Tre anni fa, il dott. Pietro Zolli, responsabile del Centro di Salute Mentale di “Maddalena” a Trieste, mi invitò per conoscere da vicino i Gruppi di Psicoanalisi Multifamiliare (GPMF) e permettere di farsene un’idea ai suoi colleghi, di ogni ordine e grado.
Io mi sentii molto onorato per l’invito per il significato che questa richiesta proponeva: che anche a Trieste, il luogo in cui la Riforma Psichiatrica voluta da Franco Basaglia aveva trovato la sua applicazione più corrispondente alla volontà del suo illustre promotore, gli operatori avvertivano la necessità di tessere un rapporto nuovo con i membri della popolazione direttamente coinvolta con la malattia mentale grave: i pazienti, i familiari e gli operatori.
L’idea iniziale del dott. Zolli
Credo che, inizialmente, l’idea che aveva guidato il dott. Zolli e i suoi collaboratori, sostenuti dal dott. Trincas, in quel momento direttore del DSM, che aveva avuto modo di conoscere e apprezzare i GPMF a Cagliari, fosse quella di entrare nel merito dei rapporti tra la popolazione, in particolare i pazienti e i loro familiari e gli operatori dei Servizi di Salute Mentale.
A distanza di tre anni, posso dire di aver visto crescere nel tempo l’interesse per i GPMF e di aver assistito e sostenuto l’apertura di un GPMF in ognuno dei tre CSM di Trieste, con letti al loro interno e in quello di Monfalcone, nonché di avere saputo che due giovani colleghi hanno intenzione di aprire il GPMF anche nel quarto CSM di Trieste.
La percezione dei Triestini
A questo punto, mi viene da pensare che a Trieste la popolazione sia stata messa a dura prova dalla Chiusura del Manicomio e dall’apertura dei Servizi Territoriali, con annessi posti letto in cui potevano essere ricoverati i pazienti, in caso di bisogno, in alternativa al ricovero in Ospedale, presso il Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura.
A me sembra che la popolazione potrebbe aver vissuto l’istituzione dei letti nei CSM, in cui i pazienti potevano essere accolti, come un’ulteriore testimonianza dell’idea che i pazienti, come prima dovevano essere salvati dall’ingiusta detenzione in Manicomio, ora che il Manicomio non c’era più, comunque potevano ricorrere ad essere accolti in un luogo in cui gli operatori preposti alla loro salvaguardia, fossero in grado di tenerli lontani dai parenti.
Insomma, mi sono chiesto se questa misura, salutata come un grande risultato, anche se poi non si è diffusa nel territorio nazionale come i suoi Autori Triestini avrebbero auspicato, non sia stata vissuta dalla popolazione come la riproposizione di uno schema di lettura, apparentemente arbitrario e che non teneva conto della complessità della problematica che cercava di affrontare. Secondo quel modo di vedere le cose, i figli andavano protetti e capiti e, di questo, i genitori dovevano farsene una ragione, perché in fondo se i figli stavano male pure adesso che il Manicomio non c’era più, forse loro qualche cosa c’entravano, tanto più che, poi, al CSM, da soli con gli operatori, i figli, in breve tempo, stavano meglio.
Io penso che tutto ciò abbia contribuito a rendere il clima difficile e a condurre gli operatori alla ricerca di una misura che potesse consentire a loro di “riaprire” un dialogo costruttivo con la popolazione, in genere e con i genitori dei pazienti, in particolare.
Il riscontro positivo della psicoanalisi multifamiliare
A me sembra che l’ipotesi formulata dagli operatori sia risultata valida, a giudicare dal riscontro positivo dell’introduzione dei GPMF nei CSM cittadini e di Monfalcone.
Io penso che gli operatori avessero bisogno di riuscire a superare la lunga fase in cui al disagio dei genitori, in particolare e dei familiari, in genere, si avesse avuto la capacità di rispondere con la costituzione di gruppi per i genitori che, purtroppo, si erano rivelati soltanto dei luoghi in cui i genitori potessero sfogarsi della loro sfortuna e da cui trarre il sostegno necessario per rinvigorire la protesta “che non si facesse mai abbastanza”.
L’importanza della presenza di genitori e familiari
Viceversa, è particolarmente importante che i genitori e i familiari in genere siano recuperati nello schieramento di chi si cimenta alla ricerca di capire che cosa è successo, come è che proprio quella persona, in quel momento della sua vita abbia incontrato delle difficoltà, come è che quelle difficoltà si siano manifestate proprio in lui, che, forse, questo fatto merita di un’ipotesi esplicativa un po’ più approfondita e circostanziata.
Questo difficilmente emerge in un quadro in cui seguitiamo a supporre che quelle difficoltà siano l’inizio di una malattia che sta tuta dentro quella persona, che, forse, le cose sono ben più complicate e che non si tratta soltanto di contenere e attenuare la sintomatologia ma, soprattutto, di cominciare a cercare di capire: che questo lavoro va fatto tutti insieme, sia dal paziente e dagli operatori, sia dai familiari, che non sono soltanto spettatori generalmente insoddisfatti di come gli operatori pretendono di risolvere la questione, ma che sono parte in causa.
E non con lo scopo di attribuire colpe o responsabilità ma di contribuire alla comprensione se tutto quello che hanno fatto, oltre a corrispondere ad un atto d’amore, pur nella sua intenzionalità positiva, abbia potuto produrre effetti che mai si sarebbe voluto che si verificassero, ma che si erano verificati.
Il percorso che ognuno può effettuare nel corso di un GPMF è lungo e difficile: può, nella migliore delle ipotesi, portarlo a rimettere in discussione le certezze a cui aveva fatto riferimento fino a poco tempo prima e questo fatto può innescare una serie di ripensamenti che coinvolgono tutti i partecipanti.
La costituzione di un gruppo di lavoro
Tutto ciò spinge per la costituzione di un “gruppo di lavoro”, cioè di un gruppo di persone che si apre alla possibilità del ripensamento e della rielaborazione del passato, rivolto non tanto a stabilire chi avesse ragione o torto o, peggio ancora, di chi fosse la colpa, ma perché si fosse verificata quella incomprensione, quel fraintendimento, che cosa avesse comportato e, soprattutto, che cosa può fare ciascuno dei partecipanti perché la situazione, da oggi in poi, si modifichi in senso positivo.
Come si diceva, cammino difficile, irto di difficoltà, ma percorribile se gli operatori in primis abbandonano l’atteggiamento di “chi pensa di sapere” e assume l’atteggiamento di chi si mette alla “ricerca di capire”.
Vamos a aprender
Jorge Garcia Badaracco soleva ripetere, prima dei gruppi: “Vamos a aprender”.
Questa frase mi lasciava sbigottito, inizialmente. Pensavo, tra me e me, che finalmente mi pareva di aver trovato un professore che le “aveva provate tutte”, che in una mattinata era stato in grado di riassumere un secolo di tentativi di usare il patrimonio psicoanalitico per curare la psicosi ma che, sul più bello, mi proponeva di non avere nessuna certezza, che l’atteggiamento che avrei dovuto prendere fosse contraddistinto dalla disposizione a prendere in considerazione l’opinione dell’altro e, magari, a rivedere la mia. Che, da quel momento in poi, avrei dovuto imparare a convivere con l’incertezza e il dubbio.
Complimenti. E’ verissimo che la prassi GPMS, nel recuperare fattivamente i familiari come bisognosi di cura e contemporaneamente come fattori di cura, ha contribuito e contribuisce a superare quel fraintendimento che vedeva i familiari come responsabili, e quasi colpevoli, del malessere del paziente “designato”. Fraintendimento di tante importanti lezioni, a partire da quella freudiana sulla problematica edipica, dalla proposta della terapia familiare, da quella basagliana che (col suo debito anche a Goffman) additava la valenza patogena delle istituzioni, delle quali qualcuno tendeva a ritener complici da un lato i familiari, dall’altro un ordinamento sociale repressivo: aspetti esaminati a fondo in testi come “Normalità e follia nella famiglia”, di Laing.
Questo filone di ricerca e prassi, pur importante, si è prestato nel pubblico e in alcuni operatori più ingenui in un attacco alla famiglia tout court . Il vecchio film “Qualcuno volò sul nido del cuculo” addita la madre del paziente come attiva complice della repressione manicomiale. Solo un film, si dirà: ma ricordo bene come, nell’entusiasmo degli anni 60, alcuni operatori “risolvevano” la difficoltà del rapporto col paziente spostando il male sui genitori. “poverino, con i genitori che si ritrova”. Qualcuno si ritrovava spiazzato nell’accorgersi che la condizione di qualcuno degli ascendenti era francamente psicopatologica; ciò che lo spostava dalla condizione di colpevole a quella di vittima (di chi? dei nonni?)
C’ da esser grati a chi propugna e applica la GPMS anche perchè favorisce il definitivo superamento di tali atteggiamenti, vetusti ma che potrebbero rinascere.