Vaso di Pandora

La sorpresa di “Una piacevole sorpresa”

In data 17 maggio 2023, nell’articolo “Una piacevole sorpresa” redatto su questa stessa rivista, ho avuto modo di leggere, inaspettatamente, le impressioni e le riflessioni riportate “a caldo” dal Dott. Andrea Narracci, cofondatore e attuale presidente del Laboratorio Italiano di Psicoanalisi Multifamiliare (LIPsiM), successive alla sua visita presso la Polisportiva CBFGroup. Si tratta di un’Associazione dei Castelli Romani che promuove, tra le varie attività, un Progetto inclusivo in ambito sportivo su Basket e Autismo, dal nome Viaggiatori a Canestro, (a sottolineare che siamo tutti viandanti -versus devianti- sul sentiero della vita), del quale sono responsabile e cofondatrice in qualità di psicologa e psicoterapeuta.

A febbraio scorso infatti, a termine del Master biennale in Psicoanalisi Multifamiliare frequentato presso la LIPsiM, ho presentato un elaborato che propone di applicare il dispositivo di psicoanalisi multifamiliare a gruppi di famiglie in cui è presente un soggetto con autismo (e/o altra tipologia di disabilità complessa), congiuntamente alla presenza dei caregivers, formali o informali, e delle altre persone coinvolte a vario titolo nella sfera di vita delle famiglie stesse.
La stesura presentata a conclusione del ciclo formativo, argomenta come il Gruppo di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF) possa essere un valido dispositivo per intercettare e sostenere il processo evolutivo complesso di una famiglia con tali caratteristiche. L’ipotesi fondante, portata avanti nel lavoro, è che gli spazi di incontro a matrice multifamiliare possano sostenere e promuovere dinamiche di interdipendenza sana tra i membri dei nuclei familiari, in special modo nel corso dei passaggi di fase critici del <ciclo di vita>. Gli incontri di PM avrebbero la funzione di intercettare la nascita e/o di impedire la strutturazione di interdipendenze disfunzionali, favorendo l’instaurarsi di quelle che Jorge E. Garcia Badaracco (1997) definisce <interdipendenze trofiche o normogeniche>, allo scopo di sostenere processi evolutivi che promuovano “crescita”.

Ma l’intento di questo breve scritto oggi non è quello di presentare la proposta progettuale, già argomentata nel corso della sessione specifica, bensì di enfatizzare il valore metacomunicativo della testimonianza “Una piacevole sorpresa”, che, a mio avviso, sollecita, “promuove” (nel senso letterale del termine “andare verso”) e invita ad esplorare, fattivamente “sul campo”, le possibili applicazioni della PMF anche al di fuori dei contesti istituzionali.
Nel corso del Master l’attuale presidente della LIPsiM aveva già manifestato una curiosità, così come qualche perplessità, per questo progetto (e forse non è un caso che proprio in questo momento, mentre scrivo, mi viene in mente il famoso detto: “If mountain will not go to Mohammed, Mohammed must come to the mountain”). Un progetto complesso che, oltre ad essere oggettivamente impegnativo e sfidante (nell’offrire ai ragazzi con diagnosi di autismo l’opportunità di fare un’esperienza di sport di squadra nella quale i valori quali l’impegno, i piccoli traguardi, la dedizione, la goliardia, il lavoro di gruppo ecc. diventano strumentali nel sostenere i bisogni evolutivi di questi ragazzi), si rivela un prezioso luogo di Incontro e Scambio, spontaneo e informale, tra i nuclei familiari coinvolti.
Più volte, nel corso della formazione, abbiamo avuto modo di condividere le potenzialità di questa complessità, fino a quando un giorno Andrea è venuto ad osservare direttamente lo svolgimento di una tipica sessione di lavoro del sabato mattina, che si sviluppa e articola su quattro momenti (qui elencati in ordine temporale di svolgimento):

  • Riunione di “briefing” pre-allenamento con i ragazzi dell’alternanza scuola-lavoro coinvolti nel progetto (che in qualità di peer educator, affiancano i ragazzi con autismo nel corso degli allenamenti);
  • accoglienza degli atleti e dei loro genitori a inizio allenamento (sia da parte dei peer educator che degli psicologi che degli allenatori);
  • sessione di allenamento, durante la quale i genitori sono invitati a “non essere presenti”, al fine di lasciare maggiore libertà di movimento agli atleti (“prescrizione” che, come vedremo, non tutti i genitori accettano di buon grado, in quanto vissuta talvolta come ostacolo che si interpone nella relazione (legame?) tra sé e il figlio);
  • riunione di “debriefing” post-allenamento con i peer educator (ed eventualmente, quando/se necessario, restituzioni mirate ai genitori su dinamiche specifiche, meritevoli di attenzione, che si sono venute a creare nel corso degli allenamenti).

