Vaso di Pandora

“La solitudine dei non amati”: viaggio autentico nella fragilità (e nella forza) di una donna abbandonata

Ci sono film che non si limitano a raccontare una storia: ti si infilano sotto pelle, ti costringono a fare i conti con le tue stesse crepe. “La solitudine dei non amati”, della regista norvegese Lilja Ingolfsdottir, è uno di questi. Non è la classica pellicola da domenica sera: qui si entra in punta di piedi nella quotidianità di Maria, una donna che, come tante, si barcamena tra la maternità, il lavoro che rischia di sfuggirle di mano, e un marito (Sigmund) sempre più distante, non solo fisicamente.

La trama, all’apparenza semplice, è la vita vera: Sigmund torna da uno dei suoi viaggi di lavoro e, in una sera qualunque, tutto si rompe. Le incomprensioni, la rabbia, i non detti, fatti che, come psichiatra, sento molto spesso nei racconti dei pazienti. Maria si ritrova sola, a raccogliere i cocci di una relazione e di un’identità che sembrava solida solo fino a ieri.

Quando la separazione ti costringe a guardarti dentro (e non è mai un bello spettacolo)

La separazione, per Maria, non è solo la fine di un amore: è uno spartiacque. Quello che il film racconta, con una delicatezza quasi spietata, è il viaggio dentro le proprie fragilità. E qui, lo ammetto, ho rivisto tanti volti che ho incontrato in ambulatorio: donne (e uomini) che, dopo una rottura, si trovano a fare i conti con paure antiche, con ferite che sembravano cicatrizzate e invece sono lì, pronte a riaprirsi.

Maria non può sottrarsi dal ripercorrere il suo passato, soprattutto il rapporto con la madre e con la figlia maggiore. Quella sensazione di “non essere abbastanza”, che spesso si annida tra le pieghe delle nostre storie familiari, qui diventa materia viva. È un percorso doloroso, ma anche generativo: perché solo attraversando quel dolore, Maria inizia a scoprire una forza che forse non aveva mai conosciuto davvero.

“La solitudine dei non amati”: la terapia come coperta

C’è una scena, nel film, che mi ha colpito più di tutte: la terapeuta che porge a Maria una coperta e la invita a sdraiarsi, senza parole, solo per sentirsi protetta. Quante volte, in studio, mi sono trovato a fare qualcosa di simile? Nessuna tecnica miracolosa, nessuna soluzione pronta: solo presenza, ascolto, spazio per il dolore. È la psicoterapia come la insegnava Carl Rogers: accoglienza incondizionata, senza giudizio. O come direbbe Winnicott, la possibilità di sperimentare un “posto sicuro” dove tornare a respirare.

Non si tratta di “aggiustare” Maria, ma di accompagnarla mentre ricuce i fili della sua storia. E vi assicuro che, nella pratica clinica, è spesso questo il momento in cui avviene la vera trasformazione: quando il paziente si sente visto, accolto, non più solo.

Un film che sembra una seduta di terapia (ma senza divanetti scomodi)

La regista sceglie di togliere la musica, di lasciare spazio ai silenzi, ai primi piani che quasi ti mettono a disagio. È come se volesse costringerci a restare dentro le emozioni di Maria, senza distrazioni. Mi sono ritrovato a pensare alle mie sedute più difficili, quando il silenzio pesa come un macigno ma è proprio lì che si muovono le cose più importanti.

Questa scelta stilistica trasforma la sala cinematografica in una sorta di stanza di terapia collettiva: lo spettatore non può limitarsi a guardare, deve sentire, deve lasciarsi toccare. E non è facile, ve lo garantisco: anche a me, che di storie difficili ne ascolto ogni giorno, alcune scene hanno lasciato il segno.

La bambina interiore e la guarigione “imperfetta”

Il finale è una carezza ruvida: Maria non si “aggiusta”, non diventa una versione perfetta di sé. Ma riesce a ristabilire un legame con la sua bambina interiore, con quella parte fragile che spesso, da adulti, cerchiamo di nascondere sotto strati di efficienza e controllo. È un messaggio che porto spesso in terapia: non si tratta di eliminare il dolore, ma di imparare ad accoglierlo, a dargli un senso. Viktor Frankl lo diceva meglio di chiunque altro: il senso si trova anche (e soprattutto) nella sofferenza.

Per chi è “La solitudine dei non amati”? Per chi ha avuto il coraggio di rompersi (e di ricomporsi)

Consiglio “La solitudine dei non amati” a chiunque abbia sentito, almeno una volta, la fatica di tenersi insieme mentre tutto sembra sgretolarsi. Non aspettatevi risposte facili: qui si abita la vulnerabilità, quella vera, che fa paura ma è anche l’unica strada per scoprire una forza nuova, più autentica.

Mi piace pensare che sia proprio nelle crepe dell’anima che la luce trova spazio per entrare. E forse, come succede spesso anche in terapia, la vera bellezza nasce quando smettiamo di difenderci a tutti i costi e impariamo, finalmente, a sentirci. Senza vergogna, senza filtri. Solo così, a modo nostro, si ricomincia davvero.

Se dopo il film vi viene voglia di chiamare la vostra terapeuta, fatelo. Non c’è niente di male nel chiedere aiuto quando serve. E se siete di Genova e mi vedete camminare assorto tra i vicoli o sul lungomare, sappiate che anche io, ogni tanto, mi sento come Maria: fragile, ma ancora capace di ricompormi, un pezzo alla volta.

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