol significare emancipazione; per Franz invece evoca il rimorso e il vissuto di colpa.
Ogni coppia statuisce, volontariamente o meno, un vocabolario privato fatto di significati dati per assodati, ma anche di silenzi, sguardi e metafore; quando queste lingue private vanno alla deriva, sospinte dalle correnti di bisogni divergenti, il risultato è inevitabilmente un vissuto di malmostosa solitudine e incomprensione.
Gli equivoci nella vita di coppia
La relazione di coppia, in questa luce, è un campo disseminato di equivoci, dove ogni parola può detonare in un malinteso e in un triste esilio dall’immaginario amoroso. Kundera restituisce questa dolorosa delocalizzazione con un’immagine disadorna e malinconica: “Erano faccia a faccia in mezzo a una landa coperta di neve e tremavano di freddo”.
Purtuttavia, è forse qui che si situa l’unica possibilità di evasione dalla cella d’isolamento in cui si finisce reclusi: accettare che l’altro sia, in fondo, intraducibile. Solitamente l’amante fa l’esatto contrario: parla “oltre”, dis-corre, ovvero corre qua e là, inciampa nel farfugliamento che pronuncia di fronte al convitato di pietra dell’altro. Trama con motivi sintattici lasciati a mezz’aria (“certo che avrebbe ben potuto…”), con sguardi allusivi, con lunghi silenzi caricati di pressanti significati inespressi. E in questo magma in-espresso, si moltiplicano le occasioni per le diversioni linguistiche ed esistenziali.
Roland Barthes, in Frammenti di un discorso amoroso, mostra come il discorso che l’amante parla dentro di sé sia intessuto di metonimie: mette in primo piano dettagli che sfocano l’intero sullo sfondo; non dice mai ciò che vorrebbe dire, si avviluppa su se stesso, si spezza, si disperde in un balbettio infinito; è costellato di figure retoriche – metafore, iperboli, ellissi – che mettono in scena piccole apocalissi relazionali e rendono ardua una comunicazione di senso esplicito.
Heinz Kohut: la maturità come alternanza di ruoli in amore
Se i fraintendimenti sono inevitabili, gli amanti sono dunque condannati a un simulacro di comunicazione continuamente eroso dal travisamento? Heinz Kohut, padre della “Psicologia del Sé”, sostiene che la crescita di una relazione passa attraverso una maturazione della funzione dell’altro.
Nell’incontro iniziale e nel principio della relazione l’amato è pressoché inevitabilmente un’estensione narcisistica dell’amante: questi lo cerca per confermare la propria identità, placare le proprie insicurezze, ottenere un riconoscimento senza compromessi. Ma l’evoluzione positiva della relazione dipende dalla capacità di lasciar tramontare questa funzione speculare e idealizzante, accettando l’altro nella sua irriducibile alterità.
La relazione emancipata è concepita come un avvicendamento continuo di funzioni tra gli attori, in cui ciascuno, in momenti diversi, assume temporaneamente il ruolo di “oggetto-sé” per l’altro in difficoltà, riflettendone e ricomponendone l’identità malferma, costituendosi come sostegno emotivo o fonte di validazione.
Tuttavia, questa evoluzione richiede un’empatia profonda e la capacità di abbandonare l’illusione fusionale. Se si fallisce nel comprendere quando e come assumere il ruolo di oggetto-sé, il risultato è nuovamente il fraintendimento e la dissonanza, insieme alla costituzione di relazioni sbilanciate, tramate di nevroticismi, dinamiche di dipendenza o equilibri sado-masochistici.
Una “arte del fraintendimento”?
Se il fraintendimento è in certo qual modo inevitabile, può essere piegato a un suo raffinamento quasi artistico, a una sua funzione non meramente distruttrice o estraniante? Probabilmente sì, se si parte dalla assunzione consapevole della sua ineluttabilità e si progredisce verso un’osservazione, per così dire “mindfulness”, delle sue infinite arborizzazioni.
Il fraintendersi può farsi allora arte sottile, danza di significati che sfuggono, si rincorrono e si reinventano, contrassegno di un’opera – quella dell’incontro con l’altro – sempre in fieri, che sfida il discorso amoroso a una ridefinizione continua.
Nutrendosi di polisemia, esso può sostare transitoriamente, senza sentirsi sopraffatto, in quella zona grigia dove le parole non esauriscono il loro senso e si soffondono di aure semiologiche. Può farsi laboratorio per arditi esploratori dell’indefinitezza: un “ti amo” può essere letto come una promessa eterna o come un’invocazione momentanea; uno sguardo può essere decifrato come indifferenza o come desiderio trattenuto. Nel malinteso in agguato si può integrare la scintilla del mistero, l’ipnosi della decifrazione dell’altro, l’incantesimo del significato mai del tutto afferrabile. Come in un dialogo socratico amoroso, il disaccordo interpretativo può spingere gli amanti a reinventare periodicamente il proprio linguaggio, a cercare nuove formule espressive per aggirare l’incomprensione.
Infine, il fraintendersi, integrato come dimensione ineludibile della comunicazione amorosa, potrebbe introdurre nella relazione un tratto ludico e teatrale. La stessa seduzione, se non volge a manipolazione e dominio, è in fin dei conti un’utilizzazione creativa dell’arte del fraintendersi: si costituisce nei mezzi toni, nei sottintesi volutamente opachi, nei giochi di parole che lasciano il dubbio e lo alimentano.
Se la chiarezza e la trasparenza sembrano necessarie nella costruzione di un rapporto progettuale, è plausibile che un margine insaturo di fraintendimento – un gesto equivocato, un silenzio enigmatico – possa rendere la relazione un cantiere sempre aperto, al riparo dalla scontatezza.
La perdurante necessità di “uova”
Tornando alla sentenza di Lacan, l’esposizione della mancanza che la stessa esperienza amorosa è, la rende un’apertura radicale all’alterità. Nell’accettazione di questa mancanza reciproca, nella rinuncia alla fusione e al possesso, l’esperienza amorosa rivela la sua verità imperfetta di religione senza salvezza.
Se il fraintendimento è l’ombra che si proietta su ogni parola d’amore, la domanda che inevitabilmente appare è: può l’amore stesso imparare ad abitare quella zona d’ombra, come Persefone l’Ade? Può, come la mitologica regina del Tartaro, apprendere a muoversi tra oscurità e primavera, tra accettazione dell’enigma dell’altro e inaspettate fioriture della comprensione?
Woody Allen, nei panni del commediografo Alvy Singer nel film Io e Annie, sembra suggerire una risposta da par suo. Nel finale così chiosa riguardo alla malinconica, ma pur non priva di dolcezza, fine della sua relazione sentimentale, dopo le montagne russe dello sfuggirsi, del riprendersi e del fraintendersi:
“E io pensai a quella vecchia barzelletta… Sapete? Quella dove uno va da uno psichiatra e dice: Dottore, mio fratello è pazzo: crede di essere una gallina. E il dottore gli dice: Perché non lo interna? E quello risponde: E poi a me le uova chi me le fa?
Beh, credo che corrisponda molto a quello che penso io delle relazioni tra uomo e donna, e cioè che sono assolutamente irrazionali e pazze e assurde, ma credo che continuino perché la maggior parte di noi ha bisogno di uova”.