La morte del Papa, con i suoi riti solenni e le sue implicazioni globali, offre l’occasione per riflettere sul mistero del corpo privo di vita e della memoria e della interpretazione cui si consegna ciò che prima lo animava, che si tratti di memoria e ri-narrazione di pochi congiunti e correlati, come occorre ai comuni mortali, o che concerna quelle di masse e intere epoche, come nel caso, appunto, di mortali eccezionali quali il Papa.
L’ostensione del corpo del Pontefice, e nell’attuale circostanza storica di quello di Francesco, si staglia come esperienza collettiva in cui s’intrecciano in modo dissonante sacro e profano, finito e speranza dell’infinito, celebrazione e oblio.
L’esposizione dei corpo dopo la morte del Papa
Esanime, adagiato nella sua bara che ha voluto semplificata e posta in basso, nel recente passato – ancora nell’occasione della morte del predecessore – issato su un catafalco sopraelevato al centro della Basilica, esso si offre a un rito di massa che trascende la contingenza individuale per farsi “monumento collettivo vivente”: un luogo in cui il mistero della finitezza si fonde con la dimensione globale del dolore, della devozione e della narrazione diffusa dell’assenza.
Sul “palco” di San Pietro – teatro dall’autorità simbolica ineguagliabile – il cadavere del Papa diventa oggetto-limite: lo sollevano e lo muovono con corrispondenza di amorosi sensi migliaia o milioni di ondulanti braccia di fedeli, come in un immenso “crowd surfing” ideal-affettivo in cui le spoglie sono trasportate da moti apparentemente browniani, tra premure di culla e involontari sballottamenti. Ma anche lo divorano gli obiettivi famelici di tv e media globali, lo masticano le parole di commentatori che misurano audience e spazi di potere lasciati scoperti.
Il corpo inerme si trasforma in icona molteplice: monumento alla memoria, simbolo di culto e pretesto per discettazione di eredità politiche, culturali e religiose.
La tumulazione nella chiesa di Santa Maria Maggiore
Tuttavia il corpo del morto, anche se rivestito di paramenti solenni e ierofantici, pur posto al centro di una grandiosa scenografia dalle millenarie risonanze, si manifesta al contempo come il massimamente indifeso, l’assolutamente esposto. Il testamento, che nel caso di Francesco riguarda esclusivamente le disposizioni per la tumulazione in Santa Maria Maggiore, è l’ultimo atto che prova a proiettare la volontà del morente nello spazio e nel tempo, successivi al suo trapasso, della totale esposizione ai sopravviventi, al cui rispetto si deve pure affidare con fede.
Da lì la voce che tace, lo shakespeariano “and then is heard no more”, si consegna totalmente alle visioni, alle parole, alle intenzioni e finanche alle intonazioni dei restanti. Dal momento dell’exitus, il corpo non appartiene più a se stesso, alla sua originaria agentività, ma a chi lo trasporta, lo smuove, lo guarda, lo interpreta, lo celebra e per ciò stesso può anche tradirne le intenzioni.
Nella immane dimensione del mondo globalizzato dai social media, il cadavere del Papa è pienamente affidato alla voracità amorevole del popolo dei fedeli ma anche ai “coccodrilli” dei giornali e alle appropriazioni indebite da parte di una classe politica ormai adusa, come argomentato dal professor Cacciari, a considerare le posizioni religiose solo se e in quanto piegabili a instrumentum regni. Infine, è consegnato agli inesausti rosari dei dibattiti sul lascito o sui lasciti, spesso decisi da parole arbitrarie che perentoriamente s’installano nel luogo del tacere. La pietas convive con la frenesia mediatica e con gli interessi tattici di chi punta a plasmare l’eredità-messaggio del defunto.
L’impatto visivo e simbolico di un corpo esanime
Dal punto di vista clinico, l’impatto visivo e simbolico del corpo senza vita agisce come trauma e come traccia: attiva la memoria emotiva, riattualizza lutti precedenti, produce fantasmi di identificazione e meccanismi difensivi. La soglia tra la pietas e la mediatizzazione, tra il dolore e la narrazione, è anche la soglia psichica tra riconoscimento e rimozione, tra elaborazione e fissazione. È qui che la clinica del lutto incontra la fenomenologia dell’evento collettivo: il cadavere del Papa diventa schermo proiettivo per una pluralità di elaborazioni, personali e transpersonali, che sfuggono a ogni sintesi e che pongono al soggetto sopravvivente – singolo o collettivo – il compito, sempre arduo, di un’elaborazione simbolica capace di trasformare l’assenza in legame, la perdita in forma.
