Vaso di Pandora

La sinergia tra psichiatra, paziente e famiglia per la cura del disturbo bipolare

Nel 1973, quando ho seguito la lezione di Psichiatria all’Università di Roma, il disturbo bipolare veniva presentato nello stesso modo di come è stato presentato recentemente in un articolo de Il Corriere della Sera. L’unica differenza è costituita dal fatto che, allora, si chiamava psicosi maniaco depressiva, cioè come la aveva descritta Kraepelin agli inizi del secolo scorso.

L’approccio della psichiatria

La psichiatria non si smentisce: descrive le sindromi, cioè gli insiemi di sintomi di cui si occupa in maniera invariata. Purtroppo non è in grado di fare altro se non di emettere una diagnosi in base a quello che vede. A proposito della domanda: perché si verificano in una persona dei sintomi e in un’altra no, non è in grado di rispondere. Per cui preferisce non toccare l’argomento, al contrario di quello che fa la medicina che, in genere, prova a formulare delle ipotesi esplicative dei fenomeni patologici di cui si occupa e, se non è in grado di farlo, ammette di non esserlo.

La psichiatria si sente superiore: non dice nulla se non fare riferimento a delle pretese componenti genetiche di cui nessuno però, tutt’ora, può parlare in termini scientifici.

Sono cinquanta anni che aspetto che vengano scoperte le cause genetiche, che vengono date per sicure anche in questo articolo. Peccato che poi non vengono fornite. Dimenticando che la genetica, nel frattempo, dalla fine del secolo scorso, ha ammesso che l’ambiente modifica in maniera significativa il corredo genetico di una persona.

L’epigenetica

Pertanto l’aspetto che conta di più è dato da quale sia il contesto in cui le persone crescono e non di quale corredo genetico dispongano al momento della nascita. In poche parole: l’epigenetica.

Il fatto grave è costituito dal fatto che queste cose non vengono dette e, viceversa, si fa credere il contrario: che ci sono delle prove scientifiche che dipenda dalla genetica e non da altri fattori.

Ma perché gli psichiatri non provano a farsi delle domande? Perché seguitano a raccontare che, per es. il disturbo bipolare fa parte della schiera di disturbi a base organica di cui, però, tutt’ora, non c’è nessuna conoscenza scientifica?

L’utilizzo dei farmaci

I farmaci che vengono usati sono sempre gli stessi: ma anche qui, perché non viene detto che sono farmaci sintomatici e non in grado di contrastare le cause da cui dipende l’insorgere della malattia?

In psichiatria, i farmaci sono sintomatici, come la tachipirina che devo prendere se ho la febbre, non come gli antibiotici se ho la polmonite, che sono in grado di interferire con la causa della malattia.

Perché non viene detto anche se tutti capiscono che non sono risolutivi: i pazienti, i familiari e gli operatori? Il pericolo è che si venderebbero di meno. Non credo.

Io penso che i farmaci in psichiatria vadano usati, per bene, ma usati. Sono utili e necessari, però non risolvono. E allora, perché raccontare che sono risolutivi?

Come affrontare il disturbo bipolare

Io penso che sarebbe più serio dire che quando accadono ad una persona una serie di fatti che possono far pensare che abbia un disturbo bipolare, è bene usare i farmaci giusti per la fase della malattia attraversata in quel momento dal paziente ma, contemporaneamente, va avviato un processo che permetta di provare a capire da che cosa dipenda quello che gli sta accadendo.

Penso che l’unica possibilità per evitare che si verifichino situazioni nuovamente molto difficili, sia in senso depressivo che maniacale, sia di costruire una situazione che possa permettere di giungere a delle ipotesi esplicative del perché quella persona sia giunto a fare quello che ha fatto.

Perché oggi disponiamo di una serie di conoscenze di cui non disponevamo cinquanta anni fa.

Non è un caso che dica andarlo a cercare, prima di poterlo scoprire, perché si tratta di creare una situazione in cui le persone possano trasformarsi da oggetto di intervento a soggetto della propria trasformazione.

Perché questo accada, è necessario che il tecnico, in primis lo psichiatra, modifichi radicalmente la sua posizione: passando da essere la persona che ritiene di sapere ad essere quello che rende possibile alle persone: pazienti e familiari, di mettersi alla ricerca insieme a lui.

La sinergia tra psichiatra, paziente e famiglia

Non è un caso che parlo di pazienti e familiari perché la storia delle discipline e, conseguentemente, dei trattamenti nei confronti dei pazienti psichiatrici gravi, ha coinvolto con sempre più convinzione i familiari dei pazienti in questo impegno.

Cercherò di spiegarmi brevemente: per molto tempo si è pensato che i problemi psichiatrici più gravi di cui soffrono le persone malate, i cosiddetti pazienti psicotici, fossero differenti da quelli di cui soffrono quelli meno gravi, i nevrotici.

La psicoanalisi ha una responsabilità importante in merito, perché ha stabilito che dei nevrotici fosse possibile risalire alle cause psicologiche che ne avevano determinato l’insorgenza, mentre che per gli psicotici questo non fosse possibile: cioè ha sancito che dovevano essere delle anomalie a livello biologico, con o senza base genetica, a determinare le psicosi che, pertanto, non potevano essere curate psicologicamente.

In realtà, nell’opera di Freud hanno sempre convissuto due pareri: che i traumi a cui le persone fossero esposti fossero stati vissuti in fantasia, nei nevrotici che, quindi, potevano essere curati, mentre nelle situazioni in cui traumi e lutti non elaborati erano avvenuti nella realtà avevano prodotto effetti così devastanti da portare alla psicosi.

Oggi si sa che i traumi e i lutti non elaborati che sono alla base delle sofferenze delle persone che poi soffrono di psicosi, sono stati vissuti nella realtà, che il meccanismo di difesa più usato è la scissione e, quindi, la dissociazione, cioè un meccanismo di difesa che rende non vissuti gli avvenimenti dolorosi.

Ed è altresì noto che a viverli possono non essere soltanto i pazienti, ma anche i genitori o addirittura membri della stessa famiglia appartenenti a generazioni precedenti, in quanto l’emozione/i negativa/e collegata/e all’evento doloroso può/possono essere passata/e da una generazione all’altra.

La cura del disturbo bipolare

Come dicevo poc’anzi, in questi cinquanta anni sono accadute molte cose non soltanto nel mondo della psicoterapie, anche in quello delle neuroscienze, che hanno modificato radicalmente il campo dei disturbi psichiatrici gravi: come li pensiamo e, soprattutto, come pensiamo di curarli.

Oggi esistono ipotesi esplicative attendibili e specifiche che possono essere usate, facendo attenzione, senza limitarsi esclusivamente a controllare farmacologicamente la situazione.

Il disturbo va affrontato con i farmaci e reso inoffensivo ma, contemporaneamente, va avviato una riflessione con il paziente e la famiglia per intessere una tela che sviluppi la possibilità di ricostruire tempi e modi in cui le contingenze negative della vita hanno influito sugli assetti iniziali vulnerabili dei futuri portatori di questo tipo di disturbi.   

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