Vaso di Pandora

La terra dei mortali, l’Eterno e le piccole confessioni della perdita

Nell’approssimarsi dell’anniversario di un evento che, pur situato nella piccola biografia di chi scrive, riecheggia infinite, ignote e al contempo non sconosciute, vicende di dolore e perdita, l’espressione del singolo dolente può essere inibita da una comprensibile, e talvolta anche opportuna, auto-censura. 

Eppure, la liturgia necessitata dall’irruzione, nel tepore di stanze date per scontate, della ventata sferzante e gelida del lutto, può richiedere di superare ritrosie e pudori idiografici, per volgersi a uno spazio connesso a un’esperienza universale e alla sua testimonianza.

Nella sofferenza e nel dolore della perdita, e dunque nella sua eventificazione culminante, la morte, che è sempre incontrata come morte dell’altro, sembra infatti annunciarsi il segno di una “rivelazione”. 

Apocalissi “minori”

La rivelazione che eventi radicali di perdita sembrano tradurre nelle nostre esistenze non è gloriosa come l’apocalisse giovannea (apokálypsis, ‘disvelamento’), ma piuttosto appare scarna, non letteraria, impoetica. Talvolta ammutolente qualsiasi dire.

Tuttavia, anche nelle vicende individuali, come in ogni dischiudersi della “apocalisse della verità”, intuiamo risiedere un tratto potente, sublime e terrifico.

Con l’affacciarsi della separazione e della morte nelle nostre singole, erranti vite, appare che un certo tempo e un certo senso esistenziale non saranno più ritrovati; che quell’avvenimento – l’avvento di un senso inaudito – segnerà la distanza incolmabile da ciò che lo ha preceduto. 

Questa rivelazione silenziosa e assordante s’impone nei modi più impensati, ma accomunandoci in un unico destino. 

È una stagione, quella del dolore, che può coincidere, come oggi, con l’affacciarsi dell’estate; un’estate fredda – “tu tremi nell’estate” (Cesare Pavese) -, che affonda in un inverno gelido e trascina via giovani promettenti primavere e autunni dal tepore dolcemente declinante. 

L’estate del dolore è un tempo paradossale.

Eclissi ed esilio

Ci si ritrova davanti a un oscuramento, a un’eclissi. L’eclissi della presenza

Il sentimento corrispondente, in chi vi assiste impotente, è quello dell’esilio

Quando lo sguardo spento di chi è morto, o di chi è imprigionato in un dolore muto, sembra trapassarci o non più vederci, ci ritroviamo esiliati da quel luogo generativo in cui ci ri-conoscevamo. Oscurando quello, l’ombra oscura anche noi stessi. 

La Luna adombra il Sole e insieme proietta il suo cerchio nero sulla Terra.

Nell’oriente del mondo, l’alba non può che annunciare un inevitabile tramonto; ogni inizio non può che essere l’iniziare a finire

Quello della terra è perciò l’orizzonte del finito, di ciò che sopraggiunge e, proprio in quanto incominciante, è destinato a dileguare per fare spazio ad altri sopraggiungenti. E così fino a quando durerà la vicenda dei mortali – “Una generazione va, una generazione viene, ma la terra resta sempre la stessa. Il sole sorge, il sole tramonta e si affretta a tornare là dove rinasce” (Qoèlet 1,4-5).

Sopraggiungente e tramonto 

L’oriente della terra, congiungendosi alla linea dell’occasum, suo speculare limitare, segna il confine del cerchio finito dell’apparire – espressione tratta da Emanuele Severino, filosofo dell’Eternità, cornice e sfondo che sostanzia questi pensieri -, ovvero di quell’orizzonte in cui sorge tutto ciò che si mostra come mortale

Insieme, l’oriente del levarsi e l’occidente del declinare, individuano la terra del tramonto, spazio in cui ogni presenza si tende in un arco tra il suo sorgere, il suo imbrunire e infine il suo congedarsi. La terra del mortale.

Il tempio, il recinto sacro della ritualità, l’oriente verso cui il sacerdote, come i fedeli, si rivolge nella liturgia antica, il compiersi di ogni atto di Cura, i cicli del dissodamento e della semina, le stagioni del raccolto, sono alcuni dei solenni arredi del teatro chiaroscurale in cui si manifesta il finito, e con esso noi erranti. Ma sono anche traccia apparente di quello che Severino chiama il “Destino della Necessità”, la circondante ed eterna dimensione dell’essere che nulla può scuotere. 

Il filosofo bresciano la evoca con rigore e logica a partire dalla concezione dell’essente necessitato (condannato?) alla eternità dal suo essere ciò che è e non poter essere altro da sé. Che al contempo svela il divenire non come evidenza ma come fede, impossibile commistione di essere nullafolle equivalenza di ente niente.

Rappresentazione e irrappresentabile

Ma questa verità, che nella filosofia può darsi come logos e nella poesia come figura, nella psiche s’inscrive come ferita. La perdita dell’altro significativo – di chi era volto, voce, gesto familiare, non solo per la sua fine biologica ma per ogni evento che lo fa svanire in qualche bruma misteriosa – non è solo una circostanza biografica, ma frattura interiore: incrina il campo della stessa rappresentabilità, mette a rischio il senso di coerenza e di continuità del sé.

Il dolore, quando s’impone nella sua scarna nudità, può sospingere verso “stati-limite”: l’assenza di parola, l’afasia emotiva, la paralisi depressiva o la dominanza di difese rigide – il controllo ossessivo, il rifugio anoressico, la scissione.