Il cadavere, ogni cadavere, inerte e vulnerabile, si fa crocevia simbolico; si rivela come luogo in cui s’incontrano, in modo liminare, tangibilità e intangibilità.
Tangibile è il corpo morto in quanto veduto, parlato, interpretato, ricomposto; talvolta scomposto nel gesto tecnico autoptico; talaltra fatto oggetto di scempio nell’atto violento estremo del vilipendio, che istintivamente e giuridicamente si avverte come più esecrabile.
Intangibile è il cadavere nel suo essere imprendibile, non com-prensibile nella strenua resistenza opposta dal suo enigmatico apparire – ovvero apparire come non apparire più del soffio, dello pneuma che lo animava, del vento vitale che lo muoveva, agitava, agiva.
Noli me tangere potrebbe essere la figura di questa rivelazione liminare del corpo morto. Come il Cristo risorto che proibisce a Maria Maddalena di toccarlo o di trattenerlo, il cadavere è presenza-assenza, segno di un mistero che sfugge alla presa. È ciò che resta non apparendo più quella parte reputata la sua più essenziale, prossima a ciò che Minkowski chiamava élan vital. È ciò che vediamo ma non possiamo veramente ri-conoscere.
L’esposizione del corpo dopo la morte del Papa
Questa esposizione straordinaria, di cui si può fare immane esperienza nell’occasione della morte di un papa, riecheggia in toni escatologici l’esposizione e l’inermità che ogni corpo, ogni cadavere, è. Dal Pontifex Maximus all’ultimo degli uomini — ultimo non per dignità morale, ma per risonanza sociale e storica collettiva — il destino è il medesimo: l’offrirsi indifeso al proseguente vivente.
Il nascondimento delle spoglie mortali nel forziere dell’evangelico “sepolcro imbiancato” — pratica rituale che permette di “passare ad altro e oltre” — è gesto necessario per proteggere i vivi dall’insostenibile persistenza della morte. Nel momento in cui le si affonda nelle profondità della terra o le si mura in mausolei in cui variamente la presunzione si fa pietra, esse sono consegnate alla storia, alla memoria, al mito e, psicoanaliticamente, allo scongiuramento del ritorno dell’estinto.
Eppure, a ben vedere, i cosiddetti “resti mortali” rimangono lì, per l’appunto come un resto che non si fa ridurre o ammutolire del tutto.
Che si tratti di corpi in attesa di decomposizione o fissati nell’imbalsamazione, oppure di cenere, di conservazione o di dispersione, sono comunque silenziosi testimoni di ciò che sfugge al controllo della volontà di governare il mondo e il secolo.
La filosofia di Emanuele Severino
Addirittura, se seguiamo il discorso ontologico di Emanuele Severino, filosofo dell’eternità di ogni essente, pure il cadavere o il pulviscolo che lo segue sono eterni, come eterni sono il dolore, l’agonia, la passione. È il lato profondamente perturbante dell’affermazione dell’eternità e della irriducibilità dell’essere al nulla, attinta, nel caso del pensatore bresciano, non per via di fede ma attraverso il logos, non per mezzo di rivelazione ma per filosofia rigorosa.
Ma in quello stesso discorso filosofico che in modo inquietante pone pure l’eternità del cadavere, il tremendum dell’eterna solitudine del venerdì santo che ogni uomo è destinato a incontrare è altresì eternamente oltrepassato dalla pasqua che salva, dalla Gloria che da sempre lo supera e bonifica senza annullarlo.
Nella visione di Severino, mentre il moloch dell’interconnessione mediatica e l’affetto e la devozione popolare lo consumano e poi si volgono a nuove icone, il corpo, in verità, non svanisce. Rimane eternamente se stesso, anche nel silenzio del suo sottrarsi all’apparire.
E mentre i vivi continuano a parlare, a interpretare, a costruire significati, il cadavere tace, severinianamente eterno e perturbante, rammentando che la morte non è essa stessa un nulla, ma neppure, forse, la parola definitiva.