Vaso di Pandora

Negli occhi di Barbablù

“La paura del lato in ombra delle siepi, del sedile posteriore dell’auto,
della casa vuota che fa tintinnare le chiavi […]
la paura dell’uomo che sorride con un coltello nella tasca.”
(M. Piercy, Poesia sullo stupro a Missoula, 1936)

Una mano che ti stringe, uno sguardo che impietrisce, un verbo che irrompe. Parole antiche che saziano la fantasia bambina, che guidano occhi fiduciosi nel mondo. Qual è, oh Donna, la lezione appresa? Nei tuoi primi e incorrotti passi, in quanti visi gentili non riconoscerai il cupo sguardo di Barbablù? Non raccontano nulla quegli occhi, e l’ombra che celano non sempre può essere decifrata. Chi sarà a dirti che un viso morbido potrà indurirsi, che un sorriso affabile potrà serrarsi? Chi ti avvertirà che la polvere blu potrà essere cancellata, ma raramente il colore desisterà? Chi saprà rivelarti che una violenza è tale anche quando l’occhio non ne coglie traccia alcuna? Eppure essa esiste, sussiste nella mente di ogni donna; la accompagna ad ogni passo come un monile che le stringe il collo nudo, imprigionandole il respiro.

La fiaba di Barbablù assume, oggi come ieri, spessore di realtà: nel 2022 sono 9.877 le chiamate indirizzate al 1522 per una richiesta di aiuto. La favola bambina si tramuta così nella tragedia quotidiana di quante tentano strenuamente di sfuggire alle alte mura del castello di Barbablù; 9.877 lacrime di donna. Ogni stilla merita di essere guardata, riflesso di un microcosmo di relazioni che si stagliano nel blu. Che ognuna di esse possa pesare come monito.

Attenta, ragazza.
È violenza la sottile trappola tesa da uno sconosciuto in un buio vicolo urbano, una mano ignota che fieramente indugia sulle curve del tuo corpo. Temporeggia, si dilunga nell’ebbrezza del contatto come se quella pelle non fosse altro che sua; come se tu, donna, non fossi altro che una bambola di pezza.

Violenza è quel ventaglio incessante di schiaffi acuti e precisi che serba per te il compagno di vita, come un pegno segreto che ogni notte sei costretta a pagare. È la veemenza con cui quelle calde mani si serrano in pugni per ferire il corpo ed imprigionare la mente: palmi carezzevoli che si tramutano nelle dita di un burattinaio.

È violenza ogni qual volta muove i fili della tua mente e con astuzia denigra, squalifica, umilia.
Come un ciclone assorbe ogni tuo pensiero ed ogni tua parola, non restituendo altro se non un riflesso sfocato di ciò che tu gli hai concesso. Fin quando non sarà rimasta che terra arida in cui germogliare.

Violenza è l’uomo con le tasche sigillate accanto a te, quello che rifiutandoti il compenso o le finanze nega la tua autonomia, la tua indipendenza; recide ali salvifiche e capaci di liberarti dalle alte mura in cui sei imprigionata.

Violenza sono quelle braccia impietose con cui ti ancora a terra mentre si ciba della tua sofferenza, della tua dignità, lasciandoti inerme sotto di lui. Potrà mai, questo, essere giustificabile? Un’invasione tanto logorante da annichilire qualunque donna, tanto assoluta da obbligarla a terra postulante d’aria.

Potrà mai, essa, accettarsi nelle vesti che un Barbablù le ha cinto in grembo, nel monile che le ha stretto al collo? Potrà mai darsi pace per ciò che lui le ha tolto?

A tutte quelle donne in cerca d’aria: prego che le crepe di violenza possano essere colmate d’oro. Prego che dalle lacrime versate possa nascere un germoglio perché la terra potrà essere tortuosa, ma mai arida. Prego che nessuna donna debba mai rispecchiarsi in Medusa: giovane atrocemente abusata, barbaramente colpevolizzata di esserlo stata da rei occhi miopi. Sommando violenza a violenza, laddove la misconoscenza di uno strazio è essa stessa un sopruso.

“Se l’è cercata lei”, dicono, e questo urlo ha il retrogusto di una sentenza: condanna lei, vittima, a vedere allo specchio il riflesso del suo aguzzino; la obbliga a disprezzare le curve del suo corpo, del suo viso. Le crepe che Barbablù le ha inciso negli occhi.

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