Non si tratta solo di uno stato affettivo, ma di un campo psichico in cui si gioca la possibilità stessa di sopravvivere come soggetto. Il lutto è processo psichico: ritiro e reinvestimento, distacco e memoria, dolore e simbolizzazione. Ci misura con il limite, jaspersiana cifra della trascendenza, rimando all’oltre per restare nella vita. 

Quando invece il lutto non si dà, o si interrompe quella che dovrebbe essere la sua visita metamorfica e rivelativa – come quella di un arcangelo nunziante -, il dolore resta un vuoto non pensabileelemento beta (Bion) che invade, pietrifica e ostacola nuove apparizioni. 

La perdita non elaborata diviene morte introiettata, ombra che si proietta poi sulla vita e sulla parola. E talora, appunto, nel sintomo: nell’impasse melancolica, nel congelamento del desiderio, nel fallimento dello stesso pensiero.

Perdita e ri-generazione

Come declama ieraticamente Hölderlin in Patmos, “dove è il pericolo, cresce/ anche ciò che salva”, forse riecheggiando il sovrabbondare della grazia al culmine del peccato della Lettera ai Romani di San Paolo: nel cuore di questo sprofondo si apre una possibilità. 

Sia l’Apostolo delle genti che il poeta della fuga degli dèi non predicano semplicemente che dopo il male o il pericolo venga la salvezza, ma che lì, nel luogo stesso in cui si concentra la minaccia, si annidi anche il destino del suo oltrepassamento. 

Questo co-implicarsi del limite e del suo trascendimento – un Per me si va dantesco che tuttavia si situa qui – richiama figure mitiche e filosofiche: la coincidentia oppositorum, il pharmakon (amuleto o veleno), il concetto eracliteo di enantiodromia (“corsa nell’opposto”), ripreso da Jung, e infine il simbolo cristiano della croce come scandalo e insieme fonte di redenzione.

La perdita, se attraversata, se calice amaro bevuto fino in fondo, può divenire spazio generativo. Il dolore può farsi parola, immagine, memoria, come nella poesia, nel rito, nella scrittura. 

Così, l’anima (psiché) ferita può trovare una via per trasfigurare l’assenza; per darle forma; per intrecciare il tempo finito del mortale con il tempo eterno dell’essere.

La morte come apparire del non-apparire più 

Ogni uomo e ogni donna che si sono congedati dalla presenza visibile nel cerchio dell’apparire finito, non s’inabissano in un oceano di nulla, ma solo si sottraggono allo sguardo di quelli che ancora “corrono sulla stessa vecchia terra” cantata dai Pink Floyd in “Wish you were here”.

Coloro che ci hanno lasciati non sono degli assenti, sono solo degli invisibili: tengono i loro occhi pieni di gloria puntati nei nostri pieni di lacrime”; così Sant’Agostino.

Non più delimitato in un arco teso tra l’alba e il tramonto, è l’apparire infinito, come l’ha pensato Severino, laddove non più si sopraggiunge né si dilegua; dove si sta

I nostri morti ci aspettano. Ora sono degli Dèi. Per ora stanno fermi nella luce. Come le stelle fisse del cielo” (“Il mio ricordo degli eterni”, Emanuele Severino). 

Luce delle stelle

Così, con animo sospeso sulla soglia, ci avviciniamo ai nostri sepolcri, alle nostre piccole ricorrenze e ai loro echi, affettivi e simbolici. 

Le nostre storie “minori” s’intrecciano nella processione infinita delle apparizioni umane del dolore.

Le stelle che punteggiano la volta celeste sopra di noi e che sembrano richiamare l’epitaffio della tomba di Immanuel Kant, ci rammemorano che quegli astri, invisibili di giorno, s’accendono ancora incerti nel crepuscolo della sera e si definiscono nella notte nera, potendo solo nel buio scintillare i loro fuochi lontani. 

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Commenti su "La terra dei mortali, l’Eterno e le piccole confessioni della perdita"

  1. Azzardo un commento solo su due punti. Certo, sperimentiamo la morte solo come morte dell’altro. Vivere la nostra non solo è di fatto impossibile, ma anche logicamente inconcepibile: dire “io non sono” non ha senso, è contraddizione in termini. Quindi lo ritocchiamo in un “sono da qualche altra parte”, non insieme ai viventi. Da qui l’immarcescibile mito dell’immortalità, nelle varie forme – resurrezione, paradiso, metempsicosi – proposte dalle religioni, o in modi più grossolani dai vari occultisti. Nell’altro mondo, non temiamo più la morte: è già avvenuta, è con noi, la conosciamo e controlliamo.
    Kant: al cielo stellato contrapponeva la legge morale dentro di noi: la sola parte di noi dotata di paragonabile immutabilità e incorruttibilità. Morte e legge morale: si incontrano in quello che è forse il più importante (e trasgredito) dei comandamenti:. non ammazzare.

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  2. Quello che ci offri, Gaetano, mi pare un intreccio tra poesia e pensiero, sentimento e impegno filosofico a chiarire fino al limite del possibile. Forse quanti si dedicano ad affinare l’ascolto profondo, anche quando il dialogo diviene solo interiore, tuttavia desiderano comprendere e umanamente interrogarsi sull’enigma dell’esistenza così sostanzialmente proprio dell’uomo.

    Rispondi

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