L’autore di “Una piacevole sorpresa”, riferendosi ad un episodio avvenuto nel corso della sua “visita” mattutina, si esprime così:

“Nel corso dell’azione appena descritta, si è anche verificato un episodio direi emblematico del tipo di problemi che si verificano in queste situazioni. Il ragazzo autistico meno in grado di eseguire i movimenti coordinati con il suo partner al pari degli altri, ad un certo punto ha ulteriormente rallentato i suoi già difficili movimenti.
Una delle due coordinatrici si è prontamente affiancata a lui e al padre che aveva già raggiunto il figlio; ha cercato di rincuorare il ragazzo e gli ha chiesto che cosa preferiva fare: se seguitare a restare e fare quello che si sentiva oppure se preferiva interrompere l’allenamento e tornare a casa. A quel punto il ragazzo ha risposto che preferiva restare ma il padre ha deciso che il figlio si stava stancando troppo e che era meglio se tornavano a casa.
A conferma che le preoccupazioni dei genitori a proposito dei pericoli che possa correre un figlio autistico che si sforzi di seguitare a far parte del gruppo dei pari, anche se non con poche difficoltà, possono facilmente aver ragione dello sforzo del figlio a cui non resta che la possibilità di accettare la decisione conservativa del genitore, anche se a malincuore.
Ora il proposito è quello di arrivare ad ipotizzare l’apertura di un gruppo di riflessione che comprenda i pazienti, i familiari e gli operatori, proprio allo scopo di avviare una verifica sulla definizione di quale sia il limite a cui un ragazzo con difficoltà autistiche possa avvicinarsi o meno. In particolare, se la misura del limite vada presa tenendo conto delle esigenze di entrambi: genitore e figlio o se, viceversa, sia sempre meglio avere come unico punto di riferimento l’ansia del genitore rispetto ai pericoli che può correre il figlio”.

È ancora impressa nella mia mente la scena succitata: da una parte l’atleta che, alla richiesta dello psicologo se preferisse continuare o meno l’allenamento, risponde con il suo linguaggio stentato e abbassando lo sguardo, di voler rimanere in palestra; dall’altra il padre che, interponendosi fisicamente tra l’operatore ed il figlio, “corregge” la risposta di quest’ultimo, affermando che “in realtà il ragazzo è stanco e quindi è meglio rientrare a casa” (il giovane atleta uscirà dalla palestra a testa bassa dando un ultimo sguardo ai compagni). Ricordo con chiarezza la dinamica relazionale che si è manifestata in quel frangente ai nostri occhi (e che abbiamo poi commentato a posteriori): una relazione padre-figlio, “comprensibilmente protettiva” (?!), che diventa vincolante per il figlio stesso. Il papà, quando realizza che il ragazzo non è in grado di svolgere compiutamente gli esercizi come il resto del gruppo, entra in ansia, diventa intollerante, comunicando chiaramente la sua propria difficoltà ad accettare una situazione in cui si evidenzia un gap di competenze (in questo caso cestistiche) tra il figlio e gli altri compagni, finendo per con-fondere il proprio disagio con i vissuti del figlio (che tra l’altro in altre situazioni aveva già dimostrato di saper gestire e tollerare sufficientemente bene, rivelandosi occasioni di apprendimento importanti).

 Un episodio emblematico di come la presenza di un figlio con una disabilità complessa, in questo caso autistica (tipicamente nota ai più per la tendenza dei soggetti all’isolamento) possa aumentare il rischio che tra i familiari si possano innescare interdipendenze che possono ostacolare invece che favorire la crescita e lo sviluppo dei figli stessi. Interdipendenze che potrebbero portare, come direbbe Boari (2011),<ad una dipendenza infantile permanente più di quanto sia strettamente necessario> interponendosi di fatto ad una <mutua dipendenza, vantaggiosa per ogni componente> tipica della condizione di <salute mentale> (Garcia Badaracco, 2004).

Va da sé che nei contesti familiari in questione, gli individui che hanno vissuto a loro volta relazioni vincolate e vincolanti sono portati ad essere più esposti a situazioni di interdipendenza disfunzionale o patologica in una condizione in cui sono tenuti, per tutto il ciclo di vita, a porsi in relazione continua con la limitazione, l’handicap (situazione di svantaggio), la dipendenza, il vincolo.

Per concludere, tornando alla “visita”, il fatto che il presidente della LIPsiM quel sabato mattina sia “sceso in campo” con noi (sia in senso letterale che metaforico), può forse essere considerato, mi piace pensare così, un messaggio di apertura che “strizza l’occhio” all’intento di militanza sul territorio del progetto stesso. In proposito mi torna in mente un’affermazione letta qualche anno fa (tra l’altro determinante rispetto alla personale scelta di avvicinarmi alla PM):

<Dopo cinquant’anni di pratica, iniziata in contesti istituzionali, la psicoanalisi multifamiliare si è resa indipendente dalle istituzioni, e può essere applicata in qualsiasi ampio gruppo di persone riunite a costituire una mini società (Badaracco, Narracci, 2011, p.16).
Nel corso della formazione sulla PM ho avuto modo di riscontrare una certa sintonia tra la metafora del progetto Viaggiatori a Canestro, “viandanti (versus devianti) sul sentiero della vita”, e quella del “grande fiume” scelta da Badaracco & Narracci (2011, p. 186) per rappresentare il dispositivo di PM. Un corso d’acqua apparentemente non navigabile (o difficilmente navigabile), che diventa transitabile stando insieme (nel quale ogni viandante ha l’assoluta libertà di potersi fare il bagno e di nuotare in qualsivoglia stile e velocità, di fermarsi su una sponda a riposare e guardare gli altri passare, di salire su un’imbarcazione o ancora di percorrere eventuali emissari od immissari [percorsi terapeutici individuali, percorsi educativo-scolastici, riabilitativi, di sostegno, percorsi di training genitoriale e quant’altro con i quali i membri del sistema familiare interagiscono o hanno interagito], che contribuiscono a rendere navigabile il fiume stesso).
Condividere un luogo <contenitore> sempre presente (Badaracco, 2004, p. 42), nel quale siamo tutti <viandanti> (Bertini, 2012), dove potersi incontrare e <poter affrontare la sfida del (possibile?) “cambiamento psichico”> (Badaracco, 2004, p. 49).

La “visita” così come “Una piacevole sorpresa” hanno certamente rinforzato in me l’intento di provare a transitare il “grande fiume” insieme ai Viandanti. I tempi sono maturi?

Note Bibliografiche
1

Badaracco J.G. (1997) La comunità terapeutica psicoanalitica di struttura multifamiliare. Franco Angeli

2

Badaracco J.G. (2004) Psicoanalisi Multifamiliare. Bollati Boringhieri

3

Badaracco, Narracci (2011) La Psicoanalisi Multifamiliare in Italia. Antigone Edizioni

4

Bertini M. (2012). Psicologia della Salute, dal deviante al viandante. Cortina, MI

5

Boari, D. e Pon, O. I. (2011). En los limites de lo possible. Buenos Aires: Ediciones

6

Boari, D.. Psicoanalisi Multifamiliare: Relazione sulla Teoria della Malattia e della Cura (Buenos Aires, Argentina)

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Commenti su "La sorpresa di “Una piacevole sorpresa”"

  1. Interventi come questi sono importanti, e particolarmente in situazioni che, in questo caso di tipo autistico ma anche in quelle di ritardo cognitivo, hanno inizio precoce. Queste infatti mettono a dura prova l’immagine di sè come genitori (ancor più degli stati psicotici che colpiscono un adulto, quindi suscettibili di essere difensivamente vissuti come disgrazie in qualche modo subentrate dall’esterno, magari tramite qualche droga).
    Il riprodurci infatti è in qualche modo una speranza di immortalità, se non della nostra persona almeno dei nostri geni che ci sopravviveranno, al limite per sempre. Il mito di Matusalemme con la sua incredibile longevità nasce dal credere che la sua personale identità si trasmetta nelle generazioni.
    Dunque, un grave e protratto malessere mentale del figlio ci riguarda particolarmente da vicino, poichè oltre che fonte di dolore è una ferita narcisistica mal tollerabile: “Sarà una cosa ereditaria? L’ho trasmessa io? E’ colpa mia? Ho sbagliato qualcosa? Ma che cosa?”
    I meccanismi di difesa possono essere tanti: non raramente, di tipo ipoparanoicale e/o di onnipotenza: il sentirsi unico difensore del figlio contro un mondo cattivo (che colpisce, tanto per dire, anche con i vaccini); e/o unico a capirlo veramente, meglio dei pretesi competenti ben intenzionati , come nel caso che Valeria Grillo ci mostra.